Il rapporto tra cibo e piacere, tra cibo e necessità è così stretto e inestricabile che rappresenta la prima esigenza dell’essere umano e anche la sintesi del suo modo di pensare e agire. Tra ricerca del godimento e urgenza di sfamarsi, l’umanità si affanna (e si affama) stretta all’interno di due dinamiche che non sono mai isolate, ma che al contrario si alimentano reciprocamente. Che negli ultimi tempi il cibo rappresenti un’ossessione è significativo sotto vari punti di vista, a partire da quello probabilmente principale e più evidente: un sentimento diffuso seppur non troppo esplicitato di paura, di terrore vero.
Il cambiamento climatico, come si dice in maniera paludata e rassicurante, è infatti il sinonimo di un tracollo ambientale che ogni giorno rende sempre meno ospitale (per noi umani) il pianeta Terra, mettendo così in forte discussione un sistema sociale e produttivo che parte da un processo di approvvigionamento del cibo così denso e ricco di contraddizioni da cui pare difficile tirarsi fuori.

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Un sistema che basa infatti la nostra stessa civiltà sull’uso fossile, ovvero un sistema concettualmente e intrinsecamente inquinante, per quanto ne sappiamo e fino a prova contraria. Un’ossessione dunque, quella per il cibo, che ci aiuta e ci ingrassa (almeno in questa parte dell’emisfero terrestre) rimandando un po’ più in là (ovvero in quell’altra parte dell’emisfero terrestre) i conti da fare e una sempre più probabile fine di questo nostro stile di vita messo in discussione dalla realtà e dai dati.
Il cibo quindi è anche una fuga dalla realtà, e questo sembrano rappresentare in ultima analisi le trasmissioni tv dedicate che affollano i palinsesti, tra gare gourmet e scoperta di cibi tipici. E ancora di più gli influencer, più o meno preparati, che affollano i canali social, tra food porn e nuovi locali più o meno stellati da provare, degustare, scoprire.

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Una Babilonia dello sconforto e dell’eccesso alimentare, un trionfo di glicemia, grassi e colori. Un’eccesso anche nei casi migliori di raffinatezza e cura, che sembra, pure nelle figure più virtuose di professionisti e di chef, offrire più che altro un distacco improvvido da una realtà sostanziale. Luoghi in cui il cibo raggiunge la forma evidentemente assurda di un culto, e quindi di costi assurdi dettati da una competenza certamente fuori misura, ma forse anche fuori di senno. Un mascheramento intellettuale che in nuce sembra contenere (forse solo) una visione culturale reazionaria. Un concetto piramidale ed esclusivo, che non sembra in grado di generare e supportare modelli diffusi né di alimentazione e tantomeno di sostenibilità economica.
Un virtuosismo solitariamente autoreferenziale, di cui proprio i principali esponenti dovrebbero iniziare a tenere conto, perché anche nelle cucine stellate dove tutto è calibrato e ben pensato lo spreco è all’ordine del giorno, seppure, possiamo dire, per via intellettuale. Uno sforzo e un’energia eccezionali votati ai pochi che rischia, se liquidato, di mutarsi in un’irresponsabilità politica sostanziale. Non si può vivere da monadi. Non basta pensare agli altri e al mondo nella forma di un’elemosina.

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Così, all’interno di quella lunga analisi dei dati che è una peregrinazione tra le enormi contraddizioni del nostro tempo, ecco che Vaclav Smil, uno dei più grandi esperti di scienze ambientali al mondo, affronta il tema del cibo e della fame con il fondamentale saggio Come sfamare il mondo. Storia e futuro del cibo (Einaudi, traduzione di Giacomo Manconi). Dopo alcuni eccezionali titoli (tutti da recuperare e leggere) come: I numeri non mentono, Come funziona davvero il mondo e Invenzione e innovazione, Smil affronta sempre partendo dai numeri il tema forse principale del nostro secolo, quello da cui tutto prende, forma proprio per il suo intreccio tanto seducente quanto ferale di necessità ed emozione.
Smil non si fa incantare dalle soluzioni facili, ed entra nella contraddizione di un tempo che cela nelle sue pieghe i limiti di un sistema che sembra proprio in questo modo auto-proteggersi, attuando forme inconsce di negazione e di autoinganno. Dagli sprechi energetici a quelli alimentari, da una cultura che vive di un eccesso assurdo fino al dramma della fame che si oppone a quello non meno grave di un’obesità occidentale sempre più diffusa, offrendo il panorama desolante di un’assenza di futuro complementare seppure di segno opposto.

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Smil offre uno contributo storico, che diventa poi un inquadramento utile all’analisi dello status quo. Così facendo, chiarisce anche le ragioni di aspetti che potrebbero apparire tanto insensati quanto impossibili da scalfire. È proprio attraverso il percorso storico che lo scienziato ceco ci porta le chiavi per una possibile svolta, la quale però deve passare anche attraverso una mutazione non tanto di stile e abitudini, ma della concezione con cui costruiamo socialmente attese e aspettative, desideri e ambizioni.
È fondamentale nell’analisi offrire infatti sempre una giusta elasticità, che permetta non tanto di permanere nella situazione attuale ma di comprenderne la complessità: «La nostra comprensione di queste interazioni tra sistemi complessi è in continua evoluzione e in continuo affinamento, ma le analisi più dettagliate di questi effetti si basano su modelli predittivi di lungo termine soggetti a problemi consueti, dalle supposizioni derivanti dalla nostra conoscenza limitata della natura complessa del cambiamento». In fondo l’uso e il consumo attuato storicamente dall’essere umano del mondo naturale è figlio proprio di una mancanza di comprensione e piena conoscenza dello stesso. Una dinamica che chiama un’assunzione di responsabilità, e che detta un percorso emotivo e sentimentale, per quanto all’interno di una visione logica e analitica.

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L’impressione è infatti che il piacere così tanto rivendicato sia ormai, più che una scusa, una patologia, e che sia ormai afferente più al kitsch che al desiderio. L’essenzialità del cibo è così visibile (e attraversabile) in un bellissimo volume sempre pubblicato da Einaudi di Jenny Linford, Nutrirsi. Storia di un gesto umano (traduzione di Valentina Palombi).
Un percorso illustrato che nasce delle ricche collezioni del British Museum e offre al lettore un’idea del cibo rappresentato, là dove il desiderio esprimeva ancora un’aderenza al naturale inteso sia come realtà ma anche come sogno, prima che questi due elementi venissero separati da un terrore panico che sembra ormai averci ridotti a ciechi viandanti.
Dall’antichità alla modernità fin de siècle, Nutrirsi sembra raccontare un percorso pienamente concluso che avrebbe bisogno da parte nostra di una drastica e radicale innovazione (anche sentimentale) e non di dell’esaltazione priva di ogni senso che caratterizza invece i nostri giorni di volgarità e diseguaglianza sempre più diffusa. Scrive Piero Camporesi: «Quando gli antenati sono dimenticati, i padri esclusi e le madri assenti, ai giovani non resta che il cibo degli orfani». Ricordare, dunque, sarebbe già un modo per mangiare meglio. Nel senso di salvarci da una morte che rischia di coglierci a pancia piena.








