Le star di internet devono molto a Jane Birkin | Rolling Stone Italia
it girl

Le star di internet devono molto a Jane Birkin

Un nuovo libro esplora "la ragazza della borsa" non come musa ma come forza culturale, capace di influenzare le generazioni a venire. Rolling Stone ne ha parlato con la sua autrice

(da USA) Jane Birkin

Jane Birkin nel 1971

Foto: Steve Wood/Evening Standard/Getty Images

Se scorrete internet per più di qualche minuto, è molto probabile che vi imbatterete in una frase che ricorre in quasi ogni ambito culturale: It girl. Reso popolare dalla scrittrice e regista britannica Elinor Glyn negli anni Venti, il termine It girl descrive una donna dal fascino difficile da definire ma impossibile da ignorare. Pur essendo tutte straordinariamente uniche — la modella Grace Jones, l’attrice Audrey Hepburn o la cantante Aaliyah sono solo alcuni esempi — una delle caratteristiche che le accomuna è la reazione che suscitano nella cultura che le circonda. Non ci si limita a guardarle. Si vuole essere come loro.

Quel desiderio possessivo e pieno di ammirazione è solo uno degli elementi che trasformarono Jane Birkin da giovane promessa britannica a icona amatissima — e famosissima — della cultura francese. Dopo i primi ruoli minori, conobbe il celebre cantautore francese Serge Gainsbourg quando recitarono insieme nel film Slogan del 1969. La sua carriera, sia nel cinema che nella musica, esplose grazie a quella collaborazione, che incluse la scandalosa hit Je T’Aime… Moi Non Plus. Anche dopo la fine della relazione con Gainsbourg, Birkin rimase un punto di riferimento per la moda e la cultura. È scomparsa nel 2023 nella sua casa di Parigi.

Quando la giornalista e scrittrice Marisa Meltzer iniziò a studiare Jane Birkin, conosceva già alcuni elementi fondamentali della sua vita e della sua presenza culturale. Birkin è nota soprattutto per la borsa che il designer di Hermès Jean-Louis Dumas creò pensando a lei, e che lei rese celebre decorandola con ciondoli e piccoli oggetti. Negli ultimi anni, però, il suo stile e le sue scelte estetiche hanno conosciuto una nuova ondata di interesse online (non è chiaro cosa stia alimentando questa fascinazione). Basta una rapida ricerca su TikTok per trovare centinaia di video virali in cui i creator mostrano come “Jane-Birkin-izzare” le proprie borse, dando loro la stessa usura e lo stesso carattere distintivo dell’iconico accessorio dell’attrice. C’è la moda francese che amava negli anni Sessanta e Settanta, reinterpretata in chiave 2020 con abiti a sacco, jeans a gamba larga e T-shirt semplici. Persino la mania dei Labubu, un portachiavi a forma di mostriciattolo dell’azienda cinese PopMart, ricorda i ciondoli che Birkin era solita appendere alla sua borsa. Ma, racconta Meltzer a Rolling Stone US, man mano che la sua ricerca andava avanti, ciò che la affascinava sempre di più era capire in che modo l’essere un’It girl e la carriera e le relazioni di Birkin — così pubblicizzate e sotto i riflettori — avessero influito su di lei stessa.

«Birkin è diventata una sorta di icona bidimensionale da moodboard online per i suoi outfit, ma si possono facilmente trovare sue foto senza avere la minima idea di chi fosse», spiega Meltzer. «Perfino alcuni dei suoi ruoli sono dimenticati o trascurati. Così ho pensato che fosse una vera opportunità raccontare la vita di qualcuno che si trovava al crocevia di così tanti tipi diversi di fama e di ambienti, ma che era un essere umano a tutto tondo e con una storia. Era molto più di una fidanzata bellissima e di un’icona di stile».

Nel suo nuovo libro It Girl: The Life and Legacy of Jane Birkin, uscito in America il 7 ottobre, l’autrice ripercorre il cammino di Birkin dall’infanzia precoce a Londra alla carriera di successo nel cinema francese, dai partner famosi all’attivismo degli ultimi anni, fino alla borsa che rischiava di oscurare tutto il resto. Meltzer ha parlato con Rolling Stone US dell’esplorazione della storia meno nota di Birkin e della cultura di internet direttamente ispirata a questa icona.

(da USA) Jane Birkin

Foto: courtesy of Simon & Schuster

Qual era il tuo rapporto con l’opera e la vita di Birkin prima di iniziare questo libro?
Conoscevo le linee generali della sua vita, quindi avevo una certa familiarità con lei probabilmente più attraverso la musica che la moda. Poi mi interessava come attrice, grazie ai suoi lavori in Blow-Up (1966) e La Piscine (1970). E poi, semplicemente nel corso della mia vita adulta, la Birkin bag ha assunto un’esistenza tutta sua, incredibile. È una delle borse più famose di sempre, e l’ha in qualche modo soppiantata. Lei si trovava al centro di molte delle mie ossessioni personali, e avevo la sensazione che ci fosse molto di più da scoprire.

Che tipo di ricerca hai fatto per costruire questo ritratto di Jane Birkin? Come pensi che i lettori potranno avere, attraverso il libro, uno sguardo nuovo o più profondo su Jane?
Ho fatto gran parte della mia ricerca a Parigi. Ho messo tutte le mie cose in deposito, ho portato con me il mio cane e ci siamo trasferiti a Parigi con due valigie. Ho vissuto lì per alcuni mesi e stare sul posto ha davvero contribuito a dare forma al libro. C’era una parte di semplice immersione nel suo mondo: andare nei ristoranti che lei frequentava e, purtroppo, visitare la sua tomba. Ero lì proprio nello stesso periodo in cui apriva la Casa-Museo Serge Gainsbourg e ho potuto visitarla, un’esperienza davvero spettacolare che ha messo in prospettiva molte cose. Nulla ti fa capire come qualcuno viveva meglio che entrare nella sua casa — soprattutto una casa conservata con tale meticolosità. E poi, naturalmente, consultare archivi di riviste, biblioteche. È stato un mix di ricerca archivistica approfondita — molto materiale che in tanti non avrebbero mai visto, anche perché gran parte era in francese — e di ricerca personale, attraverso interviste e cercando di calarmi nel suo mondo.

Parlami di alcuni dei pregiudizi o delle supposizioni su Birkin con cui hai dovuto confrontarti.
Credo che il principale fosse la sua spensierata ingenuità. È qualcosa di molto diverso dalla mia personalità e dal mio profondo cinismo verso il mondo. Ammetto che trovo questi tratti un po’ irritanti e respingenti nelle donne. È un mio pregiudizio, ma è come dire: “Hai trent’anni. Non vuoi comportarti come un’adulta? Non vuoi che il mondo ti tratti come una donna matura?”. Quindi mi sono trovata a dover affrontare i miei stessi pregiudizi nei confronti di quel lato da bambolina, femminile, che lei non aveva paura di mostrare. Inoltre, gran parte della sua vita — e quindi del libro — riguarda alcune delle sue relazioni celebri. Anche questo è stato qualcosa che ho dovuto superare. Non sono necessariamente uomini che io avrei scelto. E sicuramente lei non avrebbe scelto alcuni dei miei ex. Quelle relazioni erano davvero complicate, anche perché a volte potevano includere violenza. Soprattutto oggi, sarebbe stato facile rappresentarla unicamente come vittima. Ma non è il mio mestiere fare la morale o psicanalizzare qualcuno. Ho voluto semplicemente presentare i fatti come li avevo ricostruiti e, al tempo stesso, mostrare come Birkin stessa li vedeva.

Hai svolto molte ricerche approfondite e d’archivio per questo libro. C’è qualcosa che hai scoperto su Birkin che ti ha sorpresa?
In un certo senso, il suo rapporto con l’ambizione. Sarebbe facile cercare di leggere la sua vita come una sorta di riscatto da lieto fine hollywoodiano: quando, trentenne, lascia il suo compagno di lunga data, inizia a lavorare con registi d’autore e trova la sua voce. E di certo c’è stato un riscatto artistico personale. Ma in realtà era solo relativamente ambiziosa. Non è che poi sia diventata famosa in America o nel Regno Unito, vincendo un Oscar ed entrando in tutte le case. È rimasta in Francia. Ha continuato a lavorare nel cinema europeo. Denaro, fama e ambizione non erano i suoi motivatori principali, né unici. Raccontare una vita di questo tipo è un po’ più complesso di una classica storia di successo in tre atti.

(da USA) Jane Birkin

Marisa Meltzer. Foto: Jamie Magnifico

Come pensi sia cambiato il concetto di cosa significhi essere una It girl con l’avvento di internet? Soprattutto considerando che negli ultimi anni c’è stata una grande rinascita dell’interesse per Birkin.
Internet ha dato alle persone la possibilità di essere una It girl ovunque e in qualsiasi modo. Anche se credo che parte di questa definizione implichi che sia qualcun altro a incoronarti. Non penso sia qualcosa che puoi semplicemente proclamare da sola, anche se questo certamente non impedisce a qualcuno di provarci. Ma (internet, nda) l’ha un po’ democratizzata, nel senso che puoi seguire le tue It girl di nicchia. Puoi scoprire le It girl più famose in Cina, in Corea, in India o in Nigeria — luoghi con una cultura pop molto forte e radicata che non necessariamente arriva sempre negli Stati Uniti. Questo è un po’ il lato positivo della It girl su internet. Il lato negativo è che appiattisce moltissime persone. E il ciclo e il ritmo con cui tutto entra ed esce di moda è enormemente accelerato. Jane Birkin ha avuto il privilegio di essere una It girl per molto tempo, anche perché apparteneva a un’epoca in cui queste cose avvenivano con più lentezza.

Ti ha sorpresa vedere un tale ritorno di interesse per il lavoro e l’estetica di Birkin riemergere online, soprattutto attorno alla sua celebre borsa Hermès?
Sono stata in prima linea. Ero all’asta della Birkin originale quest’estate, quindi ho visto tutto da vicino. Penso che la Birkin sia stata una sorta di fiamma a combustione lenta, perché Hermès l’ha introdotta negli anni Ottanta, in un’epoca diversa. Ha avuto un successo graduale, ma è come una valanga che cresce e diventa sempre più grande e veloce. A un certo punto, forse con l’era di Sex and the City, è diventata una specie di scorciatoia simbolica per l’accesso agli ambienti più esclusivi. Poi l’abbiamo vista diventare l’oggetto del desiderio nel mondo delle star dei reality. La Birkin è diventata il segnale definitivo di “ce l’hai fatta”. Significava che potevi permettertela, che riuscivi a procurartela e che avevi anche un’occasione in cui sfoggiarla. Tutto ciò è diventato ancora più intenso con l’esplosione del mercato del resale. Oggi ce ne sono molte di più in circolazione, rispetto a quando bisognava aggirare il sistema Hermès per provare a comprarne una. Non so se sia stata la sua morte o i social media, ma l’idea di “Birkin-izzare” il proprio telefono o la propria borsa con ciondoli e Labubu ha davvero raggiunto l’apice quest’estate. Ed è quello l’ultimo status symbol: avere una borsa da 15.000 dollari e poi maltrattarla.

Pensi che Jane Birkin avrebbe mai indossato un Labubu?
Non credo. Forse se qualcuno glielo avesse regalato? Ma tendeva a essere più politica nel modo in cui decorava la sua borsa. C’erano spesso adesivi “Free Tibet” o di Medici Senza Frontiere, o di varie organizzazioni a cui era legata. A volte appendeva cose come mandala, ma aveva anche sempre con sé un tagliaunghie. Era un po’ più un approccio politico, oppure da white girl che viaggia in giro per il mondo, oppure, da tipa stramba che vuole avere un tagliaunghie con sé in ogni momento e che, per qualche ragione, decide di attaccarlo alla sua borsa.

Dove vedi oggi, da biografa di Jane Birkin, la sua influenza insinuarsi nella cultura contemporanea?
I tagli di capelli. Le frange sono ovunque. Il mio più grande successo con questo libro è stato non aver nemmeno preso in considerazione l’idea di farmi la frangia (ride, nda). Abbiamo capelli molto diversi, ma è una tentazione. Lei tentava le persone. Molti dei suoi abiti famosi dei tempi della giovinezza — i vestiti all’uncinetto macramè, le T-shirt trasparenti, i vecchi Levi’s, le Mary Jane — potresti indossarli oggi e non sembrare nemmeno particolarmente rétro. Sembreresti semplicemente cool. Ma penso anche che il modo in cui si vestiva nella mezza età e oltre sia in qualche modo sottovalutato. Indossava maglioni oversize, grandi camicie bianche da uomo, pantaloni di velluto a coste con le Converse, esattamente come molte donne si vestono adesso. Lei adottò davvero quello stile negli anni Ottanta e vi rimase fedele. Si è lasciata evolvere nel suo modo di vestire e nel modo in cui vedeva se stessa, e credo che questo sia stato probabilmente fondamentale sia per la sua felicità che per la sua longevità.

I tuoi libri tendono a concentrarsi sulle rivoluzioni femministe in diversi aspetti chiave della cultura. Ma negli ultimi anni ti sei soffermata su come grandi figure da “girl boss” abbiano costruito le loro fortune, come in Glossy, un’analisi approfondita sulla fondazione di Glossier, o in This Is Big, che ripercorre la storia di Weight Watchers. Dove vedi collocarsi It girl in questo percorso?
Amo le persone strettamente legate a un determinato periodo storico perché, come scrittrice, mi affascina la sfida e la ricchezza di dettagli che permettono di far rivivere quei tempi. Birkin si trovava al centro di due delle epoche che più mi entusiasmano: la Swinging London degli anni Sessanta, con il suo Youthquake, e poi l’allure notturna e disinvolta della Parigi degli anni Settanta. Questo era parte del fascino: immergermi in un’epoca che mi intriga profondamente. Ma, soprattutto, mi piace raccontare storie di donne. E (Birkin, nda) è l’esempio perfetto di persona ridotta a una figura bidimensionale, al punto che il suo nome non le appartiene più. Scherzo sempre dicendo che forse un giorno scriverò di un uomo. Ma non è ancora successo.

Da Rolling Stone US

Altre notizie su:  jane birkin it girl