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C’è un (nuovo) romanzo che spiega il nostro rapporto con la sofferenza

Inscenare la propria vita, renderla il più appetibile possibile per un pubblico. Mentre nel mondo continua la violenza, la "vittima" torna a parlarci del contemporaneo. E, tra falsificazione e realtà, è protagonista di un libro di Andrew Boryga
Andrew Boryga

Foto: David Gonzalez

Scritto in forma autobiografia dalla voce narrante, un personaggio di nome Javi, Vittima (66THAN2ND, nella bella traduzione di Violetta Bellocchio) di Andrew Boryga si pone all’interno del canone tutto americano di caduta e rinascita, condanna e redenzione. Un Martin Eden del XXI secolo, dove però la disillusione non arriva alla fine ma è già nell’inizio, in una condizione disagiata che richiede, prima che un sogno e un desiderio, di dar sfogo a ogni più ardita ambizione, e quella di Javi è di diventare uno scrittore di successo, ovvero uno scrittore famoso e sopratutto ben pagato.

Per ottenere questo Javi è pronto a mettere in vendita la propria stessa vita e qui allora parrebbe già di stare dalle parti del Faust o quanto meno de Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov, ma Javi è un uomo di oggi che sa dare forma alla propria vita conoscendo perfettamente i meccanismi della tragedia senza aver bisogno di attraversarla. Anzi, Javi dalla tragedia si tiene alla larga, meglio ancora alla giusta distanza per poterla così osservare e decriptare e poi infine raccontare come elemento vissuto che lo ha profondamente segnato.

Foto: press

Javi è quello che si dice una vittima del nostro sistema, origini portoricane, padre ucciso in una sparatoria, ovviamente povero e dunque adatto a ogni possibile tutela e rassicurazione da parte di un sistema che resta fortemente iniquo ma sempre bisognoso di lenire i propri sensi di colpa. Ovviamente il patto comprende che Javi interpreti alla perfezione il ruolo di vittima e che della vittima sappia raccontare i drammi e le tragedie scendendo fin nei più reconditi particolari e, quando serve, anche arricchendo il tutto con un po’ di enfasi e qualche utile falsità, purché si possa arrivare a smuovere delle emozioni e anche a far scaturire qualche calda lacrima. Tutto ciò non è che il minimo necessario per dare corpo alle burocratiche graduatorie che possono permettere a Javi di accedere a università prestigiose e di scalare ruoli sociali, fino al raggiungimento dell’ambita vetta: soldi e fama, il cosiddetto successo.

«Sull’autobus del ritorno pensavo a quali “ostacoli” avevo affrontato in vita mia. Era uno strano esercizio. Avevo cercato un po’ di empatia dopo la morte di Papà, ma quello era successo perché mi serviva una scusa per evitare di fare qualcosa, e per procurarmi l’attenzione che volevo». Chissà che avrebbe pensato l’impacciato Martin Eden trovandosi di fronte lo scafatissimo Javi. Forse lo avrebbe trovato particolarmente odioso o più semplicemente lo avrebbe anche lui considerato una povera vittima del sistema. Magari invece ne avrebbe anche lui seguito le orme, evitando uno struggimento fin troppo doloroso. Sicuramente Javi, lo struggimento di Martin Eden, lo avrebbe trasformato in benzina per la propria ambizione, perché in fondo non è questione di avere o non avere scrupoli, ma di comprendere il funzionamento di un sistema per poi prendersi la parte da protagonista. Non si tratta di una rivelazione, ma di far parte di un meccanismo, essere un pezzo dell’ingranaggio, e uno estremamente pregiato. E nessuno nel nostro tempo, e in Occidente o in quel che ne resta, è più eroico e virtuoso di una vittima.

Scrive in uno dei più influenti saggi degli ultimi anni Daniele Giglioli, Critica della vittima (nottetempo): «La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto». E tutto questo, come fosse un modello prestampato, Javi lo segue e lo esegue alla perfezione, abile interprete dei nostri tempi.

Molta parte della critica ha considerato Vittima una presa in giro della cultura woke oggi molto diffusa nelle istituzioni culturali americane, almeno fino all’avvento della presidenza Trump e dei suoi decreti firmati a colpi di pennarello. Una visione critica, a dire il vero un po’ limitante e tipica di chi parla di cultura woke come il male assoluto senza considerane il contesto. Una critica molto diffusa nella provincia americana e non a caso anche in Italia (a proposito di provincia) dove si pretende di denunciare i deliri razzisti (!) del wokismo, sconfessandolo anche là dove, in Italia per l’appunto, nulla della presunta cultura woke non solo si è mai palesato, ma dove anche i diritti più elementari spesso non sono minimamente garantiti e ancor meno regolati dalla legislazione.

Certamente Andrew Boryga deride e denuncia le distorsioni tipiche della cultura woke, ma non ne nega la funzione politica e sociale. L’autore infatti prende di mira le contraddizioni del movimento woke nel momento in cui accoglie figure più interessate a un uso strumentale di quella visione che a una reale evoluzione più inclusiva delle dinamiche sociali. E all’interno di questo movimento l’autore offre un ritratto dell’evoluzione dello scrittore e della natura della sua ambizione nel contemporaneo.

Mettere in scena la tragedia, deformarne la realtà per fini di drammaturgia, non è un aspetto tipico della contemporaneità, ma è legato dalla notte dei tempi alla narrazione e alla costruzione drammatica di una trama. Ossia tutto quello che, a partire dalla trama, dalla seconda metà del Novecento si è tentato di abbattere, senza però riuscire mai a fornire un’alternativa sufficientemente seducente, se non per qualche isolato misantropo appassionato di avanguardie letterarie.

Quello che fa Javi non è altro che inscenare la propria vita, rendendola il più possibile seducente per il proprio pubblico. Un pubblico che Javi vuole vasto e sopratutto ben pagante: «Con ogni rubrica continuavano ad arrivare le e-mail adoranti e i tweet e i follower. Arrivavano piccole dosi della mia droga preferita ogni volta che il telefono vibrava con una nuova notifica. E io ci avevo preso gusto. Abbastanza da continuare a scrivere, da continuare a falsificare storie quando ne avevo bisogno».

La differenza rispetto al secolo scorso, sembra suggerirci Vittima, è nella velocità e nella capacità di consumo che non offre più spazio a sfumature e ad ambiguità, ma che anzi percepisce ogni rifrazione come una giustificazione subito condannabile e mai interpretabile. Perché oggi il giudizio precede sempre l’elaborazione critica.

Vittima è un godibile e grande romanzo americano, costruito in modo molto classico e che racconta ai suoi lettori una storia molto vecchia, ma ancora attuale. Esistono le false vittime, quelle che sanno raccontare una bella storia e sedurre milioni di persone, e alcune di loro sono grandi scrittori. Molte invece sono solo degli approfittatori e spesso la differenza tra l’uno e l’altro è così labile e richiede così tanta acutezza e precisione che si è deciso, pare unanimemente, di lasciar perdere e di bersi tutto: l’acqua buona e l’acqua sporca, ché di chi sia il bambino non importa più a nessuno. E poi esistono le vittime vere, che non hanno mai avuto la possibilità di parola e di cui non sappiamo nulla perché in realtà nulla vogliamo saperne di loro, di come stanno e di come vivono.

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