Nel mondo del giornalismo c’è una citazione (attribuita, ma non con certezza, a Hunter S. Thompson) che dice: «If you do this job long enough, you’ll start writing about yourself» («Se fai questo lavoro abbastanza a lungo, finirai per scrivere di te stesso»). La si trova altre volte nella forma «If you stay in the game long enough, you become part of the story» («Se resti nel gioco abbastanza a lungo, finisci per diventare parte della storia»), ma il concetto non cambia. In più di un decennio, articoli e reportage mi hanno portato a fare cose che non avrei mai pensato di fare, come addestrarmi con il kalashnikov con un gruppo paramilitare tra le montagne dell’Armenia, bere zuppa di sangue di pollo e brodo di pene di cavallo nei villaggi contadini sperduti tra le montagne del Vietnam, ma anche a tante assurdità da ricchi come guidare Ferrari a Maranello, volare in elicottero sulla Polonia, fare karaoke nelle ville di lusso dei benestanti indiani, e bere distillati imbottigliati mentre Albert Camus scriveva L’Étranger.
Ma se mi avessero detto che un giorno la passione per la scrittura, in cui mi sono rifugiato in quanto bambino sovrappeso, mi avrebbe portato a parlare di e (ancor peggio) a praticare sport, forse il giovane me lo avrebbe trovato più improbabile di tutta la lista precedente.
Le volte ci sono cose che si decide di fare solo per poterle raccontare, perché la verità è che alcune storie sono troppo belle per girarci intorno senza entrarci dentro. Per me è successo quando ho detto “sì” all’Eroica, la corsa ciclistica più nostalgica (e faticosa) d’Italia: ottobre, Gaiole in Chianti, bici d’acciaio che pesano come scooter e che salgono e scendono tra colline ripide tra i vigneti. Un evento dove ti sporchi, sudi, bevi vino ai ristori e Negroni dalla borraccia, e scopri che l’unico doping consentito è la ribollita.

Foto: Gabriele Palchetti Tosi
Storia di una corsa storica
L’Eroica nasce nel 1997 per volontà di Giancarlo Brocci, toscano di Gaiole in Chianti, scrittore e sportivo. Il suo sogno era salvaguardare le strade bianche, quei percorsi di ghiaia che attraversano le colline e che un tempo univano poderi, borghi e cantine. In anni in cui l’asfalto stava cancellando il paesaggio rurale, Brocci immaginò un modo per restituire dignità a quei sentieri: non una gara moderna, ma un ritorno alle origini del pedalare. Decise così di organizzare un raduno dedicato alle biciclette d’un tempo, quando ogni salita era una conquista e la polvere restava addosso come una medaglia.
Alla prima edizione si presentarono 92 ciclisti, mossi più dalla curiosità che dallo spirito agonistico. Da allora l’Eroica è diventata un appuntamento internazionale, capace di attirare ogni anno migliaia di partecipanti da tutto il mondo. L’intento è rimasto lo stesso: celebrare un ciclismo fatto di tenacia, lentezza e rispetto per la fatica.
Le regole sono semplici ma inderogabili: possono prendere parte soltanto le bici costruite prima del 1987, con telai in acciaio, comandi del cambio montati sul tubo obliquo e freni a cavo esterno. Anche l’abbigliamento richiama il passato: maglie di lana, borracce in metallo, cappellini e scarpe d’epoca.
La scelta del 1987 non è casuale. È l’anno che segna, per gli storici della bicicletta, la fine del ciclismo “eroico” e l’inizio dell’era moderna. Da quel momento i telai in acciaio iniziarono a essere sostituiti da quelli in alluminio, i cavi dei freni sparirono all’interno del manubrio, e i comandi del cambio vennero spostati sulle leve freno. La bicicletta divenne più efficiente, ma anche meno vulnerabile, meno artigianale. L’Eroica ha fissato quella data come confine simbolico, un modo per ricordare un tempo in cui la meccanica era ancora parte della fatica e non soltanto del risultato.
I percorsi attraversano il Chianti Classico e le Crete Senesi, con tracciati che vanno dai 46 ai 209 chilometri. Ma il cronometro qui non serve: ciò che si misura è la capacità di godersi la strada. Ai ristori, invece di gel energetici, si trovano pane toscano, ribollita, salumi e Chianti. Lontano dalle logiche competitive, l’Eroica è oggi considerata un manifesto culturale: un invito a riscoprire la bicicletta come strumento di libertà e di contatto con il paesaggio.

Foto: Gabriele Palchetti Tosi
La mia preparazione all’Eroica
La premessa sul bambino cicciottello con cui ho aperto il pezzo potrebbe far pensare a un giornalista da scrivania, fuori forma e abituato ad alzarsi dal PC solo per versarsi un’altra tazza di caffè. Per mia fortuna non è così, da tanti anni pratico con costanza il pugilato e nonostante una profonda insofferenza per la corsa mi costringo a fare almeno un paio di corse da 10km l’anno, che mi fanno sentire un incrocio tra un Murakami di periferia e il protagonista di The Long Walk di Stephen King. Ma tutto questo ovviamente è completamente inutile quando si parla di ciclismo. La mia esperienza pregressa legata alla bici si può suddividere in tre fasi, che chiameremo con il titolo di tre film di Star Wars: “la minaccia fantasma”, ovvero quando all’università mi ostinavo a comprare bici di seconda mano per muovermi in città vedendomele puntualmente sparire, rubate nel tempo di qualche settimana. “Una nuova speranza” quando le nostre città si sono riempite di bike sharing, che in un primo momento mi avevano riportato al piacere di pedalare, e infine “la vendetta dei Sith” inteso come il mio definitivo passaggio al lato scuro, decidendo di spostarmi in auto come un Anakin ultra trentenne quale oggettivamente sono.
Quindi come si è materializzata nel mio orizzonte la possibilità di passare da zero a cento (anzi, a 46, come i chilometri che ho affrontato in bicicletta) senza preparazione né passione? La colpa è di Winestillery, prima distilleria del Chianti Classico, che ormai da alcuni anni è partner della manifestazione, e organizza una propria squadra ciclistica con tanto di maglie e cappello. Come detto, ci sono occasioni troppo golose per essere osservate solo dall’esterno.
Se siamo arrivati al terzo capoverso di questo paragrafo intitolato “La mia preparazione all’Eroica” e ancora non avete trovato un rigo in merito al tema, è semplicemente perché non lo ho fatto. Non mi sono preparato nonostante avessi le migliori intenzioni di farlo. Ma la verità è che purtroppo non possiedo una bici mia dai tempi della Minaccia Fantasma, e quindi le alternative erano di base due: allenarmi in città su Mobike o simili oppure passare del tempo su una cyclette sperando che servisse a qualcosa, ma avendo l’impressione di prepararsi a una notte d’amore guardando film porno. Ho optato per questa seconda opzione, ben consapevole che i benefici sulla mia prestazione sarebbero stati paragonabili a quelli appena descritti nella precedente, raffinatissima, metafora a luci rosse.

Foto: Gabriele Palchetti Tosi
La corsa
Pioviggina. Non è fastidioso, ma pioviggina alla partenza, ed il cielo è coperto. Ma nessuno pare prendere la cosa troppo sul serio, la convinzione generale pare essere che sia una cosa passeggera. Intorno a noi le maglie di lana brandizzate da aziende ormai fallite come i gelati Sanson, o con scritti nomi di club ciclistici, paiono tenere caldo ma al contempo non essere particolarmente impermeabili, e sono contento che la mia squadra indossi le magliette dalla distilleria toscana, che anche se meno autentiche nei materiali sono più performanti nello sforzo.
Siamo in sei a correre per la Winestillery, di cui almeno tre con una solida esperienza di bicicletta sulle spalle. Stamattina quando ci siamo incontrati è stato molto facile notare la differenza tra chi sapeva perfettamente cosa fare, e chi, come me, aveva da mettere insieme moltissime informazioni in pochissimo tempo. Dalla posizione dei piedi nelle staffe, a quella del corpo in parallelo al terreno, fino al (e ci torneremo) temibile cambio posto sulla canna. Tutto deve essere imparato nella mezzora antistante alla partenza. Enrico Chioccioli Altadonna, patron e master distiller di Winestillery, ci chiede prima di partire di inviargli la nostra posizione in tempo reale su WhatsApp, e nonostante io sia perfettamente consapevole che il motivo è che se dovesse servire ci può venire a recuperare, c’è una parte di me che non può non immaginarlo intento in uno Squid Game chiantigiano mentre con un gruppo di super ricchi ci guardano su uno schermo facendo scommesse. Ad avvalorare questa teoria, il fatto che ci viene consegnata una borraccia piena di Boulevardier, il celebre twist sul Negroni che sostituisce il gin con il whisky. Questa cosa ha perfettamente senso visto che Winestillery produce Florentis, primo whisky toscano, e che ovviamente approfitta di queste manifestazioni per farsi conoscere, eppure il retropensiero di una qualche sorta di bonus o di sfida extra non mi esce dalla testa.
Pioviggina dunque, e noi partiamo senza darci peso, come tutti intorno a noi. La prima parte è piacevole, asfaltata, pianeggiante. Se fosse tutto così, sarebbe bellissimo. Ma ovviamente non lo è. La prima salita mi dimostra fin dai primi metri che mezz’ora non è un tempo sufficiente per imparare la meccanica del metallo. Provo in continuazione a scattare di marcia per alleggerire, ma mi pare che non succeda niente. Anzi, qualcosa succede: la catena esce, davanti e dietro. Ed è questo il momento in cui per la prima volta comincio a intuire lo spirito dell’Eroica. Un ragazzo veneto si ferma, mi guarda nella mia evidente inadeguatezza meccanica e scende a darmi una mano. Di episodi così ne vedrò tantissimi durante i 46km che mi accingo a percorrere. Ogni tanto su una salita particolarmente ripida ho sentito una mano sulla schiena darmi una spinta, altre volte qualcuno mi ha detto di mettermi in scia dietro di lui (concetto che per me resta avulso, ma sono sicuro che è una cosa sensata). La competizione in questa corsa non esiste, è una festa collettiva, e proprio con questo spirito viene vissuta.
Arrivato al Castello di Broglio, in cima a due salite, una asfaltata e una di strade bianche, scopro che siamo solo a circa 15 km, e penso di rinunciare. Quando ero a metà strada per arrivare qui, per la disperazione ho anche aperto il Boulevardier e dato un paio di sorsi, ben consapevole che da qualche parte per questa mia scelta erano stati bruciati 100 milioni di won, ma se il generale Ulysses S. Grant ci ha vinto la guerra di secessione con questa tattica, posso provarci anch’io a trovare del coraggio liquido.
Per fortuna in cima a questa prima pettata Gabriele Palchetti Tosi, membro della mia squadra con un passato ciclistico serio (oltre che autore di tutte le foto di questo articolo) mi salva donandomi nuova speranza: non era una mia impressione, le marce non scalavano veramente. Con poche mosse smonta e rimonta catena e ingranaggi, e da qui per me inizia tutta un’altra corsa. Mi sento un po’ stupido ad aver fatto tutta questa strada con una resistenza così alta, ma ovviamente mi sento anche rinato. Da qui in poi la corsa diventa bellissima. Faticosa, certo, ma bellissima. Succede per esempio che quando pedali da abbastanza tempo il cervello cominci a vagare per conto suo, percorrendo anche lui delle strade a cui non è abituato. Si sente più leggero mentre le tue gambe sono più pesanti, dando vita a una sorta di meditazione o trascendenza da sport. Mentre avanzo filosofeggio su per quanti anni ancora queste bici potranno essere riparate, di quando l’Eroica sarà corsa nel futuro su bici di 100 anni fa. Penso al mio miglior amico appassionato di moto d’epoca, che sostiene la superiorità della meccanica sull’elettronica, e su come la sua battaglia sia così simile a quella di chi organizza questa corsa, e di come ogni mondo possa avere così tanti appassionati.

Foto: Gabriele Palchetti Tosi
Poi non tutti i miei pensieri sono così raffinati: chi come me è abituato a fare sport con le cuffie, in parte si isola nella musica. Ma oggi ho deciso di non metterle per vivere a pieno l’esperienza e come effetto collaterale ho quello che il mio cervello canta no stop la stessa canzone dello Zecchino d’Oro che mia figlia ha ascoltato tutta la settimana, ovvero Katalicammello, che è pur vero che parla di velocità e corse, ma ecco, non è propriamente la colonna sonora del Gladiatore. E più la stanchezza va avanti più i miei pensieri diventano confusi, e mi trovo tra una pedalata e l’altra a chiedermi se il mio destino giornalistico sia di essere il primo recensore di Katalicammello su Rolling Stone. Sarebbe un grande debutto come critico musicale.
Poi per fortuna a interrompere il delirio arriva il primo ristoro. Avevo letto varie volte di questi leggendari ristori a base di ribollita e vino rosso, ma voglio essere sincero: io di ribollita non ne ho vista, forse è riservata ai coraggiosi che fanno il percorso da 209km. In compenso ho potuto mangiare pane e olio, prosciutto, porchetta, formaggi, miele e uova cotte al momento e messe sul pane. È tutto molto buono, salato e grasso. Il vino rosso invece c’è, proprio come promesso, e questo mi conforta perché se avevo temuto di non passare l’antidoping per via della mia borraccia speciale, da qui in poi credo di essere perfettamente nella norma.
Gli ultimi 15km sono in buona parte in discesa, che può sembrare meglio decisamente ma non lo è, perché il livello d’attenzione richiesto con le mani sui freni e gli occhi sul selciato fatto di ghiaia, sassi e terra è altissimo. A Dievole bisogna prendere veramente coraggio per scendere la ripida collina. C’è chi buca ruote, chi ha la bici che storce, chi non ha più fiato e chi non ha più gambe. Ma piano piano tutti vanno avanti, aiutandosi, prestandosi camere d’aria e brugole. Gli ultimi chilometri su asfalto paiono facili rispetto a tutto quello che si è già percorso, ma al contempo non finiscono mai. Non mi fermo più fino al traguardo perché c’è una parte di me non così sicura che se scende dalla bici poi vorrà salirci di nuovo.
Ed infine eccolo, caotico, circondato da persone che acclamano: il centro di Gaiole. Smonto dalla bici e mi faccio mettere al collo la medaglia, poi esco dalla folla e mi dirigo verso la macelleria dove so che già i primi due o tre membri della mia squadra stanno ordinando bistecche che mai come ora mi paiono l’alimento adatto a uno sportivo. Sono stanco, ma anche soddisfatto, e so che domani dovrò affrontare innumerevoli prove, ma ora non ci voglio pensare: non voglio pensare alle gambe che saranno di pietra, al collo che mi sembrerà legato con cavi d’acciaio. Non voglio pensare se i pantaloncini imbottiti di Decathlon da 11 euro saranno stati sufficienti a proteggermi oppure se dopo oggi non potrò avere ulteriore prole a cui far ascoltare Katalicammello. Voglio godermi ancora per un po’ questa sensazione del qui e ora, continuazione dello stato meditativo che solo la bici e la fatica possono dare.
Mi godo gli ultimi passi sull’asfalto, con la bici che mi accompagna docile, la medaglia che mi rimbalza piano sul petto, contento di aver passato questa giornata a (come diceva David Foster Wallace) fare una cosa divertente che non farò mai più.








