Se qualcosa dell’Occidente resta, quel qualcosa è un qualcuno ed è Alexander Portnoy, il personaggio del romanzo che diede fama, gloria e parecchi grattacapi a Philip Roth.
Portnoy è nuovamente in libreria dal 16 maggio, dopo la sorprendente acquisizione di qualche anno fa da parte di Adelphi e del suo nuovo direttore editoriale Roberto Colajanni. Il quale di Philip Roth ha deciso di rilevare i diritti dell’intero catalogo, detenuto fino ad allora dalla Einaudi. Il tutto è il frutto di un accordo milionario (così si dice) con il temibile agente letterario Andrew Wylie, detto non a caso the shark.
Arriva così sui banchi delle librerie una nuova e bellissima edizione. Con una nuova, bella traduzione (anzi, una curatela) di Matteo Codignola e un titolo italiano parimenti nuovo. Non più Lamento di Portnoy dall’originale Portnoy’s Complaint, ma semplicemente Portnoy.
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Il romanzo non solo rappresenta il ritorno di Philip Roth sulle prime pagine degli inserti culturali dopo la sua scomparsa nel 2018. Un tempo segnato da biografie più o meno autorizzate e da pettegolezzi sul suo conto non propriamente virtuosi, per non dire infine delle rivelazioni che hanno subito denotato Roth quale rappresentante di un maschilismo a dire il vero già ben esplicitato da lui stesso nei suoi romanzi e racconti.
Riecco dunque il grande scrittore di Newark tornare sulla scena nella cornice della più raffinata, elegante e non di rado irriverente casa editrice italiana, ma che è anche – va detto – la più funeraria: qualità altissima, vivi pochi. Dunque un Roth che sedendosi a fianco di uno dei padroni di casa, l’omonimo Joseph, prova a vestirsi da classico. Accuratamente evitato dall’Accademia svedese fino a quando era in vita, Philip Roth diviene così un classico contemporaneo partendo dal romanzo che lo ha reso famoso e che ora potrebbe renderlo eterno.
Peccato che questo ingresso nel pantheon Adelphi denoti anche un passaggio inevitabile per quello che fino a oggi abbiamo definito il nostro tempo. Un’epoca apparentemente agli sgoccioli e decadente. In realtà già finita da tempo e oramai ridotta all’irrilevanza, come già ebbe a dire quasi vent’anni fa Barack Obama, orientando il proprio sguardo e quello degli Stati Uniti verso il mondo arabo e asiatico – vero bacino della stessa popolazione statunitense.
Obama durante la sua presidenza premiò nel 2010 proprio Philip Roth insieme a Joyce Carol Oates con la National Humanities Medal, quasi a indicare e sottolineare in questo modo la chiusura di un’epoca che aveva visto l’Occidente dominare con la propria forza militare, politica e anche con le proprie nevrosi, più o meno letterarie, l’intero globo terrestre. Portnoy ci riguarda dunque da un tempo che ci è affine ma anche esaurito. Eppure, ancora oggi, lo sentiamo in parte a noi contemporaneo.
Portnoy fu pubblicato per la prima volta nel 1969: entrò nel circolo sanguigno di una società che stava ribaltando le proprie regole, liberandosi dal conformismo e dalle tradizioni che l’avevano regolata e irregimentata per quasi duecento anni. Una società che restava però ancora diffusamente e grandemente maschilista, inoltre pensata per avvantaggiare persone dalla pelle bianca: due elementi di cui conosciamo bene il dominio.
Nel 1969 si va sulla Luna e si va a Woodstock. Richard Nixon diventa Presidente spegnendo i sogni liberal e utopici di George McGovern e indirizzando gli Stati Uniti all’interno di una visione che né Carter, né Obama riusciranno mai più a mutare.
Un anno elettrico in cui la gioventù per la prima volta nella storia si palesa come un gruppo definito e chiaramente percepibile, oltre che come una categoria utile al consumo. Sarà infatti proprio quella generazione nata alla fine della Seconda Guerra Mondiale, i cosiddetti Baby Boomer, a dare benzina a un capitalismo che allora sta ancora accendendo i motori. È tra loro che si palesa Alexander Portnoy. Con le sue ossessioni, le nevrosi e un’ingordigia sessuale che è solo la punta di una fame lussuriosa che diviene l’elemento apicale per non dire ideologico di una generazione pronta a consumare tutto e a consumarsi di tutto. In una compulsione che non vede possibilità di requie: dalla marijuana ai grassi insaturi, dall’amore libero alla guerra in Vietnam.
Un “ora e per sempre” che Portnoy mostra con chiarezza analitica, evidenziandone il delirio e l’arroganza, la tensione e pure la bellezza. Le cose che riescono a far mutare l’iperbole e l’esagerazione in un sentimento di commovente abbandono. Quella di Alexander Portnoy è una frenesia nevrotica a tratti insopportabile e non poco, però è pure dolce e ingenua. Una bellezza rara. Per nulla scalfita dagli anni e dalla nostra noia paurosa.
Certo, questa forma di delicatezza che improvvisamente affiora tra le pagine di un irriverente fustigatore come Philip Roth dice molto di noi, di una generazione che vede i propri padri divenire ormai nonni senza che noi si sia diventati alcunché.
Per chi oggi veleggia tra i quaranta e i cinquanta, Portnoy non appare come un insopportabile fratello minore un po’ (tanto) meschino, ma più come un padre di cui si possono cogliere ancora i sintomi di un’immaturità insopportabile eppure esaltante. Una seduzione maschile che diviene sempre maschilista, ma che resta in un certo senso efficace a mostrare uno stare nel mondo saldo seppur non poco assurdo, limitante e anche abbastanza violento e volgare.
Non si tratta evidentemente di recuperare pratiche e valori che lo stesso Roth, pur impersonandoli, denunciava e irrideva. Ma di cogliere lo sguardo generale di un’epoca che ci ricorda sì la nostra infanzia, ma che non può appartenerci se non in una forma di ostinata e perversa nostalgia. Noi siamo altro, e quel mondo oggi ci appare ritratto splendidamente da uno dei più grandi scrittori del Novecento. C’è veramente poco altro da dire o da aggiungere. Leggere non è immedesimarsi, ma salire sulle spalle di giganti per vedere un po’ più lontano. Questo favore Philip Roth lo offre ampiamente e poco vale sapere della sua vita, delle sue infamie e delle sue debolezze se non che sono tutte state messe al servizio – insieme alle sue virtù – di una scrittura che potesse restituire il senso di un mondo.
Noi lo abbiamo letto e percepito come un vicino di casa contemporaneo. D’improvviso, ora ecco che Philip Roth – a braccetto con Alexander Portnoy – riappare con tutta la densità di un classico. Ovvero di un libro che, per essere osservato davvero nelle sue qualità, necessita di libertà. Libertà dall’ossessiva retromania da baraccone; libertà da quella nostalgia di non vissuto, tanto è chiaro che ciò che non abbiamo visto, non vedremo mai.
Altro discorso riguarda invece chi oggi intorno ai vent’anni si ritrova ad avere o a subire le medesime pulsioni di Portnoy e a cui probabilmente quel ritratto assomiglia più da vicino, ma anche da molto lontano come fosse un personaggio di Maupassant o di Balzac in cui i segni del tempo appaiono più come vezzi che come condannabili vizi, ma in cui il sentimento profondo dell’esistere e della ricerca del sé si palesa come estremamente vicino e fortemente appartenente.
Philip Roth riparte da Portnoy, con un romanzo assoluto e classico, un romanzo buono per chi ha ancora la pazienza di leggere e di attraversare queste pagine pulsanti di rabbia e di risa. Uno scrittore che non ha altra pretesa se non quella di essere buono e bravo per i propri lettori e per nessun altro.