Suzuki Izumi era una rarità. Attrice di pinku eiga, drammi softcore giapponesi degli anni Settanta, musa del fotografo Araki Nobuyoshi, emo girl ante(ante) litteram, potenziale protagonista in uno snuff movie di Roberto Deodato, Cannibal Holocaust o quello che volete. In una coppia (tossica?) con il sassofonista free jazz Abe Kaoru (si amputerà l’alluce di un piede per lui); scrittrice. Suicida a 36 anni il 17 febbraio 1986, a Tokyo. Si impiccò con dei collant a fianco della figlia avuta da Abe, mentre questa dormiva.
Suzuki scrisse con poca sistematicità e soprattutto a seguito della separazione (prima) e della morte (dopo, per overdose) di Abe. Saggi ma soprattutto fiction di fantascienza breve, che riflettevano il mondo emotivamente brutale dell’autrice ma anche i decenni più instabili del Giappone. Suzuki nasce nel 1949, si farà scomparire prima degli anni Novanta: quando tutto deflagrerà negli attacchi delle sette religiose, in lupi solitari di giovanissima età condotti a gesti estremi. Il futuro non esiste, come potrebbe? Le bombe, il balzo in avanti, la coscienza mai lavata e la consapevolezza che, forse, non è mai mutata. Che cos’è il futuro, nel Giappone del Novecento, per chi nasce in mezzo alle macerie?
Suzuki dà una risposta che, tra le parole, potrebbe risultare involontaria. Non lo è: negli anni Settanta il femminismo occidentale ha raggiunto il Giappone, e le sue ondate si stanno mettendo in dialogo con la società occidentale, i suoi schemi e riferimenti culturali. In Suzuki, la conversazione avviene in uno stato di grazia: parte dalla speculazione, arriva nella psicosi (il tema della salute mentale ritorna nell’opera dell’autrice), deflagra in bruscolini concentrati.
Per fortuna possiamo leggere qualcosa in italiano dall’anno scorso, quando add editore ha tradotto Noia terminale, collezione di racconti sci-fi con in apertura il primo mai scritto da una donna nel Giappone moderno (almeno secondo il canone letterario). Venerdì scorso è uscita invece la traduzione di un altro volume di racconti, Hit parade di lacrime, per la stessa casa editrice. Ma riamaniamo un attimo sul primo titolo.

Foto: press
Si tratta di Un mondo di uomini e donne: una società matriarcale governa il mondo, l’uomo è stato vinto dalla natura stessa. Il cromosoma Y si degrada, gli uomini sono trattati alla stregua di bestie infette. Riprodursi con un maschio è un’onta, o perlomeno qualcosa da ponderare con attenzione. Eppure i rapporti tra i sessi non sanno estinguersi. Entrano in campo nevrosi, segretezze, pensieri intrusivi. Ricordi di tempi diversi che non si sono vissuti, eredità che ci ritroviamo scaricate sul groppone. D’altronde, a nascere nel 1949, la Seconda Guerra Mondiale non la si è mica fatta. Però la si sente; la si sa, in un certo modo. La sofferenza diventa escapismo, fertilità immaginifica di mondi. «Ti prego, tu resta per sempre così gioioso: non essere mai serio e non soffrire mai. Sapere che rimarrai così in eterno mi rende felice. In qualche modo, lontano da me». Così si legge in You May Dream, altro racconto della raccolta. La responsabilità verso l’altro, e la collettività, decade. È l’individualismo che ormai si conosce, e che si inizia a decrittare nelle sue conseguenze pervasive e, ahinoi, durature.
Dallo stesso racconto: «Che io provi emozioni forti è un dato di fatto, mi arrabbio spesso. […] Mi arrabbio per non annoiarmi». Viene in mente la MPDG: Manic Pixie Dream Girl, definizione coniata da Nathan Rabin per descrivere il personaggio di Kristen Dunst nel film Elizabethown (2005). Un carattere che funga, paradossalmente per Suzuki, da interesse amoroso o sessuale di una controparte maschile. Qualcosa che dia una scossa, che muova in avanti la trama. Ce ne sarebbe anche per la sad girl, altro tropo culturale o moderno mito della femminilità (li chiamerebbe così la pedagogista e autrice Alessia Dulbecco): Lana Del Rey, Édith Piaf, Sylvia Plath, chissà chi fu la prima, nella notte, a mettere un broncio un po’ sexy e a ribellarsi con il languore. Ma lo sguardo è di nuovo maschile, pervasivo in quello che pensa la società. Tutto a misura di maschio, Suzuki non ci vorrebbe stare. Dall’uomo si scappa? E l’autrice, sad girl meets Manic Pixie. Chissà che ne penserebbe.
Intanto i nessi causali saltano, le voci si intersecano, non è flusso di coscienza libero però ne segue il ritmo. In sottofondo «comincia una canzone languida, di quelle che ti fanno venire voglia di morire». È Ricordi al Seaside Club, potrebbe essere una linea nella sceneggiatura di Twin Peaks. Il cinema e la musica farciscono Noia terminale, la collocano in un postmoderno che, per la sua natura di genere, vorrebbe sfuggirvi. Non ci riuscirà. Possiamo solo sentirci come l’ultima canzone fatta suonare, ancora una volta parole dell’autrice. «E mi sa che sei anche un po’ pazza».
L’ispirazione insomma è unitaria, in Noia terminale. Di meno lo è il passo della scrittura, ubi major nel senso che, a confronto con il racconto in testa al volume, il rischio è risultare un po’ minore. Nelle notti senza luna, sfogliare queste pagine può fornire, comunque, conforto. E porta inevitabilmente alla domanda: ma con che occhi sto leggendo? Sono un uomo o una donna? E guardo un uomo, o guardo una donna? Tutti i “miti” del femminile sociale hanno origine nel maschile. Suzuki Izumi è stata giudicata più per la sua figura che per la sua sostanza. Il merito in questo senso, cioè nel senso di un recupero al contrario, è anche della casa editrice giapponese Bun’yūsha, che ne ha avviato un processo di recupero letterario e non solo di costume a partire dalla seconda metà degli anni Novanta.
Ecco: quando una ragazza riempie troppe caselle ben collocate, è facile considerarla un fenomeno di costume. Quando, per Izumi, il sentimento è che al massimo, di costume ne abbia un po’ dettato. O che, in altro modo, alla fine non gliene importasse più di tanto, “proteggimi da ciò che voglio”, si legge ultimamente sulle t-shirt – ma è anche una canzone dei La Crus. Suzuki non era protetta, né da lei né da altri.
Una nota di fondo leggera, luminosa, comunque rimane. Non so nemmeno bene perché. La ritrovo in frasi come: «Il mondo è bello da straziarti il cuore. Si sente il profumo dolce della primavera». Anche illuminarsi così, tra le righe, è pur sempre una motivazione sufficiente a continuare. A vivere, naturalmente; ad annoiarsi.