Nel 1985 la Coca-Cola, impensierita dalla crescita della Pepsi, decise di sostituire il gusto classico e lanciare nel mercato un nuovo prodotto: la New Coke. Fu un disastro, i clienti si sentirono traditi e l’azienda fu costretta a tornare sui suoi passi. La Compagnia aveva ricevuto numerose lettere di lamentele in cui veniva certificato qualcosa che ormai doveva essere ben noto ma che invece fu trascurato: la Coca-Cola non era (e non è) solo una bevanda, è un’icona alla stregua del sacro e soprattutto è sinonimo di Stati Uniti d’America. L’azienda nata ad Atlanta lo aveva dimenticato nonostante avesse fatto di tutto per diventare un simbolo a stelle e strisce, tanto in patria quanto all’estero. La domanda che segue è: esiste qualcosa di più americano della Coca-Cola? No, e vi spiego com’è stato possibile arrivare a questo risultato.
La storia della sua origine (e dell’ingrediente che ne compone il nome, la cocaina, poi rimossa) è conosciuta. Ipnotiche campagne pubblicitarie e slogan come “It’s the real thing”, “Coke is it!” e “Taste the feeling” hanno fatto opera di proselitismo rendendo questa bevanda un culto. Parlare di religione non è un’iperbole: in Messico – Paese dove si consuma più Coca-Cola pro capite al mondo – nella città di San Juan Chamula si trova la chiesa di San Giovanni Battista, meglio conosciuta come “Chiesa della Coca-Cola” dove si pratica un mix tra cattolicesimo e credenze locali.
Qui la bibita viene utilizzata nelle funzioni religiose come decorazione e cerimonia di guarigione, questo perché ruttare è considerata una pratica di purificazione dell’anima. Se dovessimo indicare il giorno in cui la storia della Coca-Cola è cambiata per sempre (insieme a quella di molte altre persone), si potrebbe indicare il 7 dicembre 1941, cioè il giorno dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. Da quel momento la dolce bevanda frizzante si è lanciata decisa verso la conquista della popolazione mondiale. Robert Woodruff, plenipotenziario della Coca-Cola Company, impartì un ordine chiarissimo ai suoi sottoposti: “Vogliamo vedere ogni uomo in divisa con una bottiglia di Coca-Cola, ovunque sia e qualunque sia il costo”.
Insieme agli Stati Uniti, anche la Coke era entrata in guerra. L’azienda e l’esercito americano siglarono un accordo che consentiva ai rappresentati della Coca-Cola di ricevere gradi militari. Furono quindi assegnate loro delle divise con riportata la sigla “T.O.” (Technical Observer) sulla spalla e vennero soprannominati “Colonnelli Coca-Cola”. In un primo momento il loro compito fu quello di portare ovunque le bottiglie già pronte, salvo poi procedere con il trasporto dello sciroppo della bevanda e, nel luogo di destinazione, installare un impianto di imbottigliamento. Iniziava così uno sviluppo capillare nel territorio e tra le persone che avrebbe reso poi l’azienda leader mondiale del settore.
I soldati erano grati ai “Colonnelli Coca-Cola” perché portavano in quel tragico scenario di morte il ricordo di casa: “Sono le piccole cose quelle per cui il soldato combatte. È la fidanzata con cui stare al bar, davanti a una Coca-Cola, o il juke box in estate” scrisse un giovane (si inizia a capire il concetto dietro allo slogan “Taste the feeling”, vero?). È una testimonianza contenuta ne La vera storia della Coca-Cola di Mark Pendergrast. L’impresa privata e quella pubblica finirono per diventare una cosa sola, con i soldati che si prodigavano per il funzionamento degli impianti. Se non è ancora chiaro il livello di importanza della Compagnia durante quegli anni, eccovi due esempi. Il corrispondete di guerra Howard Fast, a bordo di un aereo militare C46, seguì una missione di recupero in Arabia Saudita. Da salvare non c’erano soldati, ma bottiglie vuote di Coca-Cola. Durante il decollo l’aeroplano ebbe difficoltà a causa del peso imbarcato – che comprendeva anche armamenti – ma i militari non presero in considerazione l’idea di lasciare le bottiglie vuote, preferendo invece abbandonare fucili o Jeep: “Vuoi mantenere i tuoi gradi? Con la Coca-Cola non si scherza”. Sempre in questo senso troviamo poi le parole di Robert Lee Scott, aviatore e scrittore, il quale nel suo libro Dio è il mio co-pilota scrisse che trovò la forza nell’abbattere i primi aerei nemici grazie a tre pensieri: «America, democrazia, Coca-Cola». In questa santa trinità capitalista non trovarono spazio né la religione né la famiglia.

Alcuni soldati americani bevono Coca-Cola durante la campagna d’Italia, nel 1943. Foto: Reddit
Il sogno americano in forma liquida iniziò a blandire anche il resto del mondo, perfino sovietici e nazisti. Del resto le bandiere erano simili: sfondo rosso ma senza falce e martello o croce uncinata, al loro posto il corsivo della Coca-Cola. Il generale Eisenhower fece assaggiare la bibita al suo omologo russo Zhukov, che apprezzò. Per evitare di essere visto a fraternizzare con un simbolo del capitalismo, l’eroe di guerra comunista ottenne una piccola ma fondamentale modifica alla ricetta originale. Senza il caramello divenne trasparente e grazie al camuffamento il suo tradimento analcolico non fu scoperto dai compagni (qualcosa di simile esiste tutt’ora, si chiama Coca-Cola Clear ed è disponibile in Giappone). Presi dalla sete, anche i nazisti crollarono. «L’America ha contribuito soltanto con chewing-gum e Coca-Cola alla civilizzazione del mondo», commentò il gerarca Otto Dietrich, responsabile dei rapporti con la stampa. Tuttavia, prima dell’ingresso degli USA nel conflitto, le vendite andavano a gonfie vele tra il Volk tedesco. Non era difficile imbattersi nella Coca-Cola durante i loro raduni o gli eventi sportivi (in particolare le Olimpiadi di Berlino del 1936) e la leggenda vuole che Hitler se ne concedesse una durante le visioni private di Via col vento. Nel 1971 la conquista del mondo da parte della Coca-Cola fu certificata dalle parole del rinomato spot (creato da Don Draper?): “I’d like to buy the world a Coke”.
Avanti veloce fino agli anni Ottanta per parlare invece della sorella minore, la Diet Coke. In Italia era conosciuta con l’aggettivo “light” ed è stata poi rimpiazzata dalla versione Zero, ma nella “terra dei liberi e patria dei coraggiosi” si è accredita come status symbol. Al tempo, il mercato delle bibite dietetiche era guidato dalla Tab (parte del gruppo Coca-Cola) e dalla Diet Pepsi, ma l’avvento di una Diet Coke, seppur con tanti anni di ritardo, era visto con grande interesse dal pubblico. Quelli che erano stati fedeli tracannatori di Coca-Cola negli anni Cinquanta erano diventati adulti che facevano attenzione a ciò che bevevano e dovevano essere riconquistati. In quel decennio il culto del fisico, del lavoro d’ufficio e del denaro erano centrali più che mai nella società americana. Era il momento perfetto per il lancio della Diet, capace di ritemprare corpo e mente ma con un occhio alla linea. In commercio dal 1982, venne presentata da uno spot pubblicitario pieno di star e costato 2,5 milioni di dollari, un record per l’epoca. Niente calorie e tanta memorabilità nella comunicazione, come dimostrarono anche i successivi spot del muratore a petto nudo che si concede una pausa (1995) o quelli con Pierce Brosnan (1986-1988, dove sembra anticipare il suo futuro ruolo di James Bond) fino poi ai più recenti con Taylor Swift (2013-2019) e Kate Moss la quale, oltre a essere testimonial, è anche stata nominata direttrice creativa del brand per la campagna Diet Coke “Love What You Love” nel 2022 e nel 2023 (in merito ricordiamo un suo vecchio aforisma che destò non poche polemiche: “Niente ha un sapore così buono come la sensazione di essere magre”).
Oggi la Diet Coke è nuovamente di tendenza tra le content creator donne ma, come segnala il Financial Times, è da considerarsi soprattutto sinonimo della moderna cultura d’ufficio americana perché bevuta dai colletti bianchi. Questo fenomeno si inserisce all’interno di un rinnovato fervore verso gli 80s che si avverte in più campi: dalla politica, con una nostalgia per l’epoca d’oro della presidenza Reagan, fino alla moda con l’ultima collezione di Saint Laurent che strizza l’occhio allo stile yuppie. Nell’immaginario, la figura dell’instancabile businessman che si divide tra palestra e ufficio, con indosso una tuta sportiva acetata o un abito gessato, con il culto del fisico e del successo (in altre parole Patrick Bateman o Gordon Gekko) si sposa alla perfezione con questa bibita energizzante, rinfrescante, dietetica ed esteticamente accattivante nella sua veste argentata. Nella realtà, tra i consumatori giornalieri più famosi troviamo uomini come Bill Gates, che ne beve 3-4 al giorno (tempo fa ha riservato per sé un intero ristorante stellato per poi ordinare solo una lattina), Karl Lagerfeld, che invece ne beveva 10 ogni giorno («Bevo Diet Coke dal momento in cui mi alzo fino a quando vado a letto»), ma anche Cugine, eccentrico influencer italo-americano, e ovviamente i vertici MAGA (Make America Great Again).
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Si arriva così a parlare di Donald Trump, personificazione del successo degli anni Ottanta, capo supremo del movimento MAGA, Presidente degli Stati Uniti, nonché grandissimo bevitore di Diet Coke. The Donald ha fatto installare nello Studio Ovale, sopra la storica scrivania Resolute, un enorme bottone rosso grazie al quale può richiedere un’adorata lattina della sua bevanda prediletta (che sembra venga servita su un piatto d’argento). Si dice che durante il suo primo mandato ne bevesse addirittura 12 al giorno. Poco dopo l’inaugurazione del secondo, James Quincey, CEO di Coca-Cola, gli ha reso omaggio consegnandogli una speciale bottiglia realizzata appositamente per l’evento. Sono lontani i tempi in cui Trump sbeffeggiava sull’allora Twitter la bibita (che comunque beveva!): «Non ho mai visto una persona magra bere Diet Coke», e poi, «La Coca-Cola non è contenta di me, ma va bene così, continuerò a bere quella robaccia». Il tempo, litri di Diet Coke e una pubblicità gratuita sembra abbiano sanato le ferite. A chiudere il cerchio troviamo pure Elon Musk, che in più occasioni ha immortalato su X la sua passione per la versione light.
The inventor of Diet Coke is a genius https://t.co/Ze3U9ln6YS
— Elon Musk (@elonmusk) January 15, 2025
I have never seen a thin person drinking Diet Coke.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) October 14, 2012
The Coca Cola company is not happy with me–that's okay, I'll still keep drinking that garbage.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) October 16, 2012
I have a drinking problem pic.twitter.com/7agFvrSPSH
— Elon Musk (@elonmusk) January 9, 2025
Con o senza zuccheri, con o senza caffeina, in lattina, vetro o plastica, con l’etichetta rossa o argentata e nonostante gusti improbabili poi ritirati dal commercio (ricordate la Life?) e la guerra commerciale con i dazi di Trump, la Coca-Cola gode ancora di ottima salute. A differenza della Pepsi, il report del primo trimestre del 2025 certifica la prosperità dell’azienda che, seppur con un consumo interno in calo, viene trainata dal resto della popolazione mondiale. Più di Playboy, più delle Marlboro, più di Elvis e Rambo messi insieme, più del cheeseburger e anche più del chewing-gum, il vero simbolo degli Stati Uniti e del sogno americano, in patria e all’estero, ora come sempre, resta la Coca-Cola.