Ce l’hanno ripetuto allo sfinimento i nostri genitori: «Stare davanti al telefono ti friggerà il cervello» e quando abbiamo cominciato a vederli con gli occhiali sulla punta del naso a scambiarsi video creati con l’IA nelle chat Facebook, allora abbiamo finito per interiorizzare il concetto.
Siamo la generazione diventata adulta con Internet e ne siamo fottutamente spaventati. A dirlo non sono io, ma una schiera di scrittori, anzi facciamo una e mezza. Perché c’è un intero filone letterario che va dai 40 anni suonati di Tony Tulathimutte ai 20 appena compiuti di Honor Levy, che è ossessionata dall’esplorazione dei meccanismi del mondo online, che prova a scandagliarne i meandri più sgradevoli e sporchi attraverso romanzi o raccolte di racconti brevi.
L’antidoto che accomuna questa corrente di scrittori è l’ironia, con cui attutiscono il ronzio del computer, i sensi di colpa del politicamente corretto e il terrore viscerale di un’identità online in cui non si riconoscono. Eppure, nonostante le battute con riferimenti a meme, video TikTok e subcanali Reddit, la conclusione a cui arrivano è sempre la stessa: il mondo digitale ci ucciderà, come una letale bomba nucleare.
Questa è più o meno la sottotrama dei libri – alcuni editi in italiano, altri no – come Fake Accounts di Lauren Oyler (2021), Nessuno ne parla di Patricia Lockwood (2021), Rifiuto di Tony Tulathimutte (2024), Moderation di Elaine Castillo (2025), The Endless Week di Laura Vazquez (2025). Certo, una manciata di libri non costituisce una generazione di scrittori, ma limitiamoci a dire che stiamo ammettendo sempre di più il mondo online in quello letterario. C’è chi lo romanza e lo racconta, a volte con una punta di romanticismo, molto più spesso con una vena thriller, barcamenandosi tra identità frammentata e postmodernità. C’è chi invece lo dipinge nudo, crudo e terrificante.
In questa seconda categoria rientra Il mio primo libro di Honor Levy, romanzo d’esordio dell’autrice, pubblicato in Italia da Mercurio Books, a settembre 2025. Il mio primo libro è composto da una serie di racconti in cui Honor Levy analizza l’influenza del mondo online sulla sua esistenza, fin dai primi anni di vita. È un libro e un momento di doomscrolling, con alcuni contenuti interessanti, altri trascurabili, tutti narrati in un perfetto e frenetico linguaggio social.

Foto: press
Doomscrolling è forse la parola chiave di quest’opera, da considerare separando le due metà semantiche del termine. Lo scrolling che ci porterà al doom, all’Apocalisse. È questa la sensazione che fa da sottotrama ai diversi racconti del libro e a cui Honor Levy dedica persino un capitolo, La fine, accompagnato dall’emoji dell’oscuro mietitore in un campo di pannocchie. Sì, perché lo spirito del mondo è incarnato dall’arcaica divinità olmeca del mais, soggiogata e smembrata nel corso di secoli di colonizzazioni e violenze, in paziente attesa del momento della vendetta che arriva, prima infondendo il sangue degli umani con microplastiche, poi in una sorta di rigenerativo Big Bang. All’esplosione sopravvivono solo Honor Levy e una sorta di gigantesco guerriero mormone. Divertente, no?
I racconti della scrittrice classe 1997, nata a Los Angeles, laureata alla Bennington University e autrice per il New Yorker e New York Tyrant, si nutrono di vocabolario Gen Z – kawaii, asmr, impero romano, waifu, emoji del tulipano, Bella ed Edward – e si mescolano a nozioni scolastiche – Orfeo ed Euridice, il Re Sole, Caligola a Broadway, Taxi Driver. E poi ancora agli scossoni sociali di questo secolo: il catcalling, la cancel culture, il privilegio, il mansplaining, l’Adderal e la ketamina, il liberismo, il revenge porn, i nuovi significati delle parole. Honor Levy dedica un capitolo con un lungo glossario alla ridefinizione delle parole, a come questi termini – autismo, cringe, IRL, nerf, sicuro, woke, UwU, zoomer – siano la chiave, se non per comprendere, almeno per analizzare, la nostra società. Il nostro rifiuto categorico delle etichette e il disperato bisogno di trovare nuove definizioni per raccontare chi siamo. Per trovare la nostra identità.
Honor Levy si definisce, senza paura, «Una losangelina privilegiata insoddisfatta del proprio peso» cresciuta con un sacco di domande a cui «Google aveva un sacco di risposte». La critica della società è spietata, così come quella personale, il suo ripercorrere un’infanzia innaffiata dal lato più oscuro e primordiale di Internet, l’adolescenza di strani incontri online, un presente in cui scegliere una fazione in cui schierarsi sembra l’obbligo morale più pressante. Nel Mio primo libro ci sono tantissime riflessioni, a volte pungenti, altre caotiche, sicuramente abbondanti. È una lettura in formato TikTok, dove sembra di scorrere all’infinito contenuti e concetti in formato breve, passando da uno all’altro senza sapere cosa rimarrà in te di ciò che hai appena visto.
Come alcune altre opere degli autori “cronicamente online”, è un libro che richiede un’attenzione spezzettata: puoi leggerne un pezzo, passare 10 minuti sul telefono, e poi riprendere, senza sforzo. Più che strizzare l’occhio a chi è come lei, la sensazione è che Honor Levy cerchi di spiegarsi, di raccontarsi, di scaricare sulle pagine il contenuto caotico e affollato di un cervello pervaso da meme e cultura, progressismo e arretratezza, stereotipi e nuove identità, empatia e violenza.
Dopo averlo riversato la sensazione è comunque quella di nausea dovuta alla sovrastimolazione, all’essere rimasti schiacciati dal caos, invece di averlo riconosciuto e ordinato. Nel gioco voluto di Honor Levy, tutto si mescola e diventa irrilevante: conoscere storia e arte non ci salva più, vale quanto 3 minuti della nostra vita spesi a guardare un tutorial di trucco su YouTube.
Tutto è intercambiabile, noi siamo intercambiabili, niente importa. Se la generazione di scrittori tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale scriveva lunghi romanzi sulle tensioni politiche e una guerra che si faceva via via più vicina e concreta, questa generazione avverte un generico senso di pericolo, un impalpabile Giorno del Giudizio che incombe su di noi attraverso la fibra ottica. Forse perché tutto ci terrorizza ma niente ci fa più impressione, la risposta rimane immobile e invischiata davanti allo schermo: «Siamo tutti abituati alle guerre che non finiscono mai e alle elezioni che non cambiano niente e al clima che invece cambia tutto, sintetizza Honor Levy in uno degli ultimi capitoli «di fronte ai fari abbaglianti dell’ecatombe imminente, a prescindere da quanto sia vicina, restiamo paralizzati come il cervo che rimane immobile al centro della strada, ed è in quella paralisi che viviamo la nostra vita».
È questa la voce dei nostri tempi? Sono queste le storie per cui verremo ricordati? Se lo chiede anche Honor Levy, ma la risposta non c’è ancora.








