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E se democratizzassimo la bellezza?

Un'intervista all’antropologa Cristina Cassese, autrice del saggio 'Il bello che piace': un pamphlet che ci ricorda che, per cambiare punto di vista, bisogna compiere un viaggio, fosse anche a partire da un bagno

Copertina fucsia e viola. Vi troneggia il volto in primissimo piano di una persona che, coi parametri culturali con cui sono cresciuta, potrei identificare al femminile. Si mette il mascara.

Se applicassi il metodo deduttivo alle questioni di genere, direi che è una donna (prima deduzione), quindi e il libro che ho fra le mani è destinato alle donne (seconda deduzione), pertanto un libro che dovrei leggere pure io in quanto donna (terza deduzione). Peccato che il mio ragionamento sia fallace e faccia acqua da tutte le parti.

Il bello che piace (Enrico Damiani Editore 2023) è un saggio dell’antropologa culturale Cristina Cassese, che non tratta strettamente di questioni di genere ma non può fare a meno di parlarne, perché il cuore pulsante del racconto sono i corpi e il concetto di bellezza, che quasi inevitabilmente saltano fuori ogni volta che si parla di corporeità.

Con un espediente narrativo molto efficace, l’autrice tenta di sviscerare la complessità della questione avvalendosi di una ricca bibliografia e sitografia.

Già ideatrice del podcast Nomadismo Professionale, interamente dedicato all’antropologia culturale, e dell’affascinante webinar L’antro delle fiabe, dedicato ai temi antropologici presenti nelle più note fiabe occidentali, questo è il suo primo libro.

“Non è bello ciò che è bello, ma che bello, che bello, che bello!”, diceva Nino Frassica, e fondamentalmente questo è il senso del saggio di Cassese, che – fatta una breve premessa – ci porta in bagno. Sì, avete capito bene: proprio nel luogo deputato alla cura del corpo sia in senso estetico che fisiologico.

Perché ambientare il racconto proprio nella stanza che potremmo definire meno conviviale della casa? «Sono una persona curiosa e, quando mi ospitano, non posso esimermi dallo sbirciare nei bagni, che – di tutte le stanze – sono quelle che più hanno da raccontare circa il rapporto col proprio corpo e anche col mondo» risponde divertita.

Ancora non si spiega il rapporto fra bagno, corpo e bellezza, però. E anche qua sembra che c’entri la curiosità, che non a caso l’ha portata a diventare un’antropologa. «Mi sono chiesta spesso cosa rendesse belle le persone agli occhi altrui e ho iniziato a chiederlo anche a loro: una sorta di ossessione. Come scrivo nell’introduzione, l’idea è nata dalla mia esperienza di insegnamento in un istituto professionale di estetica e di acconciatura. È stata un’esperienza di ricerca sul campo a tutti gli effetti. Anche se il motivo per cui ero lì era un altro, di fatto si parlava dalla mattina alla sera di che cos’è la bellezza, di che cosa rende un corpo bello oppure no e via discorrendo. Di fatto non esiste una risposta, anche se la cosiddetta “neuroestetica” ci sta provando. Probabilmente non riuscirà a dare spiegazioni esaustive vista la complessità della questione, ma sono sicuramente rilevanti per capire anche come ci siamo evoluti come specie».

Pensare ai corpi senza riferimenti al concetto di bellezza sembra praticamente impossibile «diciamo che nella quotidianità, nell’incontrare altri corpi, altre persone, eccetera, ho molti dubbi sul fatto che ci si possa svincolare completamente da questa idea di bello o brutto o, comunque, dall’idea di attrazione» ammette l’autrice e prosegue «questa dimensione riguarda anche il potersi fidare, potersi aprire e poter entrare in relazione. Ha a che vedere anche col meccanismo evolutivo di cui si stanno occupando la psicologia evolutiva e le scienze neurocognitive, appunto. È un enigma e un mistero di cui continueremo a parlarne fino a quando ci estingueremo».

«La bellezza è stata fortemente commercializzata», continua Cassese. «Negli ultimi centocinquant’anni è avvenuto questo cambiamento significativo, con una particolare accezione di genere, mentre un tempo era una ragione di classe. Non a caso le uniche persone che potevano prendersi cura del proprio corpo investendo tempo ed energia erano quelle benestanti e altolocate, senza contare che questo era anche funzionale al mantenimento di un certo status quo. Da sempre le figure di potere curano la propria immagine. Ecco perché il clamore attorno al caso Schlein (in seguito all’intervista rilasciata a Vogue Italia, nda) che si avvale della consulenza di un’armocromista non dovrebbe stupire. Nel 2023 si tratta di una banalità, sarebbe molto strano se non si occupasse del proprio aspetto. Berlusconi è un esempio lampante di politico che cura la propria immagine. Con l’industrializzazione della moda, del settore cosmetico e col fenomeno – diciamo così – di democratizzazione della bellezza, quest’ultima è diventata in qualche modo a portata di mano, ma soprattutto a portata di portafoglio, ossia accessibile anche a persone che non hanno chissà quante risorse economiche».

Quel momento storico è cruciale per la creazione di un modello di conformità corporea molto stringente e oramai irrealistico «stiamo parlando di corpi che non esistono nella realtà. Pensiamo agli angeli di Victoria’s Secrets».
Per chi non le conoscesse, non stiamo parlando dei cherubini michelangioleschi, ma di donne che definire bone è un eufemismo. Cassese però ci mette in guardia: «anche i loro corpi vengono ampiamente photoshoppati, non esistono altrimenti nella realtà così come siamo abituati a vederli sullo schermo o sulle riviste».
Non si sa se provare sollievo o angoscia. Da una parte rincuora sapere che i modelli di riferimento sono impossibili da raggiungere in quanto inesistenti a livello materico, dall’altra tormenta dover ricorrere all’uso compulsivo dei filtri messi a disposizione dai social media e dalle app di modifica delle immagini per mostrarsi apparentemente migliori, con la consapevolezza che questo è possibile solo ed esclusivamente online.

L’uso del femminile non è casuale, infatti la pressione sociale riguarda soprattutto le persone socializzate come donne, anche se ormai la platea si sta espandendo perché il fine è speculare, quindi che importa se sei un uomo, una donna, una persona non binaria o gender fluid? Spendi per la tua bellezza! «È una questione di profitti, perché alla fine la logica che sottende è unicamente legata al guadagno. “Non c’è consumatore migliore del consumatore insicuro”» aggiunge l’antropologa citando Virginie Despentes.

Cristina Cassese è convinta che più si alimentano le insicurezze, le ansie e le paure sociali, più si induce al consumo, ma una volta smascherata questa dinamica, la bellezza assume un “valore” diverso. Come scrive in un capitolo del libro, il desiderio di piacere non va demonizzato. «Vuol dire rendersi conto di non bastare a se stessi, è apertura verso l’altro, anche conflittuale, ma comunque una forma di relazione a parer mio fondamentale» e, continua, «Tuttavia alla pressione sociale enorme si aggiunge il bisogno di aprire questo modello diventato insostenibile e oppressivo. Sempre più persone, anche attraverso scelte estetiche che potrebbero essere definite discutibili e opinabili, stanno provando a scardinarlo.

Ciò è cominciato coi primi movimenti delle subculture degli anni ‘60 che, guarda caso, si opponevano alla società borghese e capitalista. A mio avviso il grande problema del capitalismo è proprio quello di fagocitare tutto quello che trova davanti. Non ha morale, perciò è capace di inglobare e vomitare qualsiasi istanza, proprio perché è mosso solo e unicamente da una logica, che è quella del profitto. Io non so come se ne esce, però so che possiamo aprire spazi di dialogo rispetto a certe pratiche, a certe abitudini e a certe modalità, anche nel quotidiano. Farlo non ci permette di uscire completamente dalla società capitalista dentro la quale viviamo, ma forse di viverci in una maniera un po’ più consapevole e quindi di riuscire anche a fare delle scelte più coscienti. Nel libro cerco di suggerire una pluralità di opzioni: ci sono anche altre possibilità di essere, di operare sul corpo, di concepirlo, di comunicare attraverso di esso e attraverso i suoi segni e questi segni possono essere ambivalenti e significare più cose».

Il pregio maggiore de Il bello che piace è quello di essere un saggio antropologico in chiave contemporanea che consente di guardare i corpi, incluso il proprio, da altre prospettive senza giudicarle e allo stesso tempo senza essere troppo accondiscendente. Senza la pretesa di voler insegnare qualcosa, ci ricorda che per cambiare punto di vista bisogna compiere un viaggio, fosse anche a partire da un bagno.

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