‘Il secondo sesso’ di Simone de Beauvoir è ancora una lucidissima fotografia del presente | Rolling Stone Italia
magiche e adornate

‘Il secondo sesso’ di Simone de Beauvoir è ancora una lucidissima fotografia del presente

Pubblichiamo un estratto dalla nuova traduzione del classico dell'autrice e filosofa francese, uscita per Il Saggiatore

il secondo sesso Simone de beauvoir

Simone de Beauvoir nel 1984

Foto: Catherine Deudon/Roger‑Viollet

La famiglia non è una comunità chiusa in se stessa: al di là della sua separazione, stabilisce dei rapporti con altre cellule sociali; la casa non è soltanto un interno in cui la coppia si confina; è anche l’espressione del suo tenore di vita, della sua fortuna, del suo gusto: deve essere esibita allo sguardo altrui. È essenzialmente la donna a organizzare questa vita mondana. L’uomo è unito alla collettività, come produttore e cittadino, dai legami di una solidarietà organica fondata sulla divisione del lavoro; la coppia è una persona sociale, definita dalla famiglia, la classe, l’ambiente, la razza alle quali appartiene, legata da vincoli di una solidarietà meccanica a gruppi che sono situati socialmente in modo analogo; è la donna che è più portata a incarnarla con maggior purezza: le relazioni professionali del marito spesso non coincidono con l’affermazione del suo valore sociale; mentre la donna, che non è pretesa da alcun lavoro, può limitarsi alla frequentazione dei suoi pari; inoltre, ha modo di assicurare nelle sue visite, e nei suoi ricevimenti quei rapporti praticamente inutili e che, ben inteso, non hanno importanza se non nelle categorie impegnate a mantenere il loro rango nella gerarchia sociale, cioè che si
stimano superiori ad alcune altre.

È affascinante per lei esibire il suo interno, la sua stessa figura, che il marito e i figli non vedono perché ne sono investiti. Il suo dovere mondano, che è quello di rappresentare, si confonderà col piacere che prova a mostrarsi. E, prima di tutto, bisogna che presenti se stessa; in casa, attendendo alle sue occupazioni, è soltanto vestita: per uscire, per ricevere, si abbiglia. La cura di sé ha un doppio carattere: è destinata a manifestare la dignità sociale della donna (il suo tenore di vita, la sua condizione, l’ambiente a cui appartiene) ma, allo stesso tempo, concretizzerà il narcisismo femminile; è una livrea e un ornamento; per suo mezzo, la donna che soffre di non fare niente crede di esprimere il suo essere.

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Simone de Beauvoir da bambina, circa 1914. Foto: Tallandier / Bridgeman Images

Curare la sua bellezza, abbigliarsi, è una specie di lavoro che le permette di appropriarsi della sua persona come si appropria della casa per mezzo del lavoro domestico; il suo io le sembra allora scelto ricreato da lei stessa. I costumi la spingono ad alienarsi così nella sua immagine. I vestiti dell’uomo, come il suo corpo, devono indicare la sua trascendenza e non fermare lo sguardo; per lui né l’eleganza né la bellezza consistono nel costituirsi come oggetto; inoltre, normalmente non considera la sua apparenza come un riflesso del suo essere.

Al contrario, la stessa società chiede alla donna di farsi oggetto erotico. Lo scopo della moda di cui è schiava non è di rivelarla come individuo autonomo, ma al contrario di separarla dalla sua trascendenza per offrirla come una preda ai desideri maschili: non si cerca di assecondare i suoi progetti ma al contrario di ostacolarli.
La gonna è meno comoda dei pantaloni, le scarpe con i tacchi alti impediscono il camminare; i vestiti e le scarpette meno pratici, i cappelli e le calze più fragili sono i più eleganti; sia che il vestito nasconda il corpo, lo deformi o lo metta in rilievo, in ogni caso lo espone agli sguardi. Per questo la cura di sé è un gioco affascinante per la ragazzina che desidera ammirarsi; più tardi la sua autonomia di bambina si ribella alla costrizione delle mussoline chiare e delle scarpe di vernice; nell’età ingrata è combattuta tra il desiderio e la ripugnanza a esibirsi; quando ha accettato la sua vocazione di oggetto sessuale, si compiace a adornarsi.
Attraverso l’ornamento, abbiamo detto, la donna si avvicina alla natura pur attribuendole la necessità dell’artificio; diventa per l’uomo fiore e gemma: lo diventa anche per se stessa. Prima di dargli le ondulazioni dell’acqua, la calda dolcezza delle pellicce, essa se ne impadronisce.

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Simone de Beauvoir nel suo appartamento mentre legge una lettera,
1945. Foto: Denise Bellon / AKG‑images/Mondadori Portfolio

Più intimamente che sui suoi gioielli, i suoi tappeti, i suoi cuscini, ha presa sulle piume, le perle, i broccati, le sete che mescola alla sua carne; il loro aspetto cangiante, il loro tenero contatto compensano l’asprezza dell’universo erotico che condivide: vi attribuisce tanto più valore quanto più la sua sensualità è insoddisfatta.
Se molte lesbiche si vestono virilmente, non è soltanto per imitare gli uomini e sfidare la società: non hanno bisogno delle carezze del velluto e del raso perché coglieranno su un corpo di donna le qualità passive. La donna votata al rozzo abbraccio maschile – anche se ne gode e ancora di più se lo accetta senza piacere – non può avere altra preda carnale che il proprio corpo: lo profuma per trasformarlo in fiore e lo splendore dei diamanti che mette al collo non si distingue da quello della pelle; per possederle, si identifica con tutte le ricchezze del mondo. Non ne desidera soltanto i tesori sensuali ma a volte anche i valori sentimentali, ideali. Un tale gioiello è un ricordo, un altro è un simbolo.

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Simone de Beauvoir nel 1954. Foto: Gisele Freund / Photo Researchers
History / Getty Image

Ci sono donne che si rendono simili a un mazzo di fiori, a un’uccelliera; altre sono dei musei, altre ancora dei geroglifici.
(…)

Nei manicomi si trovano i migliori esempi di questa appropriazione magica dell’universo. La donna che non controlla il suo amore per gli oggetti preziosi e per i simboli dimentica il proprio aspetto e rischia di vestirsi in modo stravagante. Così la giovane ragazza vede nell’abbigliamento soprattutto un travestimento che la trasforma in fata, in regina, in fiore; si crede bella quando è coperta di ghirlande e di nastri perché si identifica con questi orpelli meravigliosi; affascinata dal calore di una stoffa, la fanciulla ingenua non nota la tinta sbiadita che si riflette sul suo viso; si ritrova questo generoso cattivo gusto anche nelle artiste anziane o intellettuali più affascinate dal mondo esterno che coscienti del proprio aspetto: attirate da quei tessuti antichi, da quei vecchi gioielli, sono incantate dall’idea di evocare la Cina e il Medioevo e gettano allo specchio solo un’occhiata rapida o prevenuta.

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Simone de Beauvoir e Nelson Algren nel 1947. Foto: Collection SLB

A volte ci si meraviglia dagli strani accessori che piacciono alle donne anziane: diademi, merletti, vestiti vistosi, strane collane, attirano spiacevolmente l’attenzione sul loro volto devastato. Spesso, avendo rinunciato a sedurre, la cura di sé è per loro un gioco gratuito come nell’infanzia.

Una donna elegante invece può, a rigore, cercare nella cura di sé dei piaceri sensuali o estetici, ma bisogna che li concili con l’armonia della sua immagine: il colore del vestito si adatterà alla carnagione, il taglio sottolineerà e correggerà la sua linea; è se stessa così abbigliata e non gli oggetti che la adornano che lei custodisce con compiacimento. La cura di sé non è soltanto ornamento: come abbiamo detto, esprime la situazione sociale della donna. Solo la prostituta, la cui funzione è esclusivamente quella di oggetto erotico, deve manifestarsi sotto questo unico aspetto; come un tempo la chioma color zafferano e i fiori sparsi sul vestito, oggi i tacchi alti, il raso aderente, il trucco violento, i profumi densi denunciano la sua professione.

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Simone de Beauvoir e Jean‑Paul Sartre nella prima foto che li ritrae insieme durante una fiera nel giugno 1929. Foto: JAZZ EDITIONS/Gamma‑Rapho via Getty Images

Si rimprovera a ogni altra donna di vestirsi come una di quelle. Le sue virtù erotiche sono integrate alla vita sociale e devono apparire solo sotto questo aspetto sobrio. Ma bisogna sottolineare che la decenza non consiste nel vestirsi con un rigoroso pudore. Una donna che sollecita troppo chiaramente il desiderio maschile manca di stile; ma quella che ha l’aria di rifiutarlo non è più raccomandabile: si pensa che voglia mascolinizzarsi, è una lesbica; o distinguersi: è un’eccentrica; rifiutando la sua parte di oggetto, sfida la società: è un’anarchica. Se vuole soltanto non farsi notare, bisogna che conservi la sua femminilità. Sono le usanze che regolano il compromesso tra esibizionismo e pudore; a volte è la gola e a volte è la caviglia che la donna onesta deve nascondere; a volte la fanciulla ha diritto a sottolineare le sue attrattive per attirare i pretendenti mentre la donna sposata rinuncia a ogni ornamento: tale è l’uso presso molte civiltà contadine; a volte si impongono alle fanciulle vestiti vaporosi, color confetto, dal taglio discreto, mentre le più anziane hanno diritto a vestiti aderenti, tessuti pesanti, tinte ricche, taglio provocante; su un corpo di sedici anni il nero sembra vistoso perché è di regola non portarlo a quell’età.

Naturalmente bisogna piegarsi a queste leggi; ma in ogni caso, e anche negli ambienti più austeri, il carattere sessuale della donna sarà sottolineato: la moglie di un pastore si ondula i capelli, si trucca leggermente, segue la moda con discrezione, mostrando con la cura del suo fascino fisico che accetta il suo ruolo di femmina. Questa integrazione dell’erotismo alla vita sociale è particolarmente evidente nel vestito da sera. Per dimostrare che c’è festa, cioè lusso e spreco, questi abiti devono essere costosi e fragili; devono essere anche il più possibile scomodi; le gonne sono lunghe e così larghe o ingombranti che impediscono il camminare; sotto i gioielli, i fronzoli, i lustrini, i fiori, le piume, i capelli finti, la donna è trasformata in bambola di carne; questa stessa carne si esibisce; come un fiore che sbocci, la donna mette in mostra le spalle, la schiena, il seno; tranne che nelle orge, l’uomo non deve mostrare di desiderarla: ha diritto solo agli sguardi e agli abbracci ballando; ma può sognare di essere il re di un mondo pieno di così dolci tesori.

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Simone de Beauvoir e Jean‑Paul Sartre con Ernesto Che Guevara
all’Avana, 1960. Foto: Pictures from History / Bridgeman Images

Per gli uomini, la festa assume l’aspetto di un potlatch; ognuno offre in dono a tutti gli altri la visione di quel corpo che è di sua proprietà. In abito da sera, la donna è mascherata da donna per il piacere di tutti i maschi e l’orgoglio del suo proprietario. Questo significato sociale della cura di sé permette alla donna di esprimere col suo modo di vestirsi il suo atteggiamento di fronte alla società; sottomessa all’ordine stabilito, si conferisce una personalità discreta ed elegante; sono possibili molte sfumature: sarà fragile, infantile, misteriosa, candida, austera, gaia, posata, un po’ ardita, ritrosa, a suo piacimento. O, invece, con la sua originalità affermerà il suo rifiuto delle convenzioni.

Colpisce il fatto che in molti romanzi la donna emancipata si distingue per un’audacia nel vestirsi che sottolinea il suo carattere di oggetto sessuale, perciò la sua dipendenza: così, in L’età dell’innocenza di Edith Wharton, la giovane divorziata dal passato avventuroso, dal cuore audace, è presentata inizialmente come esageratamente scollata; il brivido dello scandalo che suscita le rimanda il riflesso tangibile del suo disprezzo per il conformismo.

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Ritratto di Simone di Beauvoir, 1957. Foto: Jack Nisberg/Roger‑Viollet/Alinari

Così la giovane ragazza si divertirà a vestirsi da donna, la donna anziana da ragazzina, la cortigiana da donna di mondo e questa da vamp. Anche se ognuna si veste secondo la sua condizione, c’è sempre un gioco in questo. L’artificio come l’arte si situa nell’immaginario.

Non solo guaina, reggiseni, tinture, trucco mascherano corpo e viso; ma la donna meno sofisticata dal momento in cui è abbigliata non si offre più alla percezione: è come il quadro, la statua, come l’attore sulla scena, un analogo attraverso il quale è proposto un oggetto assente che è il suo personaggio, ma che lei non è.

È questa confusione con un oggetto irreale, necessario, perfetto come un eroe di romanzo, come un ritratto o un busto, che la lusinga; si sforza di alienarsi in lui e di apparire anche a se stessa pietrificata, giustificata.