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Guardare la Storia con gli occhi di Cecil Beaton

Uno assunto da 'Vogue', che divenne il fotografo ufficiale dei reali di Gran Bretagna, e che fu responsabile di alcuni degli scatti più riconoscibili della musica e dello spettacolo. E ora, un libro lo racconta
Cecil Beaton

Foto: Jack Burlot/Apis/Sygma/Sygma via Getty Images

Mick Jagger e Bernard Berenson, la contessa Morosini e Greta Garbo, My Fair Lady e Gigi, basterebbe questo elenco, basterebbero questi elementi in contrapposizione per chiarire al lettore l’incontenibile grandezza, l’assurda leggerezza geniale di uno dei più grandi artisti (per brevità chiamato artista) del Novecento.

Si tratta di Cecil Beaton, che per le cronache fu fotografo e scenografo, ma che nella sua vita fu tutto quello che ebbe l’ardire d’immaginare, d’incontrare, di amare, di scrivere e di mettere in forma di costume o di scenografia. Arti minori, così considerate e così definite al tempo – pur fuori tempo massimo -, tutto ottocentesco dello snob aristocratico, dei grand tour, dei transatlantici Londra-New York e di una vita sfrenata di cui oggi si storpia tutto, a partire dal grande Gatsby ridotto a un potenziale maranza tendenza Porta Nuova, imbellettato e buono più per una gita in via Napo Torriani o per uno smash burger che per un fuoriporta negli Hamptons o se si preferisce all’Île de Ré.

Cecil Beaton – figlio della classe media di Hampstead, a Nord di Londra, oggi quartiere più che benestante se non lussuoso – fu da subito introdotto a quelle pratiche varie che fino a poco tempo fa permettevano una discreta facilità di accesso alle classi sociali più elevate, ovvero la cultura in ogni sua potenziale forma. Quindi disegno, scrittura e lettura, e un buon gusto che evidentemente però Beaton covava dentro di sé in grande misura, come un vero e assoluto talento.

Molto dipendeva dal futuro (Neri Pozza, nell’accurata traduzione di Laura Grandi che ne cura anche la selezione) offre ai lettori alcuni ricchi e godibili stralci dai diari di Beaton, che vanno dagli anni Venti fino alla metà degli anni Settanta, forse il meglio del Novecento, forse l’apice di tutto quello che accadde in Europa e negli Stati Uniti prima che la nostalgia prendesse piede e l’infelicità dei più il potere.

Il volume corposo e generoso regala così la delicatezza di un uomo sensibile e accorto che seppe raccontare la propria epoca con un gusto inimitabile e la cui forma, fotografia, diario etc etc è solo strumentale, mero mezzo per dare spazio a un pensiero eclettico nutritosi in quell’alba della meraviglia che fu il Novecento, seppur attraversato da non poche tragedie e da contraddizioni strazianti e violente. Visite, incontri, ville, regine e capi di Stato, attori e cantanti, in tutti loro Beaton tenta di scovare cosa ci sia prima dell’etichetta, oggi invece così orribilmente necessaria per tenere in vita corpi in stato di abbandono. Giorno dopo giorno Beaton appunta, nomi e situazioni, e sopratutto nelle prime pagine dà corpo a un diario dell’apprendistato, là dove imparare è non solo fondamentale, ma anche e soprattutto strumento di conoscenza, l’ennesimo, di sé e dell’altro.

«Ero euforico per i risultati. Finora, le mie immagini sono state banali tentativi di far apparire le persone le più belle possibili. Ma queste sono fantastiche e divertenti. Mi paiono un traguardo – qualcosa di personale». Siamo al 20 aprile del 1926. Quello di Beaton si impone come un viaggio nel mondo dello spettacolo vissuto dall’interno, osservando quell’enorme meccanismo fatto d’ingranaggi, meccanici ma pure umani, necessari a mettere in scena, a dare forma, a illuminare e a trasformare semplici esseri umani in star. Dive, e divi. Su questa caotica baraonda regna Greta Garbo, regina del cinema muto, che tuttavia viene già messa in discussione proprio con l’avvento del sonoro: «Qualcuno ha scommesso che Garbo non sarebbe stata brava nei film parlati: di sicuro il suo declino sarebbe stato rapido quanto la sua ascesa».

Lo star system non è mai stato così pervasivo e potente, tutto l’immaginario si concentra su attrici e attori, il mondo è loro come mai lo sara più. Al punto che quello che si può definire il declino di Greta Garbo (che lei eviterà, ritirandosi dalle scene giovanissima), altro non è che il declino del suo stesso pubblico, abbindolato e stregato da giochi e illusioni più a buon mercato. Ma in quel dicembre del 1929, nonostante il giovedì nero abbia già sentenziato il crollo economico degli Stati Uniti, nell’aria di Hollywood ancora si respira un senso di futuro che per quanto vacuo sicuramente annusa il tempo che verrà: «Apolli e Veneri sono ovunque. Come se l’intera stirpe degli dèi fosse approdata in California. Passeggiando lungo i marciapiedi con Anita, vedo classici volti ovali che avrebbero potuto posare per Prassitele. Le ragazze sono tutte ossigenate e pitturate con uno smalto abbronzato. Sono le aspiranti stelle che vengono a Hollywood da ogni parte d’America».

Il mondo, come spesso accade quando è sull’orlo di un naufragio, prova a cercare nuove risposte guardando oltre, tentando di strappare pezzi di futuro anche se questo ora dista anni se non decenni di distanza, considerato che dalla crisi gli Stati Uniti usciranno per davvero e quali padroni del mondo – o meglio ancora – protagonisti assoluti della scena, solo con la fine della Seconda Guerra Mondiale. E sono pagine struggenti quelle che Beaton offre al suo diario, anni disperati dentro cui si fatica a cogliere una qualche possibile speranza là dove ogni notizia porta il peso di una condanna irrevocabile: «Churchill si è precipitato al microfono energico ed entusiasmante […] È un brutto periodo per Churchill. È un brutto periodo per noi».

Sono anni di mezzo, quelli che porteranno il mondo pienamente nella modernità, in quell’epoca conclamata e cosiddetta delle macchine in cui l’immateriale diviene il vero oro nero. La costruzione dell’immaginario prende corpo già durante il conflitto in forma di propaganda e si diffonderà in forma di cinema, gossip e pubblicità nel Dopoguerra. Beaton ne sarà uno degli artefici, passando in poco tempo da fotografo ufficiale del Ministero dell’Informazione britannico a fotografo ufficiale della Royal Family, il tutto restando sotto il cappello di Vogue dove fu assunto a soli 23 anni, forse la rivista che più di tutte ha contribuito a definire un gusto e a ritrarre un’epoca.

Beaton diviene un mito in vita, l’uomo che ha disegnato l’abito di Audrey Hepburn in My Fair Lady, e ora è ricercatissimo: alla fine degli anni Sessanta incontra i Rolling Stones a Parigi: «Ho portato Mick attraverso gli alberi fino a uno spazio aperto per fotografarlo nel sole di mezzogiorno. Ho dato alla faccia le ombre di cui aveva bisogno». Quella di Cecil Beaton è una lunga, infinita rincorsa attraverso il mondo che ritrae per come è, ma anche per come potrebbe essere. Un realismo assoluto, ma sempre dedicato in forma di bellezza, un ottimismo della ragione e un rispetto per l’umano che segna ogni sua avventura perché questo è per lui lavorare, incontrare e amare.

«Sono arrivato al punto in cui so che dovrei rilassarmi, quietarmi, leggere di più e prepararmi al ritiro. Però mi accorgo di quanto poco sia abituato a vivere senza entusiasmi superficiali. Il problema del futuro genera solo ansia». Così scrive un uomo che il futuro lo visse ogni giorno al tempo presente.

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