Quando entri all’Accademia del Teatro alla Scala, nonostante l’eleganza, la cura, le scale con le ringhiere in ferro battuto e una certa allure da Milano bene, un po’ ci pensi alla scuola d’arte di New York, quella di Saranno famosi. O forse ci pensiamo soltanto noi del Novecento, mentre molti dei 186 allievi dai 10 ai 18 anni che la frequentano hanno altre preoccupazioni per la testa: l’orale della maturità per i più grandi, aggiunto all’ansia per il diploma dell’ultimo anno, che se lo passi entri nel Corpo di ballo di uno dei teatri più famosi del mondo, e forse anche un po’ di brivido per la Prima di sabato 28 giugno, quando La fille mal gardée aprirà la nuova edizione del Festival Internazionale di Danza di Genova, per la promettente direzione artistica di Jacopo Bellussi.
Quando arrivo in Accademia, privilegiata reporter che può assistere alle blindate prove milanesi, almeno una trentina di paia di scarpe sono sparpagliate nel corridoio, che si illumina sulla porta aperta della sala di danza. La silhouette di una ballerina in controluce accenna la variazione: è il primo atto, quando il paese è in festa e balla intorno al palo della cuccagna. Mi siedo accanto ai Maestri Leonid Nikonov, temperamento russo stile Bolshoi, e a Walter Madau, già ballerino del Corpo di ballo. «Mancano alcuni danzatori», mi spiega Paola Vismara, la Maestra di danza che accompagna gli allievi per 8 anni, e sembra conoscerli meglio di tutti: un po’ madrina, un po’ coach, senza perdere la giusta distanza.
Paola Vismara, già prima ballerina, si è diplomata alla Scuola di ballo del Teatro alla Scala, ha iniziato la sua carriera professionale nel Corpo di ballo della Scala, per poi danzare in compagnie prestigiose come quelle dell’Aterballetto, dell’Opera di Roma, della Deutsche Opera di Berlino e del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Ha interpretato con intensità i maggiori ruoli classici e contemporanei. «Sono stata la Bella addormentata, Giselle, Giulietta, Carmen, Kitri in Don Chisciotte, Swanilda in Coppelia, però no, mai la Fille mal gardée!». Sorride dietro agli occhiali sfumati e rotondi incoraggiando Lise, la prima ballerina Laura Farina, a tenere alto il fouetté en tournant, e ad aggiungere almeno altri due giri ai sei eseguiti con grazia e sprezzo della stanchezza.
Laura la mattina ha sostenuto l’orale della “matura”, le hanno chiesto il ruolo del maschile nel Lago dei cigni di Nureyev, e poi una domanda su Virginia Woolf che nessuno di noi adulti presenti ha realmente capito. Davanti a me balla esile come una fata, stanca come una maturanda, determinata come un’étoile.
La “ragazza mal custodita”, creata dal maître de ballet settecentesco Jean Dauberval, è il balletto più antico e tra i più divertenti del repertorio classico, Ne esistono due versioni storiche, una di radici russe firmata da Marius Petipa e l’altra modificata nel secolo scorso da Sir Frederick Ashton. Sarà a Genova il 28 giugno “nella versione del Maiîre Frédéric Olivieri”, direttore del Corpo di ballo della Scala, che si aggiunge alle prove e commenta con me il ruolo di Lise, la prima disobbediente sulle punte. «È vero», ammette, «spesso i ruoli delle prime ballerine sono da vittime: di tradimento, di pazzia, di amore non corrisposto, di ingiustizie sociali. Lise, per fortuna, no».

L’Ouverture al Teatro Strehler nel 2009. Foto: Davide Aiello
La Maestra Vismara consiglia a Lise di stringere le scarpette, o di buttarle. «Sono già sfasciate dopo due giorni», ironizza il Maestro russo, prima di farle ripetere ancora, e ancora, e ancora una volta quel grand jeté coupé che non si capisce neppure come sia stato ideato, tanto è difficile ma spettacolare. La disobbediente obbedisce, e sarà sorridente, innamorata e un po’ impertinente come lo chignon rossofiamma che le incornicia il viso quando, al debutto genovese sul palco del Teatro Carlo Felice, preferirà il suo romantico Colas (Francesco Della Valle) al ricco Antoine (Giovanni Bellucci).
Pare che La fille mal gardée sia nato su ispirazione di una stampa del settecento (dipinto di Pierre Antoine Baoudouin dal titolo La reprimande. Une jeune fille querellée par sa mère) in cui un giovanotto di paese se ne sta arrampicato su una scala di un granaio per poter baciare la sua innamorata, beccata e rimproverata dall’implacabile madre, M.me Simone. Ruolo di carattere e di necessaria personalità, a interpretare la guastafeste materna sarà l’allieva Gisèle Odile Ghidoli e non un uomo en travesti, come vorrebbe la tradizione. Sarà lei, «con la struttura fisica adatta», a danzare con gli zoccoli sulla musica di Hertel, lei a mimare il disappunto, a sgridare, a traccheggiare per un matrimonio conveniente, arrendendosi poi, come fanno spesso le madri, ai desideri della figlia.
Divertissement, dunque, per un pubblico trasversale, che sappia apprezzare anche le scenografie di Alberto Sala, già in viaggio dalla Scala al Teatro Carlo Felice di Genova, e una sessantina di giovani ballerini, dal 6° all’8°, fieri ed eleganti, in costumi ideati e riadattati dal sapiente filo scaligero,
C’è attesa perfino tra gli schivi genovesi, che ricordano i fasti del mitico direttore artistico Mario Porcile, a cui la nuova direzione ha dedicato il Galà finale. La Maestra Paola Vismara conosce di fama il suo successore, Jacopo Bellussi, approva e applaude il programma, riconoscendo capolavori classici e contemporanei di grandi coreografi danzati da compagnie di punta, dal Ballet de l’Opéra de Paris al Royal Ballet di Londra, dall’ambizioso Ballet Kiel che omaggia il nostro Ezio Bosso al Romeo e Giulietta del Das Stuttgarter Ballett. E molti, tutti gli altri.
Sarà un mese intenso, tra spine di rose, luna e treni che passano dietro al palco del Roseto di Nervi, mentre va in scena un pas de deux. Ci saranno anche «i prevedibili contrattempi dell’esibizione estiva», puntualizza Paola Vismara, «il palco che si bagna di umidità, l’insetto che ti si infila in un occhio durante la presa, la punta che scivola per una pendenza inaspettata…». E quando si cade? Chiedo, un po’ apprensiva. «Ci si rialza con un bel sorriso», reagisce pronta Vismara, che da ballerina ha vissuto più volte l’esperienza, e ogni volta si è rimessa sulle punte più forte e applaudita che mai.
Da 15 anni la Maestra di Danza insegna la tecnica e la resilienza necessaria ai suoi giovani allievi. «A volte mi sento svuotata», ammette, «però mi piace questa sensazione. Quando arrivo a casa la sera mi dico che ha senso, che fa parte del nostro lavoro». La disciplina, le prove massacranti, i piedi che sanguinano, e anche le ferite dell’anima: quella perché ha il ruolo più bello? Quell’altro l’hanno preso all’audizione? Uno psicologo, su richiesta, c’è, mi spiegano i docenti, ma è il gruppo, la sensazione di “compagnia” a dare forza agli artisti. Perché se è vero che l’Accademia sforna disciplina, è anche e soprattutto vero che per i ragazzi dai 10 ai 18 anni che la vivono è un guscio, la loro casa, e anche una specie di famiglia, e ti si stringe il cuore.
«Ho l’impressione che noi a quell’età fossimo, più forti», riflette Paola Vismara, «in sostanza perché avevano molte meno informazioni. Se eri ammesso all’Accademia a 10 anni, il tuo mondo era tutto lì, speravi di non essere cacciato e restarci per altri otto». Senza genitori, nonni, fratelli, e sempre con lo chignon anche sul tram, ma anche senza dover sentire la pressione dei provini, l’invidia per i successi facili sui social, e la tentazione di essere nel posto sbagliato, perché questa formazione non è, e non assomiglia, a un talent show. «L’Accademia era il nostro specchio», continua Vismara, «allora credevamo in quella cosa: “Impegnati che poi ce la farai”. Per loro invece c’è stato il Covid, e quando si diplomano fanno i conti con il mondo reale, con le compagnie che hanno meno disponibilità di allora, con le audizioni che possono andare male, con ruoli secondari che non restituiscono tutta quella fatica…. Anche se s’impegnano, il dubbio di non farcela resta e a un certo punto va affrontato».

Un ritratto di Paola Vismara. Foto press
Quanto può essere crudele la danza, le chiedo infine, per concludere con una breve serie di domande un po’ più sfacciate, più rock. Piedi a papera per tutta la vita, hai mai desiderato camminare dritta? «Quando metto i tacchi ci penso, e vorrei riuscire a incrociare le ginocchia camminando, ma no, poi mi farebbero male le anche», ride Paola Vismara.
Avere una terza di reggiseno è mai stato un tuo desiderio? «No, quello no!», risponde, e sembra che le abbia offerto della droga. Ma aggiunge: «Le proporzioni, solo quelle sono davvero importanti».
Sognare di diventare una ballerina e scoprire di non avere il corpo adatto? «Il mio sogno fin da bambina era essere Giselle, però mia mamma non mi voleva portare a danza. Credo (chiede scusa per l’emozione) che voler diventare una ballerina non arrivi dalla mamma e dai tutù, e neppure soltanto dal fisico giusto. Voler danzare come professione nasce da un sentimento interiore, un’ispirazione che senti da qualche parte là dentro. Può essere accesa da un’immagine, da una musica, o anche dalla Carrà in Tv. Per me fu Giselle, e lo è ancora».
Provare per mesi e poi fallire allo spettacolo, quanto può essere spietato il palco? «Succede, ma andrà meglio la replica», risolve la Maestra.
La danza è trattata come “la figlia della serva” mentre dovrebbe essere nell’Olimpo della Arti? «Non è un’arte abbastanza riconosciuta, ma per me un assolo è una poesia, un passo a due un quadro che si anima».
Dover rinunciare quanto può far male? Per rispondere Paola si prende il suo tempo e poi conclude citando il grande coreografo John Neumaier, Maestro anche del direttore del Festival Jacopo Bellussi. «La danza non è democratica, non è per tutti. Però è onesta. Restituisce quello che hai dato. Non è crudele. È danza».