Balthazar, Pastis, Minetta Tavern e Morandi sono solo alcuni dei ristoranti che, aperti da Keith McNally, si sono dimostrati non solo di enorme successo; ma anche capaci di trasformare Manhattan e New York. Ogni locale trasmette una promessa di eleganza disinvolta e sofisticata, insieme a un pasto memorabile e delizioso. “Il ristoratore che ha inventato il Downtown”, lo definì una volta il New York Times — una frase riportata in copertina del brillante nuovo memoir di McNally, I Regret Almost Everything. Il libro è una lettura imprescindibile per chiunque abbia a cuore la scena gastronomica degli ultimi quarant’anni — o semplicemente voglia lasciarsi raccontare una vita epica da un narratore esperto del mondo, piena di liti, alti e bassi, e narrata con una schiettezza brutale.
Non a caso, McNally ammette di odiare la parola ristoratore, insieme a molte altre cose che detesta. In questo resoconto senza filtri, confessa numerose idiosincrasie: i punti esclamativi, le cerimonie di premiazione, gli aforismi motivazionali, le folle del web che ignorano concetti come il giusto processo — in particolare nel caso di Woody Allen. Parte del piacere della lettura sta nel seguire le sue molteplici faide e scoprire l’origine del suo gusto impeccabile in fatto di cibo, arte, cinema e teatro, tutto raccontato con una voce caustica e un talento naturale per lo storytelling.
Il libro si apre con una citazione di George Orwell: «L’autobiografia è degna di fiducia solo quando rivela qualcosa di vergognoso». Seguendo questa massima, McNally inizia raccontando il suo tentativo di suicidio nel 2018, avvenuto dopo un ictus debilitante. Da lì, accompagna il lettore nella storia di un outsider che ce l’ha fatta, con tutto il bagaglio di insicurezze e rivalse che derivano da origini umili. Racconta in modo vivido la sua infanzia povera e operaia nella Londra del dopoguerra, il successo iniziale come attore teatrale nella capitale britannica, e un pellegrinaggio lungo l’Hippie Trail fino in Afghanistan. Approda infine nel downtown bohémien e decadente di New York alla fine degli anni Settanta. Entra nel mondo della ristorazione partendo dal basso, aprendo ostriche prima di arrivare a gestire la sala. Il suo percorso insospettabile verso il successo comincia con l’apertura dell’iconico bistrot Odeon negli anni Ottanta, a cui seguiranno una serie di ristoranti di culto — finché la fortuna non gira.
Lungo il cammino, stringe amicizie con intellettuali pubblici come Oliver Sacks e Christopher Hitchens, con l’attore e regista Jonathan Miller, con la matriarca di Condé Nast Anna Wintour e molti altri ancora. Svelare di più sarebbe un torto a chiunque vorrà leggere il libro. Rolling Stone US ha recentemente scambiato qualche domanda con McNally sulla sua vita e il suo tempo (parlare, dopo l’ictus, è ancora difficile per lui).

Foto: press
In molti modi, il libro è una lettera d’amore a New York. Ti manca la città più ruvida di un tempo?
New York vive di cambiamento. Nulla invecchia un uomo più della nostalgia del passato.
Scrivi molto del dolore di essere cresciuto nella working class inglese. Ti preoccupa che il sistema di classi sociali si stia insinuando a New York e in America? Negli anni Settanta, per esempio, essere al verde nel Downtown di New York sembrava molto più facile e divertente.
Non direi mai che il downtown newyorkese degli anni Settanta fosse più divertente di oggi. Che sia la Greenpoint di Brooklyn o la Ridgewood del Queens, ogni generazione ha il suo equivalente della New York Downtown degli anni Settanta.
Hai assistito a una cristallizzazione del sistema di classi sociali in America?
Il fatto che i tre uomini più ricchi d’America — Musk, Bezos e Mark Zuckerberg — fossero così desiderosi di partecipare all’inaugurazione di Trump non promette nulla di buono per questo paese.
Hai percorso il celebre Hippie Trail dall’Europa fino all’Afghanistan. Un viaggio del genere oggi sarebbe impensabile, costoso e pericoloso. Cosa abbiamo perso con il tramonto di quella cultura giovanile bohémien e libera?
L’impulso a viaggiare via terra fino in Afghanistan, a 19 anni, nasceva dal bisogno — per usare una frase poco originale — di scoprire qualcosa dentro di me, non di scoprire l’Afghanistan. Oggi sarebbe forse troppo pericoloso viaggiare da solo da Londra a Kathmandu come feci io nel 1970. Ma se sei giovane e in cerca di una guida spirituale — com’ero io all’epoca — il paese in cui vai non è importante. È il tempo che passi da solo e lo sforzo che dedichi alla riflessione a rendere il viaggio degno.
Ho adorato le tue invettive, soprattutto contro i punti esclamativi e le emoji. I tuoi figli la pensano come te?
Non saprei dirlo. Anche se ho ricevuto qualche messaggio da loro con un punto esclamativo qua e là, non ricordo di aver mai ricevuto un messaggio con un’emoji. Quella cosa mi darebbe più fastidio che vederli arrivare ultimi in classe.
L’altro giorno stavo cenando in un ristorante elegante e alcune influencer stavano fotografando i loro piatti con lo smartphone, usando anche una luce portatile per migliorare lo scatto. Ho resistito all’impulso di strappare loro il telefono e urlare. Qual è la reazione appropriata da parte dello staff o degli altri clienti in casi del genere?
Prendere un martello, distruggere il telefono in minuscole particelle. E poi fare lo stesso con la cliente.

Keith McNally (a destra) insieme agli attori Tim Curry (a sinistra) e Nell Campbell (al centro). Insieme a Campbell, McNally aprirà un club a Manhattan, il Nell’s. Foto: Courtesy of Simon & Schuster.
Una delle scene più deprimenti in un ristorante è vedere una coppia a un appuntamento che fissa lo schermo del telefono invece che interagire tra loro. Cosa pensi che avrebbe detto il tuo amico Oliver Sacks di fronte a una cosa del genere?
Essendo l’uomo più compassionevole che si possa immaginare, probabilmente Oliver avrebbe pagato loro la cena.
Eri amico dello scrittore e celebre bastian contrario Christopher Hitchens. Cosa pensi che avrebbe detto del momento politico attuale?
Hitchens, che era un fervente sostenitore dei diritti dei palestinesi — come certamente lo sono anch’io — avrebbe odiato Trump e Douglas Murray, il commentatore politico neoconservatore britannico, in egual misura. A proposito: sostenere i diritti dei palestinesi non significa sostenere Hamas — tutt’altro — né tantomeno essere antisemita. Ho lavorato la terra in Israele per un anno della mia vita, sono in parte ebreo, e molti dei miei amici sono kibbutznik. Mi interessano i diritti dei palestinesi allo stesso modo in cui mi interessano i diritti degli irlandesi o degli israeliani.
Qual è il miglior consiglio che tu abbia mai ricevuto, da chi, e quando?
Non credere a nulla finché non viene ufficialmente smentito. Non ricordo chi l’ha detto, ma diventa sempre più vero ogni giorno che passa.
Considerato il titolo del tuo libro, come si convive con gli errori?
Allo stesso modo in cui si convive con le imperfezioni. Vivere significa commettere errori. Essere consapevoli dei propri sbagli è la prova di aver vissuto la propria vita con occhio critico.
In queste pagine sei un critico molto severo di te stesso. È stato difficile metterlo nero su bianco?
Non dopo il mio tentativo di suicidio.
Sei stato troppo duro?
A dire il vero, non abbastanza.
Scrivi in modo molto bello dei tuoi viaggi in bicicletta, che sembrano essere stati per te un’evasione divertente e una valvola di sfogo nella mezza età. LeBron James ha raccontato di essere cresciuto nella povertà e di come la bici rappresentasse per lui un senso di libertà.
Il motivo per cui non ho mai avuto una bicicletta prima di andare via di casa è che mia madre non me lo permetteva. Proprio perché me la proibiva, ero ossessionato dal desiderio di andare in bici. Ho imparato a pedalare a otto o nove anni, e dai vent’anni in poi la bicicletta ha rappresentato per me la libertà assoluta come nient’altro.
Che consiglio daresti a te stesso da giovane?
Di non accettare mai consigli da chi è troppo felice di darteli.

McNally con la sua prima moglie, Lynn Wagenknecht, nel 2024 al The Odeon, il ristorante che fondarono insieme nel 1980. Wagenknecht si occupa ancora del locale dopo il loro divorzio, avvenuto nel 1992. Foto: Ryan Lavine/Courtesy of Simon & Schuster.
Quale competenza maturata lavorando in teatro ti è stata più utile nella gestione di un ristorante?
Sicuramente l’illuminazione.
Il personale di sala e la brigata di cucina sono spesso in conflitto. Qual è il modo migliore per disinnescare lo scontro?
Il modo migliore è assumere persone che sappiano ascoltare la ragione. Che capiscano che — per citare John Donne — «nessun uomo è un’isola, completo in se stesso».
Ho mangiato moltissime volte nei tuoi ristoranti, e non ho mai avuto un’esperienza negativa. Anzi, mi colpisce sempre la coerenza e la qualità costante in tutti i locali firmati McNally. Qual è il segreto per mantenere standard così alti?
Sono felice che tu non abbia mai avuto un’esperienza negativa nei miei ristoranti, ma non credo si possa dire lo stesso per la maggior parte delle persone. Gestire un mio locale significa trovare il giusto equilibrio tra tre cose: qualità, costanza e volumi. Mantenere standard alti con costanza non è poi così difficile quando si fanno 30 coperti a sera. Ma è tutta un’altra storia quando ne fai 500.
La scena gastronomica nella New York degli anni ’70 e ’80 era piena di cocaina e abusi di alcol. Eppure, nel tuo libro non ne parli quasi per niente. Come hai fatto a evitare quella trappola così diffusa nel settore?
Dal momento che non ho mai assunto una sola droga ricreativa dopo un disastroso tentativo di fumare marijuana nel 1970, non conosco davvero quel mondo. Neanche quando ce l’avevo sotto al naso — se mi passi il gioco di parole involontario.
Questo libro è incredibilmente divertente e pieno di lezioni imparate a caro prezzo. E scrivere, in un certo senso, sembra averti salvato la vita. Cosa pensi di scrivere, adesso?
Probabilmente il mio necrologio.
Cosa ordineresti per un ultimo pasto?
Pasta con le sarde.