Un libro con le immagini inedite di 'Non si sevizia un paperino' | Rolling Stone Italia
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Le immagini dimenticate di ‘Non si sevizia un paperino’, ora ritrovate

Il culto di Lucio Fulci non è mai stato solo un film del terrore: è sempre stato un documento storico, un modo per leggere il Paese di un tempo. E un nuovo libro di Bloodbuster, con un bel lavoro di archivio, ce lo ricorda

non si sevizia un paperino

Una foto contenuta nel volume di Bloodbuster 'Non si sevizia un paperino. Le foto ritrovate'

Foto: Biagio Salcuni/Bloodbuster Edizioni

Tutto inizia con l’inquadratura di un’autostrada che taglia un valico e poi il primo piano di una donna che scava nella terra estraendo lo scheletro di un bambino e quindi una macchina che attraversa l’autostrada. Un bambino la insegue con lo sguardo da un cavalcavia, poi uccide con la sua fionda una lucertola. La vista di un campanile di una chiesa e dei bambini in preghiera chiude la prima sequenza del film.

Nel 1972 l’Italia è ancora un Paese – quanto meno al Centro-Sud e nelle sue provincie più estreme – fortemente arretrato, legato a vecchi culti popolari e attraversato da un’arcaica cultura contadina. Ma al tempo stesso si avvertono proprio in quegli anni i primi scricchioli di una modernità non più sostenibile tra inquinamento fuori controllo e una crisi (quella petrolifera arriverà nel 1973 con la guerra dello Yom Kippur e le prime targhe alterne e domeniche a piedi) che sta mettendo per la prima volta in discussione l’efficacia della produzione industriale e di tutta un’idea di società che sembra aver rimosso il naturale se non per un suo uso esclusivamente strumentale.

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Foto Biagio Salcuni/Bloodbuster Edizioni

In questo contesto il cinema rappresenta ancora una delle più importanti industrie del Paese e il principale mezzo di comunicazione per gli italiani, tanto che proprio nel 1972 si realizza l’ultimo grande anno del cinema italiano con oltre cinquecento milioni di biglietti venduti. Da lì in poi, la diffusione delle televisioni e l’avvento successivo dei VHS avrebbero ridotto il cinema a un evento sempre più per pochi e occasionale e non più a un fatto (e a un rito) quotidiano, accessibile ai più diversi strati sociali. Ed è in questo contesto incerto, ma anche in ebollizione, che s’installa l’idea di cinema di Lucio Fulci, ovvero il lato più popolare e insieme radicale e anche osceno del grande schermo.

Lucio Fulci è un regista abituato a girare anche due o tre film all’anno, tra western, horror, fantascienza e gangster movie, ma è nel 1972 che tocca probabilmente l’apice del suo far cinema per equilibrio, misura e qualità. Il regista romano prende spunto da un fatto di cronaca, l’uccisione senza colpevole di alcuni bambini a Bitonto avvenuta l’anno prima, nel 1971. Un fatto che si trascina lungo le cronache dei giornali, tra presunti colpevoli, linciaggi e un sostanziale nulla di fatto: il colpevole non verrà mai trovato. Un impasto tipicamente italiano e non lontano dalle cronache giudiziarie che condiscono anche i nostri giorni, tra colpi di scena, colpi bassi, avvocati alticci e gossipari da Instagram.

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Foto Biagio Salcuni/Bloodbuster Edizioni

Un intreccio fatto di inquietanti connivenze, ignoranza e cialtroneria istituzionale. Un terreno ideale per un film di Fulci ovvero violenza oscena, mistificazione e credulità popolare abilmente miscelate. Prende così corpo l’idea di Non si sevizia un paperino, prodotto da Medusa, che garantisce a Lucio Fulci un cast di tutto rispetto: Tomas Milian, Barbara Bouchet, Florinda Bolkan e Irene Papas. Visto con gli occhi dell’oggi, Non si sevizia un paperino è un concentrato d’ingenuità, non poco didascalico nella trama e ricco di tutti quegli schematismi cari a un pubblico pruriginoso (principalmente maschile) e di semplici sentimenti. Tuttavia questo non gli impedisce di essere un film di culto – anche grazie alla straordinaria fotografia di Sergio D’Offizi – proprio per quell’impasto tipico di tutto il cinema di Fulci che non si limitava a raccontare una storia, ma anche a descrivere più o meno indirettamente il suo stesso pubblico.

Un’idea del popolare che non veniva lanciata snobisticamente dall’alto, ma che si autoalimentava della sua stessa appartenenza. Un’azione di rispecchiamento portata fino agli estremi e giocata su fatti di cronaca e di attualità che ne favorivano ancora di più la vicinanza per non dire l’aderenza. La pubblicazione da parte di Bloodbuster del volume Non si sevizia un paperino. Le foto ritrovate a cura di Michele Bisceglia (nipote di Salcuni) e Shyla N., offre ora un nuovo sguardo non solo su un film di culto, ma sui luoghi del film e su quel paesino del Sud che in quei mesi visse i suoi giorni di fama divenendo per intero il set del film.

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Foto Biagio Salcuni/Bloodbuster Edizioni

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Foto Biagio Salcuni/Bloodbuster Edizioni

Le fotografie di Biagio Salcuni ricomparse da una scatola dopo cinquant’anni offrono uno sguardo che permette in qualche modo al paese di Monte Sant’Angelo di riappropriarsi della propria identità, restituendo a chi oggi vede quelle immagini il ritratto di un mondo scomparso per sempre. Biagio Salcuni non era un fotografo professionista, ma il maestro del paese che si aggirava con la sua Lubitel acquistata dopo un corso di formazione utile a trasmettere successivamente la fotografia proprio ai suoi alunni. Le ottanta foto contenute nel volume si rivelano in realtà inizialmente come scatti dedicati quasi prettamente alle celebrità del film, solo a un successivo sguardo sui negativi i curatori vedono che gli originali invece comprendo anche un contesto oltre il taglio delle prime stampe.

Fotografie dunque inedite, che mostrano in maniera insita il lavoro degli attori e della troupe, ma anche e sopratutto l’accoglienza dell’intera cittadinanza che trasforma il set in una grande e allegra festa paesana. Il volume, frutto di un accurato lavoro di restauro che si deve a Shyla N., offre una documentazione del fare cinema e della realtà su cui la macchina dei sogni s’installava in quegli anni. Un documento prezioso che riporta il senso di un mestiere e di un’arte, ma anche quello di una comunità prima che tutto fosse spazzato via da una infinita sequela di schermature tecnologiche quanto economiche.

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Foto Biagio Salcuni/Bloodbuster Edizioni

Queste fotografie ora fortunatamente ritrovate non solo testimoniano l’impatto del cinema di un tempo sulla società e sui luoghi che da una parte rappresentava, e dall’altra invadeva, occupandoli pacificamente come fosse un luna park; ma anche che l’idea stessa di fare cinema portava con sé attori celebri, maestranze e tecnici di assoluto valore.

Tra le fotografie spicca il rapporto affettuoso tra Irene Papas e la piccola Fausta Avelli, abbracci e coccole. E più in generale si fatica a distinguere chi fa cinema da chi è solo spettatore, perché tutti concorrono alla festa tra gli sguardi divertiti di Florinda Bolkan e di Tomas Milian: dai pranzi conviviali in costume di scena, alle lunghe pause tipiche di un set, cercando un riparo dal sole o magari schiacciando un pisolino. Più che foto di un set e del suo backstage, le immagini di Biagio Salcuni ricordano un album di famiglia dall’impronta neorealista, forse una delle ultime testimonianze prima che il colore arrivasse a invadere elettricamente le giornate degli italiani, dalle riviste alla televisione.

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Foto Biagio Salcuni/Bloodbuster Edizioni

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Foto Biagio Salcuni/Bloodbuster Edizioni

Una modernità vista con sospetto e rappresentata nel film dalla disinibita e immorale presenza della giovane Patrizia, interpretata da Barbara Bouchet. Patrizia è obbligata dal padre a vivere nel piccolo e isolato paese per il suo passato poco consono, tra droga e facili costumi (come si usava dire un tempo). Vive in una casa moderna – da architetto – l’unica del paese, ma anche lei finirà vittima, nonostante la sua apparente distanza dagli altri, delle dicerie e delle mistificazioni. Due mondi, uno reale e contadino, e uno tentato: quello di un modernità libera, laica e priva di pregiudizi, che si mischieranno producendo forse il peggio di entrambi, dando libero agio a ogni più turpe pulsione e vizio.

Quello il vero scandalo, quella la vera disgrazia che in qualche modo Lucio Fulci preannuncia con la sua pellicola. Là dove la morale della Chiesa non si rivela infine altro che l’elemento più evidente di una perversione nascosta.