Per le malattie invisibilizzate c’è ancora tanto da fare | Rolling Stone Italia
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Per le malattie invisibilizzate c’è ancora tanto da fare

Lo dicono i dati e lo racconta un libro uscito alla fine dell'anno scorso, 'Rebound' di Matilde Maitan. Che ci ha raccontato di come si debba sempre partire dal riconoscimento, quando si parla di malattie invisibili

Matilde Maitan Rebound

Matilde Maitan, autrice del romanzo 'Rebound'

Foto cortesia

Sono malattie invisibili, spesso lasciate al margine da un sistema sanitario che le ignora, riducendole a psicopatologie o normalizzando la sofferenza mestruale. Ma non è normale aspettare in media 10 anni per una diagnosi, se endometriosi, circa 5 se vulvodinia e 4 se nevralgia del pudendo – tutte patologie altamente debilitanti. Un lungo percorso costellato di sofferenza, farmaci e ignoranza collettiva che Matilde Maitan racconta in Rebound, il suo libro uscito per Giulio Perrone Editore a fine 2024. Un’esperienza di montagne russe personali che si fa lente di ingrandimento delle lacune sistemiche del nostro paese e di questioni cruciali di cui si parla ancora troppo poco. «Mi sono autodeterminata con le parole. Ma non parlo a nome di tutte. Io racconto la mia storia, il mio dolore. E offro le mie parole anche per chi non ha voce, per chi che non sa come fare. L’ho capito nel momento in cui ho iniziato a ricevere messaggi su Instagram da persone che non conoscevo e che mi ringraziavano perché il mio libro le ha fatte sentire capite e meno sole».

Vittoria, alter ego letterario di Matilde, ha dimenticato il blister con i farmaci da assumere ogni giorno, e che, quando interrotti, dovrebbero essere scalati gradualmente per evitare effetti collaterali, come attacchi di panico o depressione. Questo è l’effetto rebound in cui incappa, sprofondando progressivamente in un baratro oscuro, incagliata in una matassa che sente di poter districare in un solo modo: mettersi a scrivere. «Non sento di essere stata coraggiosa: ho risposto a un mio bisogno, sono stata quasi egoista. Però un “danno collaterale” positivo c’è stato: mi sono fatta cassa di risonanza per divulgare informazioni su condizioni ancora poco conosciute e per confrontarmi con altre persone nella mia stessa condizione, supportandoci a vicenda». La paura di non essere capita non è infatti solo una questione emotiva, ma ha profonde radici culturali che affondano nel vuoto informativo, legislativo ed educativo riguardo alla conoscenza e al trattamento di queste patologie – come avviene per molte altre parimenti invisibilizzate.

Rebound Matilde Maitan

Foto: press

Partiamo facendo un po’ di chiarezza: la vulvodinia è una malattia ginecologica che causa dolore vulvare cronico, soprattutto durante i rapporti sessuali, che colpisce circa il 12-15% delle donne; la neuropatia del pudendo, ovvero di uno dei nervi principali del bacino, è una condizione rara caratterizzata da dolore cronico nell’area pelvica, che colpisce circa 1 persona su 100.000 (di cui 7 donne ogni 3 uomini); l’endometriosi è un’infiammazione cronica degli organi genitali femminili e del peritoneo pelvico, e in Italia ne sono affette circa 3 milioni di donne (150 milioni a livello globale).

Sono malattie sempre più conosciute ma non rientrano (ancora) nei tre Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). A maggio 2022 è stata avanzata una proposta di legge bipartisan (PD e Lega) per il riconoscimento di vulvodinia e nevralgia, ma non è ancora passata. Al momento, dunque, le spese mediche e dei farmaci sono a carico dei pazienti, rendendo le cure inaccessibili a persone senza le risorse economiche sufficienti. Leggendo Rebound ci si può fare un’idea delle conseguenze di queste patologie, se non trattate. Solo l’endometriosi, dal 2017, è stata inserita nella LEA, ma esclusivamente per i due stadi più gravi (III e IV, moderata e grave). «Il che è assurdo, un controsenso», commenta Matilde. «Se una malattia può arrivare ad avere effetti gravi, tanto che il sistema sanitario li riconosce, perché non agire prima che progredisca? Tra l’altro, lo stadio della malattia e il dolore non sono direttamente proporzionali, anzi, quasi sempre gli stadi più giovani sono quelli che causano più sofferenza».

Ma c’è un motivo, che è culturale: per decenni, questo genere di patologie dei corpi femminili sono state sottovalutate, considerate e trattate erroneamente come disturbi psicogeni o ipocondriaci, mentre è ormai stato accertato che disturbi come la vulvodinia hanno una base fisiologica, con effetti cronici altamente invalidanti della vita personale. A un problema culturale non si può che far fronte tramite la conoscenza: da un lato è certamente compito di chi vive determinate situazioni quello di presentarle, trovando «le parole adeguate per spiegare che cosa succede al proprio corpo, i sentimenti che si provano, le terapie a cui ci si deve sottoporre», ancora Matilde. Allo stesso tempo, però, si deve creare uno spazio di ascolto e di messa in discussione, per aprirsi all’indagine di una serie di pratiche e aspettative socialmente definite da pattern patriarcali e di genere.

La responsabilità di questo dialogo deve essere a carico sì di entrambe le parti, ma anche e soprattutto dello Stato. Peccato che in Italia l’educazione sessuale sia solo un miraggio: secondo l’indagine L’educazione affettiva e sessuale in adolescenza: a che punto siamo? di Save the Children di febbraio 2025, solo l’11% degli adolescenti dichiara che la scuola ha offerto un percorso sul tema, mentre l’80% afferma di cercare informazioni online – spesso da fonti poco affidabili e zeppe di fake news. Se Matilde ha dovuto autodiagnosticarsi grazie ai social, per poi ottenere un riscontro medico, è evidente che c’è un vuoto che il sistema non riesce a colmare – eppure in altri Paesi ci stanno riuscendo, come in Spagna –, e la mancanza di educazione sessuale e di formazione scolastica sul corpo è uno dei pilastri dell’invisibilizzazione di queste patologie.

Il tabù del dolore mestruale, la mancanza di cultura del consenso, la reticenza a parlare di piacere femminile creano un terreno fertile per la normalizzazione del dolore mestruale, della narrazione della donna che si immola per amore. «Il punto non è evitare la sofferenza, ma togliere il dramma e il romanticismo dalla sofferenza e vederla per quello che è», afferma Matilde. In questo, la diagnosi in sé può diventare uno strumento di autocoscienza e riscrittura dei propri confini. «Sapere cos’hai ti permette di trovare finalmente le vie giuste per curarti», ma non è così semplice come sembra: «Prima della diagnosi, pensavo che il problema fossi io, oppure lui, o che non ci fosse compatibilità, e mi rimaneva la speranza che la volta dopo potesse andare bene. Invece ora so per certo che non succederà, so che non saprò mai cosa vuol dire avere un rapporto sessuale penetrativo senza dolore». Che poi possiamo anche affermare che non è sempre e solo l’unico sesso possibile, né il migliore (il 60% raggiunge l’orgasmo, contro il 77% con stimolazione clitoridea), anche se il filtro eterocentrico ci ha portato a pensarla così – chi non ha mai detto “non è che ci ho scopato!” come a sminuire un rapporto di cui ci stiamo già pentendo? «So che è vero, ma solo per cose che ho letto o racconti che ho sentito. Invece vorrei provarlo ed essere io a dire “ok, non è niente di che”, ma la verità è che non ho scelta».

In un mondo come quello di oggi dove tutto è molto veloce, ci diciamo di andare avanti, perché tanto possiamo sempre trovare di meglio. Quindi ci impigriamo di fronte alle problematiche, e invece di affrontarle ci si ferma e si cambia strada. «Devi partire dall’ascolto e fare i conti prima di tutto con te, per poi capire come incastrarti in una società in cui non c’è già uno spazio pronto», commenta Matilde, «e trovare le persone giuste per farlo insieme. Alcune si fanno trascinare in un abisso, e in un fondale buio diventa impossibile vedere gli altri. Riconoscere ed essere riconosciuti. Si riassume tutto in queste azioni quando parliamo di malattie invisibili». Il collante tra questi elementi è sempre e solo uno, conclude Matilde: «Non mettere mai in dubbio le parole di una persona affetta da malattie croniche invisibili».