Zerocalcare, l'intervista per 'Macerie Prime' | Rolling Stone Italia
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Zerocalcare: «Il meglio della mia generazione lavora di notte nei supermercati»

Con 'Macerie Prime', il suo nuovo libro edito da Bao-Publishing, racconta che cosa è successo ai personaggi dei suoi fumetti, tra chi fa il turno di notte e chi ha "svoltato per conto suo"

Zerocalcare: «Il meglio della mia generazione lavora di notte nei supermercati»

Macerie prime, il nuovo libro di Zerocalcare, è una fenomenologia del senso di colpa verso gli inesauribili “accolli” che la vita è pronta a offrirci – ancora più insidiosi quando si fa irriducibile la distanza tra il proprio successo e lo sgretolamento delle ambizioni altrui: amici, compagni di lotta, generici questuanti che reclamano un po’ di tempo, un disegnetto, una presa di posizione, l’immancabile solidarietà per il popolo curdo, un aiuto per un bando o insomma qualunque sia – all’occorrenza – “una giusta causa”.

Mentre ero in metro per venire qui a intervistarti, mi sono sentita un ulteriore “accollo” in arrivo. Come vivi il momento della promozione di un libro?
Sono ancora nella fase che non mi sono imparato tutte le risposte a memoria perché è il primo giorno di interviste, fra una settimana sarò rodato a dire sempre le stesse cose e mi passerà l’ansia. Comunque fa parte del lavoro e non mi posso lamentare, rispondere 600 volte alla stessa domanda sarà sempre meglio che lavorare tutto il giorno in fabbrica.

Nel nuovo libro, i tuoi personaggi sono cresciuti e sono alle prese con la vita “adulta”: matrimonio, figli, lavoro stabile. Mi fa strano vedere che tutte le lotte di un tempo alla fine si risolvano in una morale anni ‘50…
Ah, guarda, è una cosa che mi sono chiesto anch’io e mi sono reso conto che – crescendo e attraversando momenti di crisi – mi veniva da attaccarmi emotivamente o di invidiare valori molto conservatori. Il matrimonio, ad esempio, che mi sembra una forma di stabilità e di costruzione, mentre a me pareva di non costruire niente.

Però sono anche ambizioni estremamente individualiste. Cioè, da un senso di lotta collettiva, i centri sociali, ecc. si passa a una realizzazione del tutto personale
Sì, rispetto a quei percorsi manca una prospettiva collettiva. In altri paesi, per esempio in Germania, si fa attivismo politico fino a 25 anni, poi si smette. Se vai in un corteo, o in un centro sociale in Germania, ci troverai ragazzini tra i 16 e i 25, già io sarei considerato un vecchio, mentre in Italia la militanza va avanti nel tempo, te la porti dietro fino a 50, 60 anni, ma se poi manca un’offerta rispetto a quell’impegno politico, appunto un senso di prospettiva collettiva, allora sì, va a finire che cerchi di svoltare per conto tuo e basta.

A proposito di sedicenni, in un’intervista dicevi che probabilmente non si immedesimeranno in certe problematiche di Macerie prime, tipo dover andare all’estero per la fecondazione assistita. Ma a dirla tutta, un sedicenne non sa neanche cosa sia un centro sociale…
Sì, ma è sano. È giusto che i ragazzini di oggi si facciano percorsi loro, che si inventino forme loro di aggregazione e di conflitto. Mi dispiace che non siamo riusciti a essere attrattivi, però mi ricordo quando ci furono gli scontri del 15 ottobre 2011, e quella era la prima generazione che non sentiva su di sé la cappa terribile di Genova. Molti di loro erano estranei ai centri sociali così come a tanti altri passaggi che avevamo fatto noi, anche se poi devo dire che la musica che si sentono mi fa orrore…

Ma tipo la trap?
Ehm, anche. Vabbè che pure a mia madre faceva schifo la roba che mi sentivo io.

Be’, tu in caso saresti il fratello maggiore, mica un genitore… e da fratello maggiore non senti una responsabilità come possibile modello?
Senti, stavo ripensando a quello che mi avevi chiesto prima sulla morale anni ‘50. Secondo me nessun altro tirerà fuori questa cosa, come nessuno ha tirato fuori il fatto che in Kobane Calling sostenessi un gruppo terrorista come il PKK. Non credo che i miei lettori sedicenni siano diventati militanti del PKK, quindi magari ora non diventeranno tutti fomentati del “Family Day”.

In questo libro hai raccontato il fallimento di una generazione. Se negli anni ‘80 nei fumetti esisteva l’eroina a fare da collante a questo fallimento, con tutto il suo immaginario di splendida devastazione, rappresentare il precariato sembra meno seducente… e quindi come si fa? Devi inventarti uno scenario apocalittico?
Sì, esatto. Se penso che le persone con le quali sono cresciuto – persone migliori di me che ancora adesso quando parlano prendo appunti per segnarmi le cose da dire nelle interviste – fanno l’inventario di notte nei supermercati, l’unico modo che ho di rappresentare le loro vite è questo: un mondo di macerie.

Roma in questo momento sta rivivendo un conflitto sociale e politico molto intenso, credi che da questo possa scaturire un nuovo tipo di narrazione sulla città?
No, tutto quello che può scaturire sono i pogrom.

Però in parte già esiste questo racconto…
Di che parli? Suburra? Quella roba lì? Per me, il 90 per cento è monnezza, dove o si raccontano le periferie tipo gita allo zoo: “andiamo a vedere gli animali strani!”, oppure al contrario si crea una visione romantica del buon selvaggio.

E chi è, secondo te, che fa un buon racconto?
Ascanio Celestini. Oppure un film come Sacro GRA, ma quello dipende dal mio lato emo.

Altra cosa, Roma è sempre stata una città iper-connotata nelle sue tipologie di personaggi e ambienti, tanto da sfociare nella parodia; hai mai avuto il timore che qualcuno potesse pensare: “Oh, ma non siamo in un fumetto di Zerocalcare!”
Ma chi se li legge i fumetti! Mica io creo immaginario. Sono una nicchia, la minoranza di una minoranza…

(A questo punto irrompe come in un fumetto di Zerocalcare il capo della Bao-publishing – il suo editore – per riportare queste testuali parole:
“Per calmare i tuoi dubbi, a Roma ci sono già persone in fila a sei ore dall’evento”. L’evento è la possibilità di acquistare il suo nuovo fumetto senza nemmeno un firma-copie visto che lui è a Milano…)

Okay, mi sa che non te la puoi più giocare la parte della nicchia. Passiamo ad altro. In un’intervista, Gipi diceva a proposito del suo La terra dei figli che voleva fare qualcosa di diverso in cui estromettere se stesso, perché il parlare di sé gli sembrava una richiesta di affetto da parte dei lettori. Tu la vivi così?
Io faccio quello che so fare. C’è un mondo verso il quale sento un attaccamento e che vorrei mi volesse bene, per cui la mia paura non è che mi venga a mancare l’affetto del lettore x, ma degli spazi occupati, i punk, la mia tribù, la mia famiglia… però paradossalmente per avere quell’affetto serve molto di più disegnare una cosa che spezzi una lancia a favore di un tizio arrestato e indifendibile piuttosto che fare qualcosa di emo che parli di me.

E c’hai mai provato a fare qualcosa dove non ci fossi tu, che sia emo o meno?
Sì, e faceva schifo.

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