Benvenuti a ‘Tarantino Town’ | Rolling Stone Italia
una solida architettura culturale

Benvenuti a ‘Tarantino Town’

Dove l'immaginazione viene presa sul serio e la cinefilia dà il nome alle strade. Il nuovo libro publicato da Prestel è un gigantesco "what if". Uno in cui sarebbe divertente perdersi

Benvenuti a ‘Tarantino Town’

Leonardo DiCaprio e Brad Pitt in 'C'era una volta... a Hollywood' di Quentin Tarantino

C’è una città che non troverete sulle mappe di Google, ma che molti hanno abitato almeno una volta, entrando in un cinema con i popcorn in mano e uscendo con addosso la sensazione di aver vissuto in un’altra dimensione. Questa città immaginaria si chiama Tarantino Town ed è il nuovo libro ideato da Johan Chiaramonte, insieme a Camille Mathieu, editor-in-chief di Rockyvision.

Tarantino town

Foto: press

Pubblicato da Prestel, è un viaggio che ha l’ambizione di trasformare l’universo di Quentin Tarantino in un luogo fisico, popolato da icone, citazioni e atmosfere che hanno reso il regista di Knoxville una sorta di urbanista pop della contemporaneità.

Immaginate strade polverose che rimbombano al ritmo di un vinile dei ’70, con juke-box che sputano fuori Stuck in the Middle with You o le chitarre psichedeliche di Nancy Sinatra. Svoltate l’angolo e vi troverete un diner che serve “Big Kahuna Burgers” con l’opzione di un milkshake da cinque dollari: «È proprio un gran bel milkshake», avrebbe commentato Vincent Vega con lo sguardo annoiato di chi non si sorprende più di nulla. Poco più in là, una sala cinematografica proietta un double feature degno di Grindhouse: Faster, Pussycat! Kill! Kill! e Django. È un paesaggio che si nutre della logica del rimando, un patchwork di citazioni alte e basse, dove Robert Frost convive con i fumetti pulp, e dove la letteratura di consumo si mischia con la poesia americana come se non ci fosse mai stata differenza.

Il libro, ricco di immagini e di saggi che si muovono con leggerezza tra filologia e fan obsession, si presenta come una mappa per esplorare questo mondo parallelo. Non è solo un omaggio ai film, ma un modo per trasformare in esperienza immersiva ciò che Tarantino ha sempre fatto sullo schermo: costruire universi. Perché se è vero, come ha dichiarato lui stesso, che «Rubo da ogni singolo film mai realizzato», allora Tarantino Town è la prova vivente che il furto, quando è geniale, può trasformarsi in un’architettura culturale più solida di qualsiasi teoria.

Dentro le sue pagine, il lettore trova negozi in cui provare i completi eleganti dei Reservoir Dogs o la tuta gialla di Beatrix Kiddo, librerie che vendono romanzi pulp e antologie di poesia, e una sartoria immaginaria che sembra uscita direttamente da Jackie Brown. Tutto è un set e ogni dettaglio una citazione, come se la città stessa fosse scritta in sceneggiatura. È un mondo in cui lo spettatore non è più solo consumatore, ma abitante temporaneo, turista di un’estetica che da trent’anni ha colonizzato la nostra immaginazione.

Eppure, dietro il gioco di rimandi, c’è qualcosa di più serio. Tarantino ha sempre lavorato sul concetto di superficie, sull’idea che dietro a un dialogo apparentemente banale («Un Royale con formaggio») si nasconda un’intera antropologia culturale, e che in ogni dettaglio triviale possa nascondersi la scintilla di un’epica contemporanea. Tarantino Town ci ricorda proprio questo: che i suoi film non sono solo intrattenimento, ma un museo vivente della cultura pop americana, capace di inglobare la violenza dei B-movies, la grazia del cinema europeo e l’ironia tagliente di un fumetto noir.

Il tono ironico e visionario del libro richiama lo stesso atteggiamento con cui Tarantino ha sempre guardato al cinema: un mix di ossessione e libertà. «Non cerco di dire nulla di profondo, mi piacciono solo i film», ripete spesso nelle interviste, salvo poi costruire film che diventano affreschi generazionali. Ed è forse questo il cuore del progetto editoriale: prendere sul serio l’immaginazione, costruire un luogo dove la leggerezza diventa architettura, e la citazione diventa cittadinanza.

Perché, in fondo, entrare a Tarantino Town significa vivere dentro un paradosso: camminare in una città che non esiste ma che è più reale di molte altre. Dove la memoria cinefila è un tessuto urbano, e dove i personaggi – da Mr. Blonde a Shosanna, da Jules Winnfield a Cliff Booth – non sono solo maschere di celluloide, ma vicini di casa con cui condividere un tavolo al diner. Come avrebbe detto Samuel L. Jackson in Pulp Fiction, con la sua voce biblica: «E conosceranno il mio nome quando calerò la mia vendetta su di loro». Un monito che, in questa città immaginaria, suona più come un benvenuto.

In definitiva, Tarantino Town è un invito a trasferirsi, anche solo per qualche pagina, in una dimensione parallela. Lì dove il cinema diventa urbanistica, le battute diventano segnali stradali e l’estetica pulp si fa paesaggio. Un luogo che, per chi ama il cinema, non è mai stato così reale.

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