Rolling Stone Italia

‘La quinta stagione’ è sempre la più lieta

Cinque donne, cinque cheffe stellate, cinque storie. Il documentario di Giuseppe Carrieri, presentato alle Giornate degli Autori veneziane, lascia a loro lo spazio e la parola. Starà a noi, come sempre, interpretare il messaggio per bene
'La quinta stagione'

Foto: press

Ohibò, le cheffe (cioè le chef donne) hanno ancora bisogno di giustificazione. Questo è quello che mi passa per la testa guardando La quinta stagione, il documentario di Giuseppe Carrieri (nato da un’idea di Paola Jovinelli), presentato il 2 settembre alle Giornate degli Autori di Venezia. Per spiegare la loro presenza dietro la linea di ristoranti spesso prestigiosi devono intervenire i prodotti cinematografici riservati alle rovine Maya o gli animali esotici: solo sullo schermo possiamo vedere ciò che nella vita comune potremmo difficilmente incontrare.

È una provocazione la mia, con il film in sé proprio non ce l’ho, e qui sopra ho appena esagerato. Sulla sensazione di primo pelo, però, no. Ma se la colpa non è del film, che anzi è realizzato secondo tutti i crismi del suo genere, che cosa è capitato?

Facciamo ordine. La quinta stagione presenta cinque grandi cheffe italiane (decorate con i macaron della Guida Michelin, da Nord a Sud Italia) attraverso i loro gesti, i loro piatti, le loro parole. La voce in capitolo è interamente delegata a loro. La durata è leggera e maneggevole: nemmeno un’ora. E proprio di questa leggerezza il documentario, in senso calviniano, si fa portatore. Nessun macigno al collo, né esaltazioni strabordanti. Un benvenuto senso della misura, nel racconto e nella sua presentazione. Nel senso che pure i problemi si possono sussurrare, e con il corpo proporvi una soluzione. È una strada, non l’unica. A me, piace.

Foto: press

E mi piace, chiaramente, vedere un dream team di cinque grandi professioniste, accostate sullo schermo per un battito d’ali gradevolmente silenzioso – solo le voci delle cheffe, e la narrante di Isabella Ragonese, in apertura e chiusura. Questo è il primo punto da segnarsi. I loro nomi: Caterina Cerando (Dattilo, Strongoli, 1 stella e 1 stella verde), Martina Caruso (Signum, isola di Salina, 1 stella e 1 stella verde), Valeria Piccinni (Caino, Montemerano, 2 stelle), Antonia Klugmann (L’Argine a Vencò, Vencò, 1 stella), Cristina Bowerman (Glass Hostaria, Roma, 1 stella). Stili diversi, ingredienti differenti. Ognuna associata a una stagione, e poi la quinta: il jolly, che forse è proprio lo spirito che fa dire “ah, guarda che mano”, oppure non so, lascio a voi la scoperta e dunque la visione.

Il secondo punto da segnarsi è che la questione sta proprio tutta lì. Ovvero nel luogo della mente in cui mi chiedo: sarebbe esistito un film uguale con protagonisti un gruppo di chef? Be’ la risposta è sì, perché già sono disponibili sulle varie piattaforme. Individuali, di solito, e con produzioni più grandi alle spalle, come a dire: si meritano di più. Nella prima stagione della conosciuta Chef’s Table, targata Netflix, su sei chef presentati solo una è donna (Niki Nakayama). Nella seconda, le “quote rosa” salgono a due con (la leggenda) Dominique Crenn e (la leggende in divenire) Ana Roš. Nella terza: Nancy Silverton e la suora buddhista Jeong Kwan. Persino nella quarta, dedicata alla pasticceria, la donna è una sola, Christina Tosi (fondatrice del brand Milk Bar), contro ogni aspettativa di senso comune. La parità si tocca nella quinta, con Cristina Martínez e Bo Songvisava (che sia stato per la diminuzione degli episodi a quattro?). Ah, no: ecco che la sesta presenta solo Mashama Bailey. E nell’ultima stagione, le cuoche sono due solo perché una di loro (Norma Listman) è presentata in coppia con il marito (l’altra è Nok Suntaranon).

La cheffe Caterina Ceraudo. Foto: press

Bisogna unire questo A e questo B, questa gioia nel vederle rappresentate e il fastidio del vederle raggruppate in quanto donne, quasi come ad azzerare tutte le preziose differenze di cui sopra. Per ricomporre questa frattura, proviamo a osservare da un’altra parte. Dove indica Antonia Klugmann, la quale, durante il suo intervento ne La quinta stagione, ha un’osservazione assennata: com’è che pretendiamo che esistano cheffe, quando esserlo significa essere il capo, letteralmente, di una brigata (come ricorderà anche Cristina Bowerman), e nei ranghi inferiori non si notano molte commis o capopartita donne?

La domanda è legittima, puntuale, ma il fatto è che è da poco, che ce la poniamo. Cioè da quando, credo, il mestiere del cuoco e dello chef (dato che due cose diverse sono) è stato ripulito, mediaticamente in primis. Non dico niente di nuovo: è desiderabile. Se i talent show nascono per rendere star, e se essere star è desiderabile, MasterChef ci fa capire che essere cuochi è desiderabile, chef persino di più (dato che magari, se sei bravo-bravo, un giorno ti mettono in qualche guida). Ora, la soddisfazione professionale è una cosa; la legittimità del desiderio di perseguire una carriera a ogni costo, contro ogni stigma, un’altra; ma perché non ci incazzi*mo se le camioniste (non ho dati a supporto di questa tesi) sono numericamente meno dei camionisti?

La cheffe Martina Caruso. Foto: press

Ecco, il tratto d’unione forse è questo: La quinta stagione parte da un assunto, ovvero che sia desiderabile essere cheffe e che le donne dovrebbero ricoprire di più questo ruolo nella loro vita pubblica e lavorativa. Che sia desiderabile per la società, ancor prima che per le singole professioniste. Implicand0 che ogni donna, proprio come nella vita in stato brado dei documentari di National Geographic, debba portare avanti la specie (quella lavorativa prima ancora che biologica). Volendone, tra le righe, di più. Celebrandone la superiore connessione con la natura (vedasi la ricerca dell’ingrediente che viene presentata) e presentandole calme e raccolte, queste donne, manager inflessibili ma “più umane” di un Carmen Berzatto, che in The Bear esplode senza controllare la propria rabbia.

Ecco, a me piacerebbe dire che tutto questo rispecchia la realtà. Eppure, parlandone con le cheffe in primis, spesso sì, emergono evidentemente differenze tra il comportamento culinario di un genere socializzato e dell’altro (alla fine, sempre con The Bear, la stella di Sydney comincia a salire proprio quando il fuoco sregolato di Carmy comincia a placarsi), ma ancora più forte si impunta il rifiuto dell’aggettivo “femminile”, spesso accoppiato a “elegante”. Il corollario potrebbe essere: se riteniamo che La quinta stagione ci stia presentando delle professioniste eleganti, forse non abbiamo colto il punto.

La cheffe Christina Bowerman. Foto: press

Una donna come un uomo come una persona di genere non conforming può essere sensibile, autoritaria, simpatica, antipatica, elegante, sciatta, brava, geniale, e via dicendo. Perciò se guardiamo alle storie di queste cinque grandi professioniste (e ottime cuoche, e ottime cheffe) nell’ottica della celebrazione, o come a un compitino pur fondamentale di rappresentazione, forse stiamo contribuendo alla costruzione di una narrativa “miracolata” sulla donna in cucina (quella del ristorante, mica quella di casa, figurarsi). Se invece le interpretiamo come ispirazione da persone prima che da donne, allora forse viene anche una fame maggiore. Sia quella che porta a sedersi alle tavole dei loro ristoranti, sia quella dell’emulazione, del desiderio che è, come dicevano i greci antichi, sempre imparentato con penia, la mancanza: quello che è affamato, che tende, che vuole qualcosa che in questo momento non ha.

La cheffe Antonia Klugmann. Foto: press

Vedete? Era più semplice di quanto pensassi. E, alla fine di tutto, anche un documentario piccino si è rivelato una grande ricchezza. Allora, per riformulare il nostro attacco e ribaltarlo: le donne in cucina non hanno bisogno di giustificarsi con nessuno. Ed è quanto si costruisce loro intorno che a volte porta fuori strada.

Quello che so è che ora voglio fortissimamente voglio andare a trovare queste cinque ragazze quanto prima. Spero, con tutto il cuore, che avverrà proprio così.

Iscriviti
Exit mobile version