Diversi anni fa, ho sviluppato un’ossessione morbosa per il concetto di Oubliette.
Per coloro che non trascorrono le notti a leggere di pratiche di tortura medievali, l’Oubliette era una prigione a forma di bottiglia con un’unica, piccola apertura in cima che lasciava a malapena entrare la luce. Il prigioniero veniva gettato in fondo alla fossa, che era così stretta da impedirgli di sdraiarsi, e lasciato lì per giorni.
Perversamente, queste celle sotterranee erano spesso collocate in zone del castello dove il prigioniero poteva sentire il delizioso odore di cibo che veniva consumato o le risate delle feste, mentre le sue grida cadevano nel vuoto. Quando alla fine moriva, nessuno si preoccupava neanche di recuperare il corpo. Il nome elegante di questo marchingegno così orribilmente semplice deriva dalla parola francese oublier, che significa «dimenticare».
Questo concetto è diventato, per molti versi, l’idea di base del Luogo Sommerso di Get Out-Scappa, dove, attraverso l’ipnosi preoperatoria e la neurochirurgia, i neri venivano spediti in queste Oubliette psicologiche. Luoghi in cui venivano privati di ogni potere e lasciati soli a soffrire. Dove potevi vedere la vita scorrerti accanto, ma eri essenzialmente uno spettatore – dimenticato da tutti.
I dettagli del Luogo Sommerso che si vedono in Get Out-Scappa sono stati adattati al personaggio di Chris, e sono assolutamente personali: non sono validi per tutti. Il Luogo Sommerso di Chris è il riflesso del suo trauma infantile più profondo: sua madre è morta in un incidente e lui non aveva fatto nulla, era rimasto seduto a guardare la televisione, in preda alla paura. Ho sempre immaginato che il Luogo Sommerso di ognuno di noi abbia un aspetto diverso, che sia una manifestazione dei nostri personalissimi orrori.
Quando ero bambino, il Luogo Sommerso di Chris rispecchiava per diversi aspetti il mio, almeno per come si presentava. Mi sedevo a fissare lo schermo e desideravo disperatamente essere dall’altra parte. L’horror è una catarsi che avviene attraverso l’intrattenimento. È un modo per elaborare il dolore e le paure più profonde, ma per i neri questo non è possibile, non lo è stato per decenni, anni e anni in cui le loro storie non sono state raccontate.
In questa raccolta, diciannove brillanti autori neri ci regalano i loro Luoghi Sommersi, le loro Oubliette. E non potrei essere più lusingato e onorato di vedere il mio nome accanto al loro. Le Oubliette si dispiegano sotto diverse forme: danze con il diavolo, fantasie di realtà alternative, mostri reali e immaginari. Sono manifestazioni crude dei nostri desideri e dei nostri pensieri più profondi. E non saranno dimenticate.

Foto: press
Il demone vagabondo, di Caleb Turnbull
Quando Freddy era bambino, sua nonna scherzava così: «È come se tu avessi una faccia dietro la testa e i piedi che vanno qua e là, sembri sempre diretto da qualche parte anche se sei appena arrivato». A volte concludeva la battuta con un rimprovero serio: «Anche tua madre era così. Dio solo sa dov’è andata a finire».
La madre di Freddy era scappata il giorno del suo trentesimo compleanno. Sarebbe stata una tragedia se non avesse lasciato un biglietto. Aveva scritto che sarebbe andata a ovest per inseguire i suoi sogni. Con il biglietto, invece, la tragedia era stata di tutt’altro tipo. Sua madre era una cantante bellissima. Freddy aveva sempre guardato la televisione sperando di vederla lì dentro, col volto che gli sorrideva attraverso lo schermo.
In quella fantasia, la canzone sarebbe stata dedicata a lui, il suo Freddy, dal quale sarebbe tornata non appena avesse avuto abbastanza soldi. Sarebbe venuta a prenderlo e l’avrebbe cresciuto in una di quelle ville di Hollywood. Sogni da bambino. Pure il nonno di Freddy era scappato. E non si era fatto più vivo. E così, anche se la madre e il nonno di Freddy non c’erano più, e anche se nemmeno lui voleva stare lì, la voglia di fuggire che condivideva con loro lo faceva sentire parte di qualcosa: una stirpe di gente che se ne va.
A sedici anni lasciò la Georgia scrivendo anche lui un biglietto. Sarebbe andato a ovest per cercare sua madre. Arrivò fino in Texas. Era la metà degli anni Novanta, quando internet era ancora troppo agli albori per poterlo usare per trovare qualcuno. Da quando aveva lasciato quel biglietto, sua madre non aveva mai chiamato casa. In Texas, Freddy si trovò una ragazza e lavorò in nero come lavapiatti. La vita che stava vivendo diventò lo scopo della partenza. E se la godette fino a quando la smania di andarsene lo prese di nuovo. A est verso il Mississippi, a nord-est verso il West Virginia, e poi ancora a nord-est verso Boston, New York e a ovest verso la Pennsylvania. Conobbe Dilah a Pittsburgh, poco prima che Obama venisse eletto. Freddy era più grande. Lei aveva appena finito il college ed era molto matura per la sua età. Matura nel senso che sapeva come girava il mondo. Parlava sempre di politica. Freddy le piaceva perché aveva le mani ruvide e guardava le persone negli occhi quando parlava con loro. Era un tipo in gamba: come le piaceva dire, sapeva muoversi nel mondo. Si completavano a vicenda.
Così bene che Freddy rimase a Pittsburgh più a lungo del previsto. Il vagabondo che era in lui gli aveva detto di fermarsi per un anno. Era lì già da tre anni. Dilah era diversa da lui in molti modi, ma il più evidente era l’amore per la famiglia. Aveva fatto domanda per le università solo in Pennsylvania, perché non voleva allontanarsi dalle due nipoti, figlie di suo fratello, a cui era molto legata. Sua madre e suo padre non avevano divorziato come i genitori di molti suoi amici. Dilah a un certo punto avrebbe voluto sposarsi. E forse, dopo qualche anno di lavoro nella politica locale, avrebbe voluto dei figli. Il che significava che Freddy doveva andarsene. Non voleva farle perdere altro tempo.
Non che Dilah fosse contraria al desiderio di Freddy di viaggiare. «Possiamo viaggiare insieme», diceva. «Possiamo andare dove vuoi. Sono disposta anche a spostarmi in un altro Stato. Basta che possa raggiungere Pittsburgh con un volo breve». Dilah non capiva il motivo per cui Freddy avesse bisogno di andarsene, e lui non aveva cercato di spiegarglielo. Partire andava bene solo se non aveva intenzione di tornare. Perché il punto stava tutto nel partire, appunto. Tante volte aveva già pensato di fare le valigie e andarsene, aveva persino sentito quel formicolio alla nuca mentre rifletteva su dove sarebbe andato, quella sensazione di giustizia al pensiero di atterrare a Detroit. Era sempre facile andarsene. Aveva lasciato altre ragazze nello stesso modo, cancellando il contratto telefonico e salendo sulla sua Honda Accord strombazzante nel bel mezzo della notte.
Ma Dilah era diversa. Dilah era diversa, e poi l’amava davvero. Però pensava a sua madre, a trent’anni, con una vita e un figlio che non voleva. A quel biglietto orribile. Nemmeno una parola per suo figlio. Sapeva di avere dentro la stessa cosa che era dentro sua madre, lo sentiva così profondamente che non aveva mai trovato il coraggio di odiarla. Ma voleva essere migliore di lei. Solo i veri malvagi si costruiscono una vita che sanno di dover abbandonare.
Freddy pensava che Dilah sospettasse qualcosa, anche se non era in grado di affrontarlo direttamente, o non voleva farlo. Affrontava l’argomento sempre in modo indiretto. «Oggi ti ho visto con le mie nipotine», gli disse una volta, quando si misero a letto. Il resto non lo pronunciò. Gli aveva già detto altre volte che era bravo con i bambini. Con loro era sempre spontaneo. Come lo era con tutti, affermava Dilah. Riusciva a divertirsi con loro senza aver bisogno di farsi piccolo, proprio come sapeva divertirsi con i suoi coetanei, persone di maggior successo, senza aver bisogno di ingigantirsi.
Era stato con le sue nipoti il fine settimana precedente, in occasione di una riunione di famiglia che era stata
organizzata senza una ragione precisa. Era il modo in cui ai parenti di Dilah piaceva fare le cose: riunioni di famiglia solo per il gusto di farle. Il fratello si occupava della griglia e Freddy lo aveva aiutato per un po’, fino a quando il padre non era venuto a dargli il cambio. Il padre di Dilah era piuttosto gentile, ma Freddy era bravo a capire le persone. Pensava che Freddy non fosse abbastanza, per Dilah. E Freddy era d’accordo con lui. Aveva trovato le due nipoti in salotto e aveva insegnato loro un gioco, jhyap, che aveva imparato da un amico su un treno per Birmingham. Era un gioco nepalese. Le nipoti erano sveglie e avevano imparato subito le regole. «Sei mai stato in Nepal?», gli aveva chiesto la più piccola delle due. «Mai. Forse un giorno ci andrò». «Se tu e Dilah ci andate possiamo venire con voi?», aveva chiesto la più grande.
Freddy aveva deciso di non rispondere. Era superstizioso quando si trattava di promesse, soprattutto se riguardavano cose troppo lontane nel tempo per permettergli di fare previsioni su dove sarebbe stato. Annuì, abbastanza lentamente da convincersi che fosse un cenno contemplativo e non un sì.
Le bambine erano comunque contente, e fecero molte domande sul paese, a cui Freddy rispose come poteva. Notò Dilah all’ingresso, vide l’approvazione nei suoi occhi. A letto, riuscì ad avvertire il sorriso nella voce di Dilah mentre diceva: «Ovunque vorrai andare, basta che tu me lo chieda. Organizzeremo tutto e partiremo. Porteremo con noi le bambine. Non hanno mai lasciato il paese, sai?».
Freddy rimase in silenzio, improvvisamente consapevole di avere i piedi gelati. Neanche lui aveva mai lasciato il paese. «A cosa stai pensando?», gli chiese Dilah. «Non lo so», rispose. Ma lo sapeva. «Stavo ricordando una stazione ferroviaria giù in Georgia. Poco fuori Atlanta. C’era questo vecchio signore…», Freddy lo chiamava signore per via dei suoi bei vestiti, nonostante fossero un po’ logori, «ed era seduto per terra, spalmato contro il muro, anche se c’erano file di panchine vuote. Aveva un vecchio banjo scassato che stava pizzicando con le unghie lunghe e spesse. E cantava. Una voce piena di ghiaia, sabbia e segatura. Riuscivo a malapena a distinguere le parole della canzone, ma ti giuro che era la cosa più incredibile che abbia mai sentito, prima di allora o
dopo. Un ritmo ossessivo. Mi sono avvicinato e ho messo qualche soldino nel suo cappello a cilindro – sì, quell’uomo aveva un cilindro –, solo qualche spicciolo che avevo in tasca. Mi ha guardato, ha smesso di suonare e mi ha chiesto di sedermi accanto a lui per un po’. Mi sono presentato. Lui ha sorriso e ha detto che mi conosceva già, che ero un demone vagabondo come lui. Ha detto: “Oddio, in realtà io non sono un comune demone
errante. Sono Black Billy in persona”. Non capivo di cosa stesse parlando, ma ho fatto finta di seguirlo. Mi ha chiesto se volevo sapere qualcosa della strada che avrei percorso. Ha riso della mia confusione, una risata che era come il suo modo di cantare, come se avesse le corde vocali tutte arrugginite, poi mi ha predetto il futuro.
Ha detto che avrei incontrato una ragazza in una vecchia città industriale, che ci saremmo innamorati e che sarebbe stata quella giusta».
Dilah rimase in silenzio per un istante, come lo era stata per tutto il tempo in cui aveva parlato. Si girò verso di lui e gli abbassò il mento in modo da poterlo guardare negli occhi. «Sono sicura che tu non mi abbia mai parlato così tanto della Georgia in una volta sola». «Mi dispiace». «Non devi. Mi è piaciuta questa storia. Lo sai quanto adoro i tuoi racconti». Lo baciò. «Il vecchio Billy aveva ragione. Pittsburgh è la città industriale più grande che ci sia». «Quindi gli credi. Credi che mi abbia predetto davvero il futuro». «Credo che al mondo esistano cose che vanno oltre la causa e l’effetto. Ti ha predetto un destino che ti è piaciuto. Sei venuto a Pittsburgh e ti ho trovato». Gli sorrise, maliziosa, facendo scorrere un dito sulla vecchia cicatrice che Freddy aveva sulla clavicola. «E non ti lascerò andare». «Ti amo». «Lo so».
Dilah continuava a sorridere con la sicurezza di chi ha avuto una vita intera di fortune, di chi è rimasto esattamente dove doveva stare, di chi sa quali persone tenersi stretta e quali amare e come amarle. Il genere di sicurezza che poteva piegare Freddy, schiacciarlo come un diamante fino a farlo diventare il tipo di uomo che poteva incarnare tutte quelle certezze, se solo se lo fosse concesso. Doveva solo concederselo. «Ovunque tu voglia andare», ripeté lei, e Freddy pensò che potesse in qualche modo percepire il formicolio dentro il suo cranio, sentirlo davvero vibrare. Il desiderio di andare via.
«Penserò a dove», disse. «Magari facciamo una breve gita fuori città. Con le ragazze». «Mi piacerebbe», disse lei.
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