C’è chi va a mangiare da Aqua Crua per vedere Giuliano Baldessari cucinare avvolto nella sua famosa tuta in latex, e c’è chi mente. Ma poi, una volta provata l’esperienza (le stanze sopra il ristorante sono lì anche per quello: vivere il percorso in un paio di giorni), capisci che c’è molto di più.
Ammetto di essere uno poco incline a farsi sedurre da personalità istrioniche, così ho cercato di azzerare le mie resistenze prima di partire per i miei tre giorni in compagnia dello chef e della sua brigata. L’obiettivo era provare i menu degustazione n°2 e n°3 del suo trittico “Iniziazione”, dormire nelle stanze del ristorante a Barbarano Vicentino e poi passare un giorno intero a fare foraging in montagna in Trentino, pernottare in baita in sacco a pelo e andare a raccogliere la rugiada di San Giovanni dell’alba del 23 giugno, necessaria per il lievito madre dei panificati di Aqua Crua. Sulla carta sembrava l’inizio di una barzelletta. E invece mi sono divertito, ho imparato, e posso dire di aver avuto il privilegio di conoscere un personaggio bizzarro; un genio sgusciante ma privo di malizia.

Giuliano Baldessari. Foto: Carlo Gibertini
La vita di Giuliano, classe 1977 — di quella Generazione X un po’ smarrita, schiacciata tra Baby Boomer e Millennial — è spesso stata una strada in salita, un continuo oscillare tra caos e riscatto. Da ragazzino iperattivo e ingestibile a teenager fuori controllo tra fughe, droghe e incidenti scampati per un soffio, ha rischiato di bruciarsi presto, come alcuni suoi amici che invece non ci sono più. Il servizio militare gli ha dato a suo dire disciplina (persino un passaggio in carcere), ma è stata la cucina a salvarlo per davvero. Prima lavava vasche di pesci, poi serviva tagliolini al pomodoro a Madonna, poi è arrivato a reggere i ritmi folli di mostri sacri come Marchesi, Aimo e Nadia, Veyrat e Alajmo.
Si dice che la sofferenza nutra l’arte (penso a Tiziano Ferro: luogo comune ma spesso vero). Così Baldessari, con il suo personale Sturm und Drang, nel 2014 apre Aqua Crua, ristorante-eremo dove trova la formula per stare meglio — o almeno per esprimere il talento: trasformare il disagio in gusto, in un mix di ricerca, poesia e provocazione che gli vale anche la stella Michelin.

Il ristornate Aqua Crua. Foto: press
Capisco che è quello che si dice “tatone” quando viene a prendermi in stazione a Vicenza con la sua Seat sgangherata. Mi ripete più volte e un po’ nervosamente che spera che io non sia un giornalista fighetto, perché la gita in Trentino dell’indomani non sarebbe stata per i deboli di cuore — ma questo me l’aveva già anticipato in una telefonata qualche giorno prima, dove ho anche scoperto che sarei stato l’unico partecipante.
Nel viaggio verso Barbarano Vicentino inizio a fargli un po’ di domande, il setting così informale mi sembra l’ideale e lui mi fa subito sentire a mio agio. Vado immediatamente a indagare sulla tuta in latex, mi immagino che sia figlia di qualche kink, visto il personaggio e il jeans super skinny, e invece rimango sorpreso: «No, no, non c’entro niente con quel mondo lì, è che io faccio fatica a concentrarmi, come si dice al giorno d’oggi, iperattivo?» «Ah, ADHD» rispondo; e mi conferma che sì, lui da quando è bambino fa una fatica enorme a concentrarsi e sbarella quando ha troppi stimoli.
Un giorno una fidanzata gli parlò di una tecnica descritta nel corso universitario di una sua amica sulla devianza sessuale, e la cosa gli risuonò dentro. Gli spiegò come i praticanti di BDSM blocchino alcune forme di stimolazione sensoriale per amplificarne altre tramite le tute in latex, permettendo di focalizzarsi. La tuta annulla così le distrazioni e gli altri sensi: non si sente, perché la maschera copre orecchie e naso, e la visione periferica è ridotta, così lo chef può concentrarsi solo sulla bocca e sul senso del gusto. Svelato, dunque, il significato della tuta in latex per cui è diventato celebre anche all’estero (in Germania sono impazziti dopo un servizio di Deutsche Welle): non tanto provocazione, ma strategia di coping. Mi ha conquistato, ma devo ancora provare la sua cucina.

Lo chef “in latex” Giuliano Baldessari. Foto: press
Quando arrivo da Aqua Crua mi fanno accomodare nella mia stanza e preparare psicologicamente ai due menu degustazione che mi attendono: uno a pranzo, comprensivo di amuse-bouche e abbinamento vini completo, e uno a cena (dopo un pisolino), il n°3, il più hardcore, il manifesto dello chef. La sala del ristorante è silenziosa, non troppo grande, i tavoli fin troppo spogli ma comunque mi sento a mio agio. Il menu n°2 che provo a pranzo è una giostra di props molto divertenti, che trasformano il tavolo in una tela massimalista e quindi capisco il senso di quelle superfici nude che mi avevano accolto all’arrivo in sala.
Dai bocconcini iniziali al trionfo di assaggi del dolce, sono tutti piatti che di piatto hanno poco: superfici organiche di porcellana, di metallo, una formica giocattolo che tiene in bocca una fetta di daikon, una scarpetta di Cenerentola con dentro un cioccolatino, un nanetto di plastica color giallo fluo cui è attaccata una nuvola di zucchero filato, l’elenco è troppo lungo e comunque quello che contava era l’effetto-intrattenimento, ma anche l’alzare le aspettative: intrattenimento sì, ma ogni boccone è centrato e mi soddisfa.

Un piatto di Aqua Crua. Foto: Carlo Gibertini

La “Crema carbonizzata” di Aqua Crua. Foto: press
Un risotto al tagete davvero da manuale; un cervo “ammuffito” con crosta bianca fiorita tipo Camembert, dalle note burrose e di sottobosco; un’insalata di erbe spontanee in mini terrina coperta da pellicola edibile che sfotte i sacchetti anonimi del supermercato; un cuore di cinghiale con salsa di scopetón, pesce povero molto usato in Veneto. La selvaggina che non “sa” di selvaggina: «Se cacci l’animale prima dello sviluppo degli ormoni sessuali, quel sentore non c’è», spiega Giuliano.

Un piatto di Aqua Crua. Foto: Carlo Gibertini

Un piatto di Aqua Crua. Foto: Carlo Gibertini
«Perché aprire a Barbarano Vicentino, comune abbastanza sconosciuto e privo di ogni collegamento con la tua biografia personale?» gli avrei chiesto il giorno dopo. E allora capirò che a Giuliano piace molto dare una lettura degli eventi e della vita che superi l’empirico e il visibile. Per fortuna me lo dice dopo che ho già trascorso una notte lì, ma a quanto pare le motivazioni hanno a che fare con una persona che non c’è più, che è morta lì tra quelle mura, che in un qualche modo con le sue energie gli avrebbe fatto capire che quel vecchio edificio era il posto giusto dove aprire il ristorante.
E poi è uno che parla molto di energie, e le energie, dice, si trasferiscono a chi mangia i piatti che escono dalla sua cucina. «Non c’è niente di allevato: pensa che da me alcuni vegani mangiano piatti di carne per questo», dice. Non so se credergli, ma è vero che la carne del menu arriva tutta dalla caccia: per chi ci crede, un’energia diversa.

Foto: Carlo Gibertini
Il menu n°3 è il più hardcore ed è quello che mi aspetta la sera, pieno di ingredienti misteriosi e mai provati prima. Non ho firmato nessun NDA ma le foto sono vietate, così obbedisco come si obbedisce quando si entra al Berghain a Berlino, per motivi che in fondo sono abbastanza simili.
Nella degustazione alcuni piatti mi hanno fatto pensare che è stupido per esempio che nella cucina italiana non si usi la barbetta delle baby pannocchie marinata nel nero di seppia, perché ne avrei mangiato un chilo. O la Tonnata di erba della Madonna, in pratica un vitello tonnato a base di foglie spontanee del suo foraging e non di carne, con una salsa a base di mandorle, delizioso, carnosa. Altri mi hanno fatto morire di umami, come il Brodo di compost 501 (verdure fermentate sottoterra), bevuto in un tubo nero di ceramica da fruire con cuffie isolanti nelle orecchie. Ma per lo più è stato un percorso in stile The Menu, dove il maître Vittorio, giovane e bravo — e anche simpatico e alla mano, come ho avuto modo di verificare nei due giorni insieme in montagna — ti accompagnava mettendoti un po’ d’ansia perché se lo volevi (e lo volevo) ti diceva cosa c’era in ogni piatto solo dopo averlo mangiato. Un bel modo per non avere bias stomacali e provare tutto con coraggio.

Il pentolino usato per raccogliere la rugiada. Foto: Carlo Gibertini

Foto: Carlo Gibertini
I due giorni successivi sono provanti: foraging nei boschi del Trentino dov’è cresciuto Giuliano e che conosce come le sue tasche, polenta e bevute in baita da Gigi, il suo ex sous chef, due ore di sonno e raccolta della rugiada di San Giovanni.
Ma sono anche la lente giusta per vedere un bel rapporto orizzontale tra lui e la brigata, la voglia di trasmettere conoscenze ai più giovani e una capacità quasi ferale di riconoscere erbe e piante dai sapori sorprendenti. Mi sono fidato, ho assaggiato di tutto, sono ancora vivo: ho visto uno chef per cui il bosco è il supermercato. Uno che, secondo me, merita il successo che ha.








