Com’è trasporre ‘Il nome della rosa’ a fumetti? Ce lo spiega Milo Manara | Rolling Stone Italia
Parola di Manara

Com’è trasporre ‘Il nome della rosa’ a fumetti? Ce lo spiega Milo Manara

Il maestro del fumetto italiano ha compiuto un piccolo miracolo: rimanere fedele al best seller mondiale pur contribuendo in maniera inedita all’ampliamento del suo immaginario visivo. Lo abbiamo intervistato

Com’è trasporre ‘Il nome della rosa’ a fumetti? Ce lo spiega Milo Manara

Milo Manara

Foto: Press

Quando Guglielmo da Baskerville e il suo allievo Adso da Melk, gli indimenticabili protagonisti del romanzo di Umberto Eco, intravedono per la prima volta il monastero benedettino nella trasposizione di Milo Manara, capisci immediatamente che il maestro del fumetto italiano ha compiuto un piccolo miracolo: rimanere fedele al best seller mondiale pur contribuendo in maniera inedita all’ampliamento del suo immaginario visivo. Quella labirintica biblioteca, costruita a picco sui monti dell’Appennino toscano e ossessione di milioni di lettori, ricalca la struttura di Castel del Monte, la fortezza federiciana a cui Eco si era ispirato per la sua narrazione. L’opera di Manara, infatti, è frutto di un imponente lavoro di ricerca, approfondimento, studio e rielaborazione, la cui abnegazione può effettivamente essere paragonata a quella degli amanuensi del XIV secolo. Proprio questa cura certosina ha fatto slittare la pubblicazione del secondo volume della trasposizione de Il Nome della Rosa, pubblicato da Oblomov edizioni e attesa nei prossimi mesi a completamento di un lavoro che è già un instant classic di questi anni. La vera forza del fumetto di Manara sta proprio nella maniacale attenzione per ogni particolare d’epoca, che permette al lettore di visualizzare sulla pagina quello scorcio medievale in cui Eco ha ambientato il suo romanzo. Il monastero diventa dunque uno dei veri protagonisti del libro, consentendo una totale immersione nel mistero e nelle indagini che attraversano non solo i luoghi, ma anche le pagine e le miniature dei manoscritti. Ne abbiamo parlato col vate della sensualità disegnata, un “fumettaro” (come lui stesso si definisce) con la dedizione per la ricerca e l’amore per la grande letteratura.

Il romanzo esplora il conflitto tra ragione e fede, ma lo fa offrendo al lettore un’immersione narrativa in un thriller storico. Anche per lei la sfida è stata quella di incrociare una storia appassionante a dei temi di carattere filosofico e teologico?
Ho cercare di essere più fedele possibile al testo di Eco, ma la fatica maggiore è stata senza dubbio quella di conservare gli argomenti originari pur riducendo notevolmente il volume del lavoro. È stato come avere davanti una grande cattedrale e provare a togliere il più possibile senza che la struttura crollasse. Ho lavorato come un monaco amanuense, che decora il manoscritto cercando di mantenerne il più possibile l’integrità e aggiungendoci delle suggestioni visive.

Il tema dei “libro sui libri che contengono altri libri” ha visto in passato la pubblicazione di grandi opere, non solo nel campo del fumetto ma (per esempio) anche del cinema. Apprezza il lungometraggio di Jean-Jacques Annaud del 1986? In qualche modo è stato influenzato da quella pellicola per la realizzazione di questo lavoro? Oppure si è basato solo ed esclusivamente sugli schizzi preparatori disegnati da Eco?
Il fatto che sia un libro sui libri rende la mia trasposizione a fumetti differente, appunto, dal film. Il fumetto è comunque un libro, quindi io aggiungo un’altra cerchia a questa matrioska straordinaria che ha costruito Umberto Eco, facendo un libro a fumetti su un libro che parla di libri. Ho cercato in tutti i modi di evitare di essere influenzato dal film, e non perché non mi piacesse, anzi! È un grandissimo film! Io però volevo darne una versione proprio libresca, rimanendo aderente al libro, e questo me l’ha confermato anche il figlio di Umberto Eco, che ha ritrovato il libro di suo padre nella mia riduzione a fumetti.

In che modo ha lavorato alla resa grafica della mitica biblioteca del libro?
Nelle pagine di Il Nome della rosa la lettura del Medioevo non è quella degli scrittori del romanticismo come Mary Shelley o Bram Stoker, che descrivono un medioevo horror, gotico. Ad esempio, se guardiamo la descrizione che Eco fa della biblioteca, essa non ha nulla a che vedere con la trasposizione fatta da Annaud. Nel film viene rappresentata una biblioteca gotica, mettendo insieme immagini di Escher con il castello di Dracula. Eco invece prese come modello la biblioteca di Babele di Borges, in cui vi è un succedersi di sale tutte uguali. È un labirinto nel labirinto, si continua a girare senza mai trovare l’uscita. L’angoscia che proviene da questa biblioteca è totalmente cerebrale e non dipende dal fatto che ci siano scale pericolanti o abissi, anzi, dal punto di vista architettonico parrebbe addirittura deludente. Umberto Eco ha infatti tratto il modello per costruire questo edificio da Castel del Monte, in Puglia, il castello di Federico II, che non è per nulla gotico pur essendo di quell’epoca. Quello che colpisce di Castel del Monte è la consapevolezza di trovarsi davanti a uno scrigno enigmatico, contenente un segreto che non si può penetrare, qualcosa di soprannaturale. C’è qualcosa di misterioso, inspiegabile, enigmatico ed è questo che ho cercato di conservare nel libro.

L’attenzione per i dettagli storici e il contesto culturale dell’epoca hanno reso il romanzo molto affascinante per i lettori, che tipo di ricerca ha effettuato per realizzare la sua opera?
Umberto Eco ha descritto, ad esempio, l’architettura dell’epoca, quindi io ho dovuto ricostruirla sulla base della sua descrizione e sulla base dei suoi schizzi pubblicati con l’ultima edizione de Il nome della rosa. Ho fatto inoltre numerose ricerche sui costumi, sul vestiario, perché ad esempio i Benedettini sono differenti dai Francescani… e poi ci sono anche altri personaggi laici che entrano nella storia. Ho dovuto fare tutta una ricerca su sugli usi, perché lo stesso Umberto Eco fa degli schizzi preparatori in cui si vede la natura nei campi nel Medioevo. L’ultima ricerca è stata proprio sulle iconografie dell’epoca, perché nel fumetto c’è un’aggiunta rispetto al film, in quanto ho riportato proprio i disegni di quel periodo. Si tratta disegni comici, satirici, anche osceni in molti casi, che sono fondamentali nella narrazione ma che non sono mai stati visibili, neanche nel film. Curiosamente, queste decorazioni dei manoscritti si chiamavano proprio vignette, perché erano decorati con tralci di vite, da cui hanno preso il nome. Quindi c’è un legame sotterraneo molto interessante tra il fumetto, il libro e le decorazioni marginali dell’epoca.

Il libro possiede tre diversi stili di disegno, può raccontarci come è avvenuta la lavorazione, quanto tempo ha richiesto e in base a quali parametri ha effettuato le scelte stilistiche?
Il libro è composto da varie matrioske. C’è un prologo in cui Eco racconta in prima persona di come è entrato in possesso del libro, dunque si parla di una realtà attuale. Poi comincia il racconto, che si riferisce al manoscritto del 1300, dove troviamo i vari monaci che narrano ciò che avevano vissuto prima di arrivare nell’abbazia. C’è poi il racconto di Salvatore e di quando era stato seguace di Dolcino, eccetera. Poi ci sono i disegni medievali che sono, come si è detto, importantissimi perché sono l’elemento scatenante della narrazione. Il mio impegno è stato quello di far comprendere subito al lettore che si tratta di livelli temporali differenti.

Cosa è cambiato nel mondo del fumetto tra passato e presente?
Negli ultimi anni nel fumetto, ma anche nella letteratura, c’è la tendenza a essere molto più legati all’attualità. Faccio l’esempio di un grandissimo autore come Zerocalcare, che fa la cronaca dei nostri giorni e addirittura si destreggia nel reportage. Naturalmente, per far questo, ci vuole una velocità di esecuzione completamente differente, quindi il disegno stesso si deve modificare, si deve adattare. Oggi abbiamo tutta una serie di disegnatori e disegnatrici che parlano delle difficoltà nei rapporti e il cui disegno è più allusivo, più schematico, non particolarmente descrittivo. Se invece io devo disegnare un ragazzino, per esempio, ecco che mi preoccupo di vedere cosa indossa, se ha il vestito sgualcito, se è un ragazzino ricco. Nel mio caso il web non ha cambiato praticamente nulla del mio modo di lavorare, ma senza dubbio Internet è stato molto importante rispetto alle necessità di documentazione. Una volta i fumettisti erano costretti ad avere migliaia di libri dedicati alle varie epoche storiche, sulle architetture, sulle pitture, sull’abbigliamento, sulle armi… tutta una serie di documentazione che a un fumettaro capitavano di dover usare.

Oggi il fumetto ha assunto un ruolo diverso nella società italiana rispetto al passato, lei ritiene che la situazione generale sia migliorata?
Il riconoscimento del rango culturale del fumetto è senz’altro migliorato, pensiamo per esempio che un libro di Gipi è stato fra i finalisti del Premio Strega. Oggi è tutta un’altra cosa rispetto al periodo in cui io ho iniziato, quando pure c’erano dei giganti del fumetto come Dino Battaglia, Franco Caprioli, Ugo Pratt, Sergio Toppi, autori che non necessariamente hanno fatto in tempo a vedersi riconoscere il proprio talento e spessore culturale. Tutti erano relegati alla letteratura per ragazzi. Questo legarsi sempre più alla cronaca, invece, ha fatto in modo che del fumetto si discuta proprio per le posizioni politiche e sociali. Spero che si arrivi anche ad avere un rispetto per i grandi disegnatori, che ci sia un loro recupero, perché Dino Battaglia quando ha illustrato le novelle di Moupassant ha dimostrato che la graphic novel era viva e vegeta 50 anni fa, mentre sembra un’invenzione totalmente recente. Io capisco quando i giovani disegnatori non vogliono più che il loro lavoro venga chiamato ‘fumetto’, perché questa parola contiene un che di infantile. Eppure, neanche in passato i fumetti erano solamente fumetti, c’erano delle cose meravigliose che non sono mai state riconosciute.

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