Sopravvivere a sé stessi: ‘Day’ di Michael Cunningham | Rolling Stone Italia
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Sopravvivere a sé stessi: ‘Day’ di Michael Cunningham

Attraversare la pandemia di Covid-19 come metafora per fare i conti con sé stessi, ogni giorno. L'ultimo romanzo di Michael Cunningham racconta le sfide quotidiane delle persone normali alla ricerca della sopravvivenza

Michael Cunningham

Michael Cunningham

Credits: Ulf Andersen via Getty

In Day (La nave di Teseo) Michael Cunningham utilizza i punti di vista di tutti i protagonisti – a volte perfino quelli delle comparse – tranne quello di Odin che, il 5 aprile del 2019 (uno dei tre 5 aprile in cui è ambientato il romanzo: seguiranno quelli del 2020 e del 2021), è ancora un neonato. A quale età un personaggio è maturo per offrire ai lettori la propria interpretazione della realtà? Quali facoltà deve avere sviluppato per permetterci di osservare il mondo attraverso i suoi occhi? «Finché non compiamo due o tre anni» dice Cunningham, «non esiste una vera differenziazione tra noi e gli altri, in fondo non capiamo che le altre persone hanno una vita propria». Forse, oltre a questa consapevolezza dell’altro, a Odin manca anche la capacità di mentire a se stesso. Che invece pare il principale talento degli altri protagonisti di Day.

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Isabel e Dan vivono a Brooklyn e fingono per un lungo periodo che il loro matrimonio sia sopravvissuto alla disillusione. Lei è una photo-editor alle prese con una consapevolezza crescente: il mondo delle riviste, per cui lavora da vent’anni, sta scomparendo. Lui è una rock star inflaccidita che star non è stata mai, immagina un rilancio dopo i quarant’anni e intanto si dedica con zelo da erbivoro alle faccende domestiche. Solo alla fine il fulmineo riapparire di un suo vizio di gioventù, la cui persistenza Dan ha tenuto nascosto prima di tutto a se stesso, creperà la maschera del padre di famiglia da pubblicità di merendine. Robbie, il fratello gay di Isabel, dissimula il proprio amore per il cognato, schiacciato tra i costi degli affitti newyorchesi, troppo alti per il suo stipendio da insegnate, la sua noia per il proprio lavoro, il suo desiderio di vivere altrove, di essere un altro. Questo desiderio è solo in parte placato dalla costruzione di un profilo Instagram fasullo: quello di Wolfe, «la versione migliore di Robbie, il suo gemello riuscito», dice Cunningham, «più affascinante, felice del proprio lavoro, con più amici del proprio creatore».

Lo scrittore, già premio Pulitzer nel 1999 con Le ore (La nave di Teseo), ha ambientato il suo ultimo romanzo a cavallo della pandemia e dice: «Quasi per compensare l’aspetto orribilmente impersonale del Covid, questa volta ho voluto scendere nelle estreme profondità dei miei personaggi. A scrivere si continua a imparare anche quando non si è più giovani scrittori. Monet ha cercato di rendere sulla tela la motilità dell’acqua tutta la vita, ed è morto quando c’era così vicino. Un bel modo di morire». Questa incongruenza tra ciò che i personaggi esplicitano di sé e ciò che i lettori intuiscono si nasconda sotto quell’esplicitazione permette alla storia di mantenere un dinamismo letterario, uno scarto anguillesco che la salva dalla presa soffocante dello psicologismo. Day parla di persone che cercano di adattarsi a un tempo troppo piccolo, e a uno spazio troppo piccolo. Quando sembrano aver trovato dimensioni più vaste – questa vastità è la morte, o qualcosa che le assomiglia. 

Un giorno è un tempo piccolo, ma non più di quanto sia piccolo lo spazio in un appartamento che una persona normale può permettersi oggi a New York. Day è anche una “real estate novel”. «Oggi non è possibile ambientare un romanzo a New York senza tenere in considerazione l’aspetto immobiliare. Come immagino debba succedere per Milano», dice Cunningham. «Solo i ricchi possono permettersi di viverci. Tra qualche decennio New York resterà un centro finanziario e il vero centro creativo dell’America sarà Los Angeles». Secondo l’autore, il dover fare i conti con i quattrini necessari per uno spazio vitale costringe i personaggi a saggiare la propria capacità di scegliere. Trasferirsi sempre più in periferia? In una fattoria nel Vermont? In una baita in Europa? «Molti scrittori americani, a differenza di ciò che avviene per la maggior parte degli scrittori sudamericani o africani, sembrano ambientare le storie in un vuoto pneumatico», dice Cunningham. «Mentre la politica in senso ampio, cioè il mutevole sistema di forze che determinano il mondo, modifica e limita la facoltà di decidere delle persone, e quindi dei personaggi che alle persone si ispirino».

Qualcosa di simile avviene in quel piccolo stato autarchico che è il romanzo, il cui dittatore è il romanziere. «Day è basato su miei conoscenti. Una coppia dove il marito è innamorato del fratello gay, per esempio. In realtà il modello è incredibilmente affascinante, mentre io volevo Dan più simile a noi, volevo che i protagonisti fossero persone normali». E, fin qui, siamo ancora sotto l’autorità di quel sistema di forze che prescindono dagli individui, e che nel processo creativo sono incarnate dall’autore tiranno. «Man mano che scrivevo», continua Cunningham, «i personaggi sono però diventati protagonisti della storia, e io mi sono ritrovato a osservare le loro azioni autonome. Come la vita reale, un libro è una commistione di conscio e inconscio, di caso e volontà». Questa ammissione di impotenza del demiurgo, questo ritrarsi del politico permette di sperare – tanto sulla superficie della pagina quanto su quella terrestre – in uno spazio e in un tempo sufficienti per la salvezza.

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