Mi si può pure dire che io abbia una forma ossessiva verso la mia regione di nascita, l’Emilia-Romagna, ma Luca Tosi è uno che poi non è tanto diverso da me. Altrimenti uno non mi cita in esergo Giorgio Bassani e Nino Pedretti, e non si mette a scrivere un rovello di poche pagine però che corrono, tutto attorno a un povero diavolo di paese che suona come un mezzo scemo, e dentro c’ha tante di quelle cose, pure il concept dell’ultima serie di Ryan Murphy, quella su Ed Gein, solo che Ryan Murphy non lo sapeva e ha depositato il diritto d’autore, altrimenti Tosi sì che gliel’avrebbe fatta vedere, perché l’idea è qui, stesa alla visione di tutti, si chiama Oppure il diavolo ed è uscito oggi per TerraRossa Edizioni (una casa editrice che, almeno questa, con l’Emilia o la Romagna non c’ha a che fare, ed è pure strano, dato che Tosi è romagnolo).

Foto: press
Allora. A me piacciono i libri di Terrarossa, una realtà di dimensioni artigianali che non solo fa onore alla piccola-media industria italiana, quella che pure questo governo in teoria approvvigionerebbe ma poi chissà se la conosce davvero, altrimenti già Cavalieri del Lavoro, per quello che stanno facendo per la cultura italiana; ma ha anche portato in finale al Premio Strega l’esordio di un esordiente, Michele Ruol e l’Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, titolo wertmülleriano al punto giusto. Mi piacciono pure le persone del posto in cui sono nata, e non è mica sempre così. Ci ho pensato in questi giorni dove m’incagnavo a leggere di influencer che si fanno opinionisti e di opinionisti che vogliono fare gli influencer, e ognuno passa il tempo a convincere gli altri di essere nel giusto, e gli argomenti dell’uno e dell’altro sono sempre gli stessi, un pastrocchio che non se ne esce ché è meglio farsi i fatti propri, girare con il naso all’ingiù e rintanarsi nel primo bar che s’incontra. Che è esattamente quello che avrebbe fatto uno delle mie parti, impegnato a parlarsi dentro la testa in una lingua che sa di fiume, di musica, di terra che chiede e non molla, e ancora più preso a non dire un tubo di niente agli altri che incontra. Siamo poi sicuri che siano reali?
Perciò era tipicamente improbabile, che il secondo romanzo di Tosi, anche se per me va fuori dai generi, fregandosene all’esterno e quindi in realtà pensandoci tantissimo all’interno, ma proprio dialogando fitto-fitto, mi dispiacesse. È molto diverso dal primo (Ragazza senza prefazione, TerraRossa, 2022): differiscono ambientazione, protagonista, conclusione. Non cambia la voce, che è quella di uno bravo per istinto e per mestiere. Uno che ci piacerebbe sentire di più, ma allora poi non farebbe il romagnolo e non mi piacerebbe più, e insomma, come si vede, da questo gnommero non c’è fuga. Ma dato che per uno sotto i quarant’anni (classe ’90), in Italia, nella narrativa, averne pubblicati due consistenti, di gran livello, e che lascino una fame di futuro non risulta combinazione diffusa, è bene accontentarsi. Mettere a tacere la sete e assetarsi con questa benedetta prima pagina.
Entriamo a Poggio Berni, collocazione regionalissima, e tanto se non lo si sapesse non si faticherebbe a indovinarlo. Dalla lingua in primis, che vocifera tra dialetto e italiano parlato, tra quello che si sente per strada e ciò che si sottolinea sui libri (di altri emiliano-romagnoli). Dal dissidio di Natale, che è il narratore naturalmente inaffidabile, parla a noi come a se stesso e quindi, più che una storia, propone una cosmologia: il suo problema, sostanzialmente, è che conversa poco. Che è poi lo stesso degli incel (ma non è questo il suo caso), dei “matti”, dei semplici schizofrenici di pianura, dei monaci stiliti. Bisogna capire in quel lato di mondo collocarsi.
Non è facile, per Natale. I suoi assi cartesiani son venuti su storti, per questa linea retta di mondo che è la direttrice della via Emilia, e da un lato c’è il mare, dall’altro niente perché a sinistra non si risale, si può solo procedere “verso la foce”, e il conoscibile rimane sempre da questo lato. Nessun ghiaccio, nessun monte, nessuna fonte. Solo un pantano di mare dove l’Aldilà ha scavallato, ed è presente nelle case vecchie, che le finestre ridano o meno. Nelle strade quando c’è silenzio. Nei gesti che rimangono inespressi e il fare assume una sequenza di azione-reazione. La morale della favola è sempre farsi i fatti propri.
«Sarei dovuto andare da Spadazzi, il nostro dottore, parlar io per lei fin dall’inizio. Oppure, chiederle: come stai, mamma? Va’ là, evitavo. Domani, mi dicevo, domani glielo chiedo, poi ciao. […] Ho lasciato correre il male. Una punta, all’inizio. Poi, quasi c’ho soffiato sopra. Era la vendetta che volevo da piccolo, però con un sapore diverso. Non è mica vero che va gustata fredda».
Il bull’s eye su Natale, per il volo di queste pagine, sta tutto qua: nel prima e nel dopo di una malattia e di una madre, in un racconto che diventa memoria in primis per se stesso, per rintracciarsi, tirarsi insieme, farsi una spiegazione. Mica quello di un sempliciotto: Natale è uno scienziato dell’anima, con i mezzi suoi. Prova, riprova, come i bambini apprende solo a seguito di un risultato. Soprattutto negli affari dello spirito. Quello spartiacque, ed essendo sempre in sentore di Po non è metafora arida, è la genitrice. Assente, manesca, emotivamente violenta. Il primo vincolo dell’amore che si rende indisponibile. È il silenzio che vale più di mille parole, fino a che la stanza non sembra la stalla delle bestie, però. «Morta lei, io contro io, ero rimasto. Casa nostra era come impagliata. Stanze, corridoi. Tutto incriccato. Un silenzio del diavolo».
Ecco il protagonista reale, il demonio. Lo dice il titolo, no?, funziona così: Oppure il diavolo. Ma oppure cosa, viene da chiedersi, oppure un fico secco. È dentro gli oggetti, nei campi di notte, dietro una porta chiusa che abbiamo paura ad aprire. Non è, paradossalmente, nella morte. La morte è sempre la cosa più conosciuta, sulla pianura. Cavalca senza impedimenti. Quando attraversa il paese, sfila al cospetto di tutti. «Io non c’ho ricordi di altre vite, però di alcune morti sì. Certe volte mi sembra di sapere come ci si sente, a esser preso sotto da un autobus, o a finir fucilato in guerra da un soldato che è poco più di un bambino. Morti altrui, ma come se fossero le mie». È a vivere, che non si è mica capaci. Morire non fa notizia.
È un po’ una fiaba del terrore insomma, quella di Natale di Poggio Berni. La storia più antica del mondo, a cui ancora nessuno, da che mi risulti, ha trovato soluzione: sentirsi un po’ così, e non avere un termine esatte per dirlo. Allora bisogna fare grandissimi giri di parole.
Il più azzeccato nell’azzeccatissimo libro di Tosi è questo, per salutarvi: «Ma che c’entra, ‘sta storia, con lo stile della mia camminata? Non so, certe volte mi perdo. Dicevo, sull’erba ci cammino in punta. Però, in alcuni periodi, l’erba la calpesto apposta, più che posso! La scalcio, anche, e mi accovaccio e strappo i ciuffi come se fosse uguale, lasciarli vivere o ucciderli. Mi dico: cosa cambia? La gente, l’erba che schiaccia non la calcola neanche per sbaglio. Posso esserlo un cicinin anch’io, cattivo come gli altri. Penso siano Dio e il diavolo che si contendon me». Oppure senza niente prima, con il fiato sospeso. Come un’apnea. Un inizio in levare.








