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Gli anni di piombo nella scrittura di una figlia

‘Città Sommersa’, l’esordio di Marta Barone, non è solo la storia di un padre sconosciuto e del suo passato nelle lotte degli anni ’70, ma un confronto tra generazioni: i millennial disillusi e i loro genitori politicamente impegnati

Gli anni di piombo nella scrittura di una figlia

Foto: Getty Images

In molte interviste ad autori, giungono immancabili le domande sull’intenzionalità dell’impresa: “Hai meditato a lungo la scrittura di questo libro? È arrivato da sé? Al tuo esordio sapevi di essere uno scrittore?”; seguite con malizia da: “Sei uno scrittore lento o veloce?” (E chi risponderà “medio” farà la rivoluzione). Ci sono i Flaubert, gli Stendhal, i verginali, i redentori, le mille sottocategorie della vocazione e fortunatamente anche quegli scrittori che per anni molto lunghi sentono di custodire un romanzo di cui non conoscono nulla, gli autori del presentimento.

“Non scrivevo. Da anni, ormai, mi accanivo sulla stessa idea, che non andava mai oltre una serie di intenzioni, un prospetto di sentimenti. Sapevo di che cosa avrei voluto parlare, ma il come continuava a sfuggirmi. Volevo solo che la storia apparente fosse quanto più lontano dalla mia. Così lasciavo vagare il romanzo immaginato che sempre mutava forma, galleggiandomi in testa con i suoi estenuanti contorni indefiniti, nebbia azzurra nella quale ogni tanto intrappolavo una “bella frase” che rimaneva lì, isolata e vana”.

Queste sono le parole con cui Marta Barone (1987) introduce se stessa in Città Sommersa (ed. Bompiani), il romanzo che racconta la meticolosa indagine volta alla scoperta della storia del padre dell’autrice morto qualche anno prima della stesura del libro, L.B., “paladino degli oppressi”, sconfitto tra gli “sconfitti della storia”, medico carismatico e misterioso accusato nel 1982 del reato di partecipazione a banda armata. Città Sommersa narra di una giovane autrice abile nella forma e di come costei trovi una storia nella storia del padre, elaborandone al contempo la vita e il lutto; nella meta-narrazione soggiace il nucleo di questo luminoso romanzo.

Città Sommersa accende i lampioni su una città spettrale di porte sfondate e sagome di corpi tracciate sull’asfalto, “Turin-la-Terreur”, come scrive Marta Barone citando un titolo di France Soir. Ogni strada di Torino parla del padre. L.B. faceva parte di Servire il popolo, L.B. curava i feriti degli attentati di Prima Linea. Da un’estremità della linea del tempo, il Novecento di L.B., giovane integerrimo, impegnato in numerose cause, credente nell’ideologia; dall’altra estremità, questi anni, gli anni di Marta, scrittrice, credente in nulla, angustiata dalla propria assenza d’interesse verso il materiale letterario che la vita le offre.

L.B. e Marta, padre e figlia, s’incontrano nell’amore, nella rabbia e soprattutto nel silenzio: la ragazza non conosce la storia di suo padre, non bene, e viaggia in un’incerta attesa. Per trovare il proprio posto nel mondo, a L.B. è data un’ideologia; per contestualizzarsi, a Marta non è data la propria storia. All’inizio di questa impresa, Marta quasi manca della nozione di storia, vive i propri ricordi in simultaneità con il presente, in una violenta paratassi temporale: “Da quando avevo la facoltà di ricordare, ricordavo moltissimo, e con una netta precisione di contorni. […] Non avevo bisogno di ricordare. Il passato era una distesa uniforme”.

La copertina di ‘Città Sommersa’, ed. Bompiani

Nello specchio tra le due generazioni, due stagioni della storia d’Italia, Città Sommersa emerge come un libro sulla lotta tra silenzio e scrittura. Inizialmente la protagonista non prova interesse verso la storia di L.B., non ha immagini di lui e dunque non lo immagina (successivamente molte pagine sono dedicate all’importanza delle fotografie). Rispetto agli anni di piombo, l’autrice incarna una seconda generazione priva di testimonianza, cui è stata tramandata una lacuna che dice della violenza. Come se vivesse gli effetti di una detonazione, Marta comincia ad avvicinarsi alla storia e la trova in frammenti.

Un giorno, all’improvviso, succede qualcosa: Marta Barone vive “un atto di interesse”. Imbattendosi in una memoria difensiva di L.B., per la prima volta nella giovane formalista in balia di un’assenza di contenuto post-ideologica, si accende un fuoco, Barone inizia a raccogliere informazioni e a ordinarle, dunque a scriverne, e il suo pensiero cambia: “[…] pensai al passato e a quando lo vedevo come una distesa compatta, e a me come a un essere simultaneo che tutto era in grado di ricordare e che non considerava degno di attenzione nessuno di quei ricordi. E all’improvviso seppi che non era vero”, scrive l’autrice, e ancora: “Il materiale della mia vita mi si dispiegava davanti agli occhi […]”.

Gli anni di piombo sono anni di giornalismo dove la letteratura è adombrata, anni legati alla carta del giornale quotidiano, di bassa qualità, riciclata per pulire i vetri. Barone magistralmente estrapola dalla dura prosa del giornalismo dell’epoca ciò che letterariamente più la coinvolge. Nel capitolo in cui l’autrice narra l’attentato alla Scuola di Amministrazione Aziendale si alternano citazioni dalle testimonianze dei presenti, descrizioni chirurgiche del modus operandi dei terroristi e periodi che portano tutto questo su un piano letterario: “Le urla, che non si sapeva neanche più da dove venissero, continuavano e continuavano e continuavano, e sembravano allargarsi su tutta la città”. La prosa ritmica di Marta Barone alterna un registro poetico ad un altro cronachistico, utilizzando come elemento unificante un sentimento che definisco di ‘sospensione della pietà’, qualcosa di diverso dalla spietatezza.

Ricche pagine di Città Sommersa sono dedicate al gioco di sguardi, vicinanze e accuse con cui si tessevano i rapporti interpersonali tra i compagni della sinistra extraparlamentare, i non violenti e i violenti. In questo libro capace in ogni sua parte di muovere al pianto, le pagine più drammatiche sono dedicate agli anni successivi a quelli di piombo, quando tutto finì e tra compagni si procedette al fratricidio, sospettando gli amici, rimuovendo il ricordo, togliendo la parola ai pentiti, ‘le spie’, talvolta uccidendoli brutalmente. Leggendo Città Sommersa vengono alla mente le parole di Umberto Saba quando nelle Scorciatoie, in anni che precedevano questi, scrisse: “Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto in tutta la sua storia – da Roma a oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani… […] Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”.

L’individuo può percepire la Storia differentemente: un sentire è unitario, sintetico, gli eventi si succedono come megaliti, e sì, si vedono monumenti ai caduti e liste di nomi incisi sulla pietra, ma la pietra è una e la lista è simbolica; un altro sentire invece conta i corpi, scorge ogni ignoto rifugiato nel tempo, nella “malinconia della vastità”. Marta Barone è una scrittrice che conta i corpi, al costo di farsi archeologa di un dolore che ella stessa prova, la sua prosa sospende la pietà ma tradisce una profonda angoscia esistenziale di fronte al baratro della sintesi, della perdita, dell’annullamento più che della morte. Abbiamo bisogno dell’angoscia: in questi anni di attentati alla memoria, false notizie, tragiche riapparizioni di errori già commessi, Città Sommersa è un romanzo importante non solo in virtù dell’evidente qualità letteraria.

Quello di Barone è un romanzo di formazione, non del padre né della figlia, bensì dell’autrice, che in ogni capitolo del libro non manca di ragionare sulla costruzione del libro stesso, sulla distinzione tra sé, Lui e l’opera, sulla discrepanza tra testimonianza e verità ovvero tra letteratura e realtà. La carica sperimentale di Città Sommersa risiede nel fatto che l’autrice apre continuamente finestre sull’architettura della propria mente; il libro si costruisce in trasparenza, il libro stesso è un ragionamento. Verso la conclusione del romanzo, tramite la fruizione di un frammento audiovisivo, Barone realizza che il suo personaggio, suo padre, è esistito realmente – “Ora sapevo con assoluta certezza che L.B. era esistito davvero” – con la stessa sorpresa di quando un bambino realizza che Mamma e Papà hanno un nome proprio e anche “Io” ha un nome proprio.

Dalla lettura del romanzo si evince che Marta Barone – l’essere umano prima della scrittrice – possiede una memoria sinestesica, incorrotta, muscolare, efficiente, che pompa e consuma; in Città Sommersa la memoria dell’autrice muta, da simultanea si fa storica, e dunque dotata di senso. Pagina dopo pagina, il nitore e la categoricità del passato donano la propria fredda luce dorata al presente.

Ritrovando la storia del padre, l’autrice ha trovato la propria storia; e poiché la storia del padre coincide con un capitolo oscuro e parzialmente rimosso della storia d’Italia (un personaggio del libro lo esprime così: “Ci hanno cancellati. Sono rimasti solo gli assassini”), anche il lettore può trovare pezzi di sé. Ritrovare un padre è ritrovare una storia, cosicché la città della memoria riaffiori, quella Kitež che vive ancora, “sott’acqua, segreta, con tutti i suoi abitanti”.

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