La carestia a Gaza, spiegata | Rolling Stone Italia
living hell

La carestia a Gaza, spiegata

Rolling Stone US ha intervistato Alex de Waal, antropologo, direttore esecutivo della World Peace Foundation e autore di 'Mass Starvation: The History and Future of Famine', su quello che sta accadendo nella Striscia. Ecco le sue risposte

(da USA) Gaza carestia

Una fila di palestinesi, bambini inclusi, aspettano cibo il 25 agosto a Deir al-Balah, Gaza

Foto: Moiz Salhi/Anadolu/Getty Images

Più di mezzo milione di persone nella parte settentrionale della Striscia di Gaza stanno ufficialmente vivendo una situazione di carestia, ha annunciato venerdì un’iniziativa per la sicurezza alimentare sostenuta dalle Nazioni Unite. Questa classificazione arriva a quasi due anni dall’inizio della guerra di Israele con Hamas, un’organizzazione terroristica palestinese che governa Gaza dal 2007 e che il 7 ottobre 2023 ha lanciato un attacco contro Israele, uccidendo oltre 1.200 israeliani, in gran parte civili. Durante il conflitto in corso, Israele ha bloccato la maggior parte dei rifornimenti di cibo e degli aiuti destinati al territorio palestinese, portando alla carestia a Gaza.

Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), un sistema che misura l’insicurezza alimentare e la malnutrizione, il 32% della popolazione di Gaza City e delle aree circostanti «sta affrontando condizioni catastrofiche caratterizzate da fame, miseria e morte». Il resto degli 1,47 milioni di abitanti della parte meridionale della Striscia di Gaza soffre di fame estrema e malnutrizione. Le condizioni in quelle zone sono destinate a peggiorare, e si prevede che la regione entrerà ufficialmente in carestia entro la fine di settembre.

Per essere considerata una carestia secondo gli standard dell’IPC, il 20% delle famiglie in un’area deve affrontare una mancanza estrema di cibo, mentre il 30% dei bambini deve soffrire di malnutrizione acuta, e almeno due adulti o quattro bambini ogni 10.000 persone devono morire ogni giorno a causa di fame, malnutrizione o malattie. Secondo il rapporto dell’IPC, si stima che 132.000 bambini tra i sei mesi e i cinque anni soffriranno di malnutrizione acuta fino a giugno 2026, tra cui 41.000 in forma grave.

Secondo Alex de Waal, antropologo alla Tufts University, direttore esecutivo della World Peace Foundation e autore di Mass Starvation: The History and Future of Famine (2017), la carestia nella regione di Gaza City non si è sviluppata come in altre parti del mondo — principalmente per la rapidità con cui è iniziata e per la velocità con cui potrebbe finire con la cooperazione di Israele. «Prima del 7 ottobre 2023, l’intera Striscia di Gaza aveva un profilo alimentare molto insolito, perché i tassi di malnutrizione infantile erano estremamente bassi — ai livelli dei Paesi sviluppati — e la qualità della salute dei bambini e della salute in generale era in realtà molto alta», spiega de Waal a Rolling Stone US.

De Waal spiega che a Gaza non c’era molta produzione alimentare locale, quindi la popolazione dipendeva in larga parte dal commercio di generi alimentari e dagli aiuti umanitari controllati da Israele. «Questo significava che, sebbene la situazione fosse in generale buona, era anche precaria, perché non appena Israele impose un blocco [degli aiuti a Gaza], le cose peggiorarono molto rapidamente», spiega.

Rolling Stone US ha recentemente parlato con de Waal per saperne di più sulla carestia in corso a Gaza, su come si sia arrivati a questo punto e su come potrebbe finire.

Cosa è successo dopo il blocco israeliano?
Ci sono stati gli attacchi, le atrocità e la presa di ostaggi da parte di Hamas il 7 ottobre [2023]. In circa sei settimane, dal 7 ottobre alla fine di novembre, c’è stato un assedio totale [di Gaza] e un blocco, insieme a un massiccio attacco da parte di Israele, che ha incluso bombardamenti alle infrastrutture sanitarie di base, all’acqua, ai sistemi igienici, alle abitazioni — a tutto ciò che rende la vita normale e vivibile.

E poiché la popolazione dipendeva così tanto dal cibo importato, si è verificato un rapidissimo aumento dell’insicurezza alimentare e, in parte, della malnutrizione, fin dall’inizio. Molte persone improvvisamente non avevano più lavoro, non avevano razioni, le loro case erano state distrutte. Si sono ritrovate all’improvviso in una condizione di estrema disperazione per il cibo. E questo crollo così brusco è qualcosa di molto insolito. In altre situazioni di carestia o crisi alimentare, di solito il deterioramento richiede molto più tempo.

Poi, alla fine di novembre [2023], c’è stato un cessate il fuoco, e i primi aiuti umanitari sono stati autorizzati in concomitanza con lo scambio di ostaggi. È stato allora che l’IPC ha fatto la sua prima valutazione. Nei 12 mesi successivi abbiamo visto un andamento altalenante: la situazione a Gaza oscillava continuamente, spingendosi fino alla soglia della carestia, ma senza oltrepassarla. Peggiorava quando Israele limitava i rifornimenti o quando le offensive militari costringevano molte persone a sfollare o distruggevano numerose infrastrutture, e diventava meno grave — esito che esiterei a definire “migliore”, perché restava comunque terribile, anche nei momenti meno drammatici — quando venivano consentiti maggiori ingressi di aiuti. Questo è avvenuto più o meno da marzo a maggio dello scorso anno, grazie alle forti pressioni esercitate dall’amministrazione Biden su Israele per permettere un miglioramento significativo.

In che modo il conflitto crea le condizioni per la carestia?
Prima di tutto, c’è il blocco. Se l’intento del blocco fosse quello di affamare Hamas, ciò costituirebbe un crimine di guerra [secondo le Convenzioni di Ginevra]. E a mio avviso, quella soglia è stata superata: siamo davanti a un crimine di guerra. La logica di fondo è che, se hai una popolazione civile e al suo interno un’unità armata, e vuoi affamare gli uomini armati, devi prima affamare tutti i civili. Gli ultimi a soffrire la fame sono sempre gli uomini con le armi. Questo era il motivo per cui le Convenzioni di Ginevra hanno proibito la fame come strumento di guerra — cosa avvenuta soltanto nel 1977. Non fu vietata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, perché britannici e americani l’avevano usata durante il conflitto e non volevano essere chiamati in causa.

L’altro elemento causale è la distruzione di beni indispensabili alla sopravvivenza. Questa è, di fatto, la definizione stessa del crimine di guerra. Quindi non si tratta solo di cibo, ma anche di acqua, servizi igienico-sanitari, assistenza medica, rifugi, carburante, ecc.

La logica sottostante è che, in ogni carestia, la fame non significa soltanto persone senza cibo. La fame è un insieme di fattori che si manifestano insieme, per cui la maggior parte dei bambini che muoiono in una famiglia — e anche degli adulti — non muore letteralmente di fame.

Per esempio, se i nostri figli prendono un virus intestinale, magari restano a casa da scuola per un paio di giorni. Ma se un bambino è malnutrito, potrebbe non riprendersi dall’infezione. Poi, se si ammala di nuovo e si disidrata, può morire per un attacco acuto di diarrea. Oppure, se prendi una comunità e la strappi dal suo ambiente abituale — stipandola in un luogo sovraffollato e insalubre, con fogne a cielo aperto — basta che una persona contragga una malattia infettiva perché si diffonda rapidamente a tutti.

Quando si misurano i decessi in una carestia, non si contano solo coloro che muoiono di fame: [a Gaza] finora sono stati circa 300. Ma quella sarà una proporzione molto piccola rispetto al numero reale di persone che moriranno a causa di questa privazione e di questa fame.

Hamas è in qualche misura responsabile della carestia?
Hamas ha diverse responsabilità e si è macchiato di numerosi crimini — comprese le atrocità del 7 ottobre — ma io sostengo che non sia specificamente responsabile di questa carestia.

Detto ciò, la leadership di Hamas si è dimostrata incredibilmente sconsiderata e indifferente alla vita dei palestinesi. Era chiaro che la risposta israeliana sarebbe stata massiccia. Per un cessate il fuoco servono entrambe le parti: non può essere unilaterale. E dunque, di fronte a questa carestia, Hamas dovrebbe davvero implorare un cessate il fuoco per salvare il suo popolo, e io non vedo che lo stia facendo.

Com’è funzionata la distribuzione di cibo e aiuti per chi si trova a Gaza City?
C’è un elemento interessante in tutto questo, ed è la Gaza Humanitarian Foundation. La cosa più benevola che si possa dire della GHF è che è stata creata da persone con nessuna esperienza umanitaria.

Quando si vedono le folle di persone che vanno ai siti della GHF, sembra la legge della giungla. È una corsa disperata, e i più deboli, i più poveri, non riescono ad arrivarci. Bisogna camminare per un certo tratto e, una volta sul posto, si viene spinti via dalla calca. Non hanno alcun sistema per monitorare chi effettivamente riceve il cibo. Ho guardato alcuni video: si vedono giovani uomini che entrano, aprono le scatole, hanno dei sacchi in spalla, prendono le derrate alimentari che vogliono, le infilano nei sacchi e se ne vanno. Poi arrivano altri a raccogliere gli avanzi — molti dei quali sparsi per terra.

Ora, chi sono quei giovani uomini? Non lo sappiamo. Potrebbero essere di Hamas. La GHF può dire di aver distribuito 1,6 milioni di pasti, ma non può dire chi li abbia effettivamente mangiati. In qualsiasi distribuzione di aiuti in una zona di guerra, una delle prime regole è portare gli aiuti il più vicino possibile a chi ne ha bisogno, e organizzare un sistema di distribuzione che massimizzi la possibilità che il cibo arrivi nelle mani, nelle bocche, negli stomaci dei più bisognosi.

Chi c’è dietro la GHF?
Un contraente privato, registrato negli Stati Uniti e in Svizzera. Il suo cliente è il governo israeliano, ma sembra che dietro ci siano fondi statunitensi. Il giudizio più benevolo è che sia un sistema concepito in modo incompetente e pericoloso. Il peggiore che si potrebbe dare è che faccia parte di una strategia militare per controllare e probabilmente sfollare la popolazione palestinese di Gaza.

Se vuoi controllare un’insurrezione o una popolazione, il metodo classico della controinsurrezione è nutrire la popolazione. Ma il modo di nutrirla consiste nel separare i civili dagli uomini armati.

Quando la GHF è stata creata, si era pensato di usare una sorveglianza bilaterale: identificare tutti, allocare cibo solo a chi fosse stato verificato e negarlo agli altri. Ma non ha funzionato, perché non avevano la tecnologia né i mezzi di controllo per farlo. E, quando hanno provato a introdurlo, la popolazione era già così affamata che qualsiasi tentativo di controlli individuali ai cancelli era impossibile. C’era troppa gente, e si sarebbe potuto fare solo con lo scopo di tenere sotto controllo una popolazione affamata.

Quindi, se guardiamo le località dei quattro centri di distribuzione della GHF, i tre principali si trovano all’estremo sud di Gaza e a Rafah. E quando Israele parla di rilocare la popolazione, lo scenario più probabile è che voglia che tutti i palestinesi vengano evacuati in quella zona — di fatto creare una tendopoli, o un accampamento, all’estremo sud di Gaza, accanto a dove si trovano questi centri. In quel caso sarebbe possibile implementare quel tipo di razionamento con sorveglianza. Ma è una speculazione. Non è ancora successo, ma potrebbe essere in programma.

Ci sono altri fattori che contribuiscono alla carestia a Gaza?
Un elemento che mi preoccuperebbe particolarmente adesso sono i bambini gravemente e acutamente malnutriti. Fino a pochi mesi fa, i tassi di malnutrizione infantile a Gaza erano in realtà sorprendentemente bassi, considerando lo stress a cui era sottoposto il sistema alimentare. Poi hanno cominciato a salire alle stelle. Ed è stato proprio allora che si è visto quell’aumento di sei-otto volte nel numero di bambini con grave malnutrizione acuta, e si è iniziato a pensare: “Questo è pericoloso”.

Ora, quei bambini non possono mangiare cibo normale. Sono arrivati a uno stadio di malnutrizione in cui sono estremamente vulnerabili anche alla più lieve infezione, ma anche quando il corpo ha consumato tutto il grasso disponibile, e sta consumando muscoli e rivestimento dello stomaco. I vari squilibri chimici ed elettrolitici nel corpo diventano completamente ingestibili. Quei bambini devono stare in ospedale. E se cominci a dar loro cibo normale, non solo non riescono a digerirlo, ma il corpo non riesce a reagire. Si chiama sindrome da rialimentazione.

Una delle tragedie alla fine della Seconda Guerra Mondiale fu che, quando le truppe britanniche e americane liberarono alcuni campi di concentramento e videro quelle persone ridotte alla fame, diedero loro immediatamente le proprie razioni. Ma i prigionieri dei campi non riuscivano a digerire quel cibo, e centinaia di loro morirono effettivamente di sindrome da rialimentazione. Sopravvissero al campo di concentramento nazista e poi morirono per questo.

Una delle cose che abbiamo imparato da altre carestie è che, quando i bambini sono a questo stadio, devono essere portati in ospedale, con cure intensive specializzate 24 ore su 24 e monitoraggio costante.

Ho cercato di ottenere dati sul numero di posti letto ospedalieri disponibili per cure terapeutiche intensive infantili a Gaza. Mi sono state date cifre diverse, ma si parla di decine, al massimo centinaia, mentre ne servirebbero migliaia. E quegli ospedali hanno bisogno di elettricità continua, acqua pulita, forniture, e personale infermieristico riposato e non stressato. Dei 18 ospedali regolari ancora funzionanti, 11 si trovano a Gaza City. Quindi, se Israele ordinasse l’evacuazione di Gaza City, potremmo perdere la maggior parte della capacità di terapia intensiva rimasta per i bambini affamati.

Ecco perché l’IPC ha chiesto specificamente un cessate il fuoco. E naturalmente questo mette la responsabilità anche su Hamas, perché, come ho detto, un cessate il fuoco richiede due [parti].

Hai citato alcuni esempi, ma è comune che la fame e il blocco degli aiuti vengano usati come arma di guerra?
Purtroppo sì, è abbastanza comune. Circa dieci anni fa ero molto fiducioso che le carestie sarebbero state consegnate alla storia, ma da allora sono emersi diversi casi. In Siria, il regime di Assad aveva questa strategia di assedi in stile “arrenditi o muori di fame”. In Yemen c’era un blocco degli aiuti alimentari. Non fu terribilmente efficace, ma causò enormi sofferenze. Il governo etiope utilizzò una strategia di assedio molto rigido e distruzione delle infrastrutture essenziali. E poi c’è il Sudan oggi, che rappresenta la carestia più grande e peggiore — per numeri e intensità, molto più grave di Gaza — dove entrambe le parti stanno usando la fame come arma.

In che cosa la carestia di Gaza differisce dalle altre?
Ciò che è unico nel caso di Gaza è che, a pochi chilometri di distanza, ci sono agenzie delle Nazioni Unite pronte ad agire, che fino a marzo gestivano un sistema di distribuzione piuttosto efficace. Hanno le scorte, hanno le competenze, hanno i piani, hanno i fondi, e non viene permesso loro di agire — a differenza, per esempio, del Sudan, dove sarebbe molto difficile mettere in piedi un simile sistema.

In Sudan, se le due parti in conflitto accettassero un cessate il fuoco domani, far arrivare gli aiuti richiederebbe settimane — forse mesi — a causa della logistica e delle distanze. [Anche se] i comandanti supremi si mettessero d’accordo, resterebbero comunque vari gruppi armati, signori della guerra ed elementi fuori controllo con cui bisognerebbe negoziare, e le infrastrutture richiederebbero molto tempo per essere ripristinate. Ma nel caso di Gaza, tutte le infrastrutture sono pronte e disponibili, e attendono solo il via libera di Israele.

Se il [governo] israeliano decidesse che si è andati troppo oltre e volesse risolvere il problema della distribuzione degli alimenti, sa di avere già tutto ciò che serve per riaprire quelle cucine. Potrebbero farlo — forse non domani, ma nel giro di un paio di giorni.

Ed è questo che rende il caso di Gaza una carestia particolarmente allarmante. Non è insolito avere una carestia provocata dall’uomo, con un esercito che crea — intenzionalmente o per negligenza — tanta fame. Ciò che è unico è che Israele potrebbe fermarla, se lo volesse, e invece non sta facendo molto.

E da qui, cosa può succedere?
Le strade possibili sono diverse. Credo che la chiave stia in che cosa faranno gli Stati Uniti. Tutti i Paesi europei all’ONU hanno detto che questa è una situazione terribile e che occorre intervenire. Finora, non ho sentito nulla dall’amministrazione Trump. E questo è preoccupante, perché Israele nega [che ci sia una carestia a Gaza]. Sta contestando l’IPC. Io sto dalla parte dell’IPC su questo. Non trovo convincenti le smentite israeliane.

Il mio timore è che, se l’attuale atteggiamento israeliano dovesse continuare — vale a dire continuare a bloccare le Nazioni Unite, i veri professionisti umanitari — si insisterà ancora di più sul GHF. Nelle ultime settimane è stato consentito l’ingresso di più cibo. Ma se l’offensiva dovesse proseguire e venisse emanato l’ordine di evacuazione per Gaza City, allora credo che la carestia si intensificherà. Vedremo i tassi di denutrizione e di mortalità continuare a impennarsi.

Nel lungo periodo, se l’intera popolazione fosse costretta a trasferirsi in una nuova zona nel sud, dove si trovano questi siti del GHF, ci troveremmo di fronte a una situazione in cui la popolazione, nel suo complesso, potrebbe essere sfamata in una condizione che, francamente, somiglia un po’ a un campo di concentramento. Ma non ci sarebbe alcun meccanismo per curare i bambini gravemente malnutriti che hanno bisogno di assistenza ospedaliera specializzata. Quella capacità non esiste, e non ci sono segnali che sia all’ordine del giorno, quindi la maggior parte di quei bambini morirebbe.

C’è qualcos’altro che vorrebbe dire sulla carestia a Gaza?
È terribilmente triste, ed è una macchia pesantissima sulla reputazione di Israele. Quando scrivevo il mio libro Mass Starvation dieci anni fa, cominciai proprio con la fame imposta agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. È una parte dell’Olocausto che è stata davvero dimenticata. Il popolo ebraico ha attraversato così tante catastrofi, ed è qualcosa che ha definito profondamente la sua identità. E per me, come persona di origine ebraica, l’idea che gli ebrei vengano segnati dalla colpa di aver inflitto questo tipo di sofferenza ad altri è davvero dolorosa.

Da Rolling Stone US

Altre notizie su:  Gaza Palestina