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Beffardo è la parola che descrive meglio “Mezzo Mondo” di Joe Abercrombie

Il secondo libro della trilogia vichinga del Mare Infranto esce dai canoni classici del fantasy, fino a mettere in scena un realismo che non ti aspetteresti mai
Un dettaglio della copertina di "Mezzo Mondo".

Un dettaglio della copertina di "Mezzo Mondo".

Quando, in occasione dell’uscita italiana di The Heroes, lo “stand alone” ambientato nel mondo della precedente Trilogia della Prima Legge (quella in corso, e di cui questo nuovo Mezzo Mondo è il secondo volume, è invece quella del Mare Infranto) ero stato incaricato di intervistare Joe Abercrombie, prima di stabilire il contatto Skype me lo ero andato a cercare su Internet. In una foto in giacca e cravatta reggeva con evidente soddisfazione una grossa ascia bipenne, proprio di quelle che storicamente non sono mai esistite ma nel fantasy vanno forte fin dai tempi di He-Man.

Diceva molto quella foto, certo nata come normalissima boutade: diceva che erano finiti i tempi in cui gli scrittori fantasy si alienavano completamente nel loro mondo (e nella loro subcultura) o pativano addirittura un complesso di inferiorità rispetto agli autori “seri”. Quello che avevo davanti, e l’intervista lo avrebbe confermato, era un tizio che si divertiva e mostrava pieno orgoglio per quel che era e faceva. Del resto Abercrombie non è solo stimato dal Martin del Trono di Spade, ma può vantare anche l’apprezzamento pubblico del Pulitzer e Mac Arthur Fellow Junot Diaz, autore di romanzi assolutamente letterari, seppure sempre con una nota di nerdom all’interno.

Joe Abercrombie, 40 anni, è uno scrittore inglese. Foto: Facebook

Per la nuova trilogia edita da Mondadori, cominciata col Mezzo Re e proseguita con questo Mezzo Mondo, Abercrombie ha scelto un mondo di ispirazione vichinga, e per quanto il taglio del libro sia lievemente più “basso” – lo stesso autore ha parlato di Young Adult, ma non ci si aspetti roba alla Twilight… – il beffardo senso della storia dell’autore di Lancaster è intatto, così come la sua cifra personale, fatta di violenza, vendetta, tradimento ed emozioni forti, così come un certo amore per i topos classici del romanzo d’avventura, in questo caso la “motley crew” – il gruppo di sbandati e reietti costretti loro malgrado a essere eroi. E poi, come sempre nei suoi libri e nei suoi mondi, c’è la radicale riduzione dell’elemento magico.

Se già Martin, rispetto al fantasy classico, aveva molto ridimensionato il peso del sovrannaturale nelle sue storie, con Abercrombie la riduzione è tale far legittimamente sospettare di non essere più nei territori del fantasy, e neanche del “low fantasy” o del “grim dark”, ma da qualche altra parte, qualcosa che potrebbe essere definito storia di fantasia, similstoria o fantastoria, visto anche il realismo del libro. È pur vero che esistono delle solide basi anche in questo senso: viene alla mente Howard, che di fatto inventò il fantasy moderno non perseguendo una volontà mitopietica, demiurgica e glossotetica come quella di Tolkien, ma per pigrizia: inizialmente voleva scrivere romanzi storici, poi vide che era una operazione faticosa che richiedeva un sacco di studio, così tenne i barbari e si inventò tutto il resto. Nacque Conan il Barbaro, ed era uno spasso. Così è uno spasso Abercrombie, e lo è anche per i lettori italiani, in virtù dell’eccelsa traduzione di Edoardo Rialti.

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