La pasta Alfredo è diventata un cortocircuito culturale | Rolling Stone Italia
ci risiamo

La pasta Alfredo è diventata un cortocircuito culturale

A Milano c'è qualcuno che si è messo a farla "all'americana". Il risultato è un dialogo da vertigine tra le due sponde dell'Atlantico

Chuck's Bistrot Milano

La Alfredo di Chuck's Bistrot, a Milano

Foto: Giada Paoloni

Cy Twombly era nato in Virginia, USA. Sarebbe diventato uno dei maggiori artisti del Novecento (tra i grandi nomi che vengono fatti canonicamente “discendere” da lui: Anselm Kiefer, Julian Schnabel, Jean-Michel Basquiat), e avrebbe deciso di trascorrere i suoi ultimi giorni a Roma. Ma questo non è un articolo di arte. Twombly me lo menziona Chuck George, un altro figlio della Virginia. Se lo conoscete, è perché a Milano avete ordinato uno dei suoi smash burger da Chuck’s, sito nelle Sidewalk Kitchens di Bonvesin de la Riva. Ma questo non è nemmeno un articolo sugli smash burger (quello arriverà presto). Perché ora Chuck mi sta raccontando perché mai “un ragazzo del Sud”, come si definirà durante la nostra conversazione, dovrebbe voler aprire un bistrot in centro-centrissimo a Milano, servendo (soprattutto) piatti di pasta e vini francesi. E rendendo capisaldi del menu due ricette italianissime: la pasta Alfredo e le penne alla vodka.

Chuck's Bistrot Milano

Lo (smash) burger di Chuck’s Bistrot, a Milano. Foto: Giada Paoloni

Premessa: la storia della pasta all’Alfredo, in origine fettuccine nate in via della Scrofa a Roma, ve l’abbiamo già raccontata qui. Per un ripasso veloce, ci limitiamo a ri-scrivere che sì, è proprio tutto vero, una pasta condita con triplo burro, che sembra tanto una porcheria da amerricano che vuo’ fa’ gl’italiano, è una creazione de noantri. E che per una serie di ragioni – compresa la grassezza maggiore della panna statunitense, e la facilità nel sostituirla al burro – è naturale che si sia radicata poi Oltreoceano e non nelle papille nostrane. Tanto da riproporsi culturalmente in chiavi disparate: famosa è la Chicken Alfredo, pasta (di solito penne), aglio tantissimo, e petto di pollo in stile Ceasar Salad (pe’ farvi capi’), tutto mantecato e cremoso, come le ricette sottolineano.

 

 
 
 
 
 
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Bene: questo detto, da Chuck’s Bistrot l’Alfredo ha fatto una nuova giravolta. Presentandosi in carta in veste di Caserecce, lodigiano (una sorta di Parmigiano giovane), erba cipollina, zeste di limone, con aggiunta di petto di pollo a scelta. «Culinariamente parlando, vengo da New York. In Italia mi conoscono come “quello dell’hamburger”, e volevo espandere questa definizione», per così dire. «Mi sono messo in testa di portare un po’ di cucina americana in Italia, qualcosa che non fosse panino o griglia. Dal mio punto di vista, la proposta del Bistrot è Italian-American, anche se capisco che è strano, dato che si tratta in realtà di ricette italiane, molto spesso non riconosciute come tali persino dagli italiani. Ecco: volevo reintrodurre questa parte di storia gastronomica in Italia, e mi sembrava il momento giusto per farlo».

Chuck's Bistrot Milano

Foto: Giada Paoloni

Chuck’s Bistrot (ufficialmente un New American Bistro) ha aperto a novembre 2025 in via della Vigna, che per i non avvezzi significa cuore di Milano, di fianco ci sono le Cinque Vie, pochi passi dal Duomo. Il pavimento è a scacchi bianchi e azzurri, la cucina microscopica ma fungente, un banco con alcuni posti, vetratone sulla strada (per fortuna che il passaggio è rosicato, da queste parti di solito si giunge, non “si passa”). Team corposo, servizio veloce, menu cortissimo. Quattro antipasti: insalata di verdure fresche; Grilled Cheese (tomino, burro alla mela, cetriolini, pain de mie); French Fries; Buffalo Wings (alette di pollo speziate). Quattro main: Kale Caesar Salad, Alfredo, Vodka Sauce (rivista così: Calamarata, salsiccia al finocchietto, lodigiano); Spaghetti and meatballs (Spaghetti alla chitarra, salsa al pomodoro, polpette di manzo piccoline e fritte, un po’ Napulè). È possibile ordinare anche il suo famoso Burger. Per dessert, solo una Cheesecake in stile New York.

«Mio padre era americano fino al collo, e spesso cucinava piatti come la Chicken Alfredo. Molte delle ricette che facciamo al Bistrot vengono proprio da lui, naturalmente rivisitate, dato che il lavoro del cuoco è anche quello: rifare, metterci del proprio. Se ti dovessi spiegare tutto in due parole direi: americanissimi, ma con un approccio locale». Che si traduce nel lavoro con produttori di prossimità, come l’orto non-urbano-ma-quasi di Erba Brusca, sul Naviglio. Un gusto d’altrove, con meno zuccheri, meno grassi, e una bella ripulita. Due mesetti o poco più per sviluppare le ricette, e il risultato è – parlo delle paste – un piatto in porzione abbondantissima, prezzo spudoratamente onesto per la zona e il mercato milanese (dai 15 ai 18 euro); ma soprattutto, oh, buono. Buono in modo semplice, rapido e dritto al punto. Anzi: la Alfredo è più parente della cacio & pepe che del piattone nato in via della Scrofa. Il palato non era pronto: cazzarola, forse anche un americano sa cucinare, e farci accettare che fa le cose, semplicemente, a modo suo?

Chuck's Bistrot Milano

La Alfredo di Chuck’s Bistrot a Milano. Foto: Elisa Teneggi

Bisogna però effettuare la prova del nove, l’incidente probatorio. Mando una foto a mio fratello, che come me evidentemente è italiano ma da anni abita negli Stati Uniti e che, so per certo, ha bazzicato parecchi ristoranti “italiani” (pure senza le virgolette) in quel d’America. Would they be a hit in the States? Chuck mi dice: «Penso proprio di sì. Se aprissi un ristorante così a New York, domani, probabilmente funzionerebbe persino di più che in Italia. Perché ci sono dei riferimenti che gli italiani devono scoprire, mentre per un americano sono naturali. Per noi è già palatable, qualcosa con cui ci identifichiamo. È comfort food, è nostalgia». Mio fratello (che, per carità, non lavora nella ristorazione): si vede che è un piatto che un americano ha pensato per un europeo. Non è effortlessly American (per quanto la descrizione sia da cortocircuito).

Oltre insomma a essere un ristorante consigliabile, Chuck’s Bistrot ha incistato un bug da quarto di millennium in un piatto di pasta. Creando un americanissimo piatto italiano e un italianissimo piatto americano. Senza necessariamente volerlo fare con calcolo. È una vicenda tangente, e allo stesso tempo assolutamente parallela, alla genesi delle fettuccine Alfredo, romane fino all’osso e identificate come americane dai loro stessi connazionali. Ohibò: è impossibile uscirne. «Tanti per ora hanno ordinato proprio la Alfredo», aggiungo Chuck. Ecco, siamo spacciati.

Chuck's Bistrot a Milano

Spaghetti and meatballs, Chuck’s Bistrot a Milano. Foto: Elisa Teneggi

Ma solo se ci incaponiamo sul proverbiale bandolo di questa matassa. È la stessa storia di Chuck a consigliarci di lasciar perdere: «Sono ossessionato dalla cultura. Ho studiato in una boarding school, sono sempre stato abituato a girovagare per il mondo, ad adattarmi alle regole del posto», intende soprattutto culturali in primis. E dunque pure gastronomiche. Sarà per questo che ha poi aperto a Roma, Londra, Parigi, Madrid. Sarà anche per questo che ce l’ha a morte con chi fa impresa nella ristorazione con mancanza, appunto, di cultura. Cavalcando questo o quel trend alla bisogna, senza spontaneità od onestà. «Vedi, potrebbe esserci qualcuno che dice: ma anche tu, Chuck, hai solo voluto fare l’ennesimo wine bar, perché servo qualche birra e poi ho una carta vini ristretta ma curata, naturale. Col cavolo! Io il vino lo produco pure, e lavoro con un micro-importatore che in Francia tratta direttamente con i contadini. Nella maggior parte dei wine bar che ho visto a Milano, le etichette si ripetono. Perché si appoggiano agli stessi fornitori, e tutto si copia. It’s exhausting. Vanno due giorni a Parigi, vedono Bambino, e pensano di poterlo replicare in Italia schioccando le dita. Il risultato è mortificante». Il passo si chiude con una domanda accorata: ma da quand’è che è diventato di moda avere un ristorante? Sottinteso: che è proprio un lavoro di me**a? «Tutto vogliono essere il prossimo Action Bronson». E dunque qualcuno che unisca musica, conoscenza della sfera culinaria, capacità ai fornelli e poi…

Chuck's Bistrot Milano

La Cheesecake di Chuck’s Bistrot a Milano. Foto: Giada Paoloni

E poi la verità è che, continua Chuck, alla fine tutta questa differenza di tradizione con l’Italia non ce la vede, ma mica nella questioni italo-americane, no, lui intende proprio con il Sud del Paese, Virginia e oltre, le sue terre. «La nostra cucina si è plasmata con la tratta degli schiavi, si parla di migrazioni forzate che hanno lasciato il loro segno in ogni cosa. Un piatto è davvero Storia». Forse per questo odia e ama l’Italia, come si ama e si odia la propria periferia di mondo. Come non si sopporta la nostalgia della grande città appena se ne esce. Non c’è via di fuga. Meglio sublimare in una Alfredo che parli di tutto quello che ci si porta dentro. «La bellezza di un ristorante è che ci puoi costruire una comunità attorno».

Recentemente, Chuck ha bissato il nuovo capitolo milanese con l’apertura anche di Goings, sempre a Sidewalk Kitchens. Un brunch spot all’americanissima: hashbrown, pancake, uova e bacon, pollo fritto e waffle. Per far contento il suo bambino interiore e soddisfare il craving per il caffè che condivide con la compagna. Bisserà il successo dell’hamburger, rivedremo tutti aprire posticini da brunch?

Ah, Milano, ti fermassi un secondo. O almeno ci spiegassi questi incroci culturali…