‘Ultima Chance’: a Cortona On The Move va in scena la rivincita della periferia | Rolling Stone Italia
Interviste Culture

‘Ultima Chance’: a Cortona On The Move va in scena la rivincita della periferia

I palazzoni grigi invadono la verde campagna toscana: il festival internazionale Cortona On The Move celebra mezzo secolo di cultura hiphop con la mostra del fotogiornalista Marco Garofalo. Ambientata dentro un autobus, vera connessione fra il centro e i margini, è un omaggio alla periferia intesa come luogo fisico e della mente

‘Ultima Chance’: a Cortona On The Move va in scena la rivincita della periferia

Foto: Marco Garofalo

Sono tredici le edizioni del Cortona On The Move, prestigioso festival internazionale di fotografia, e sono cinquanta gli anni della cultura hiphop che, per convenzione, viene fatta risalire allo storico party lanciato dal deejay giamaicano Kool Herc, assieme a sua sorella Cindy, l’undici agosto del 1973 a New York, nel loro appartamento di Sedgwick Avenue.

Da festa in casa, l’hiphop si è trasformato in fenomeno globale in grado di plasmare stili e immagini della musica e dell’universo pop ed il festival incastonato nella campagna aretina ha scelto di celebrarlo con una serie di mostre ad esso dedicate. Fra le tante, spicca quella del fotogiornalista milanese Marco Garofalo, intitolata Ultima Chance, che ha scelto di fotografare estreme periferie italiane ed estere, mettendo nero su bianco le storie di ragazzi che si esprimono in quella che è l’ultima e più popolare evoluzione dell’hiphop, la trap. La mostra, visibile dal tredici luglio al primo ottobre, è stata realizzata all’interno di un autobus messo a disposizione da Autolinee Toscane – che è partner dell’evento – e che rappresenta sia idealmente che concretamente il vero punto di congiunzione fra il centro e la periferia. L’autobus, utilizzato e vissuto, è stato completamente colorato al suo esterno a mò di graffito, mentre le fotografie sono esposte al suo interno, accompagnate da un qr code che rimanda a canzoni degli artisti ritratti.

Qual è l’idea dietro a Ultima Chance?
Tutto comincia quando un giornale mi chiede di raccontare quelle che io chiamo le crepe delle città, quelle zone dove si affacciano i quartieri ricchi assieme a quelli poveri. A volte anche all’interno dello stesso quartiere, dove ci sono zone limitrofe, franche, dove quelli delle case popolari si incontrano con i ricconi. San Siro, per dire, è proprio una di queste. Segesta, Selinunte, Falterona, la zona Aler dove ci sono davvero zone di disagio drammatico, e poi dall’altra parte della via ci sono i calciatori, i ricchi e gli appartamenti da 15mila euro a metro quadro. In queste crepe si affacciano queste figure diverse, di una Milano in evoluzione, una città che negli ultimi anni è cambiata tantissimo, però certe dinamiche non sono cambiate per niente. Sembra ancora la Milano della ligèra, ancora un po’ malavitosa, dove per malavitosi non si intendono solo i poveracci che fanno crimini, ma anche quelli in giacca e cravatta. Ecco, lungo queste crepe si creano quelle situazioni che io sono andato a cercare e fotografare. E nella crepa di San Siro sono entrato in contatto con alcuni dei ragazzi che fanno trap, perché c’era stata una sparatoria per dei motivi non proprio chiari, forse c’erano di mezzo dei diritti musicali, e così ho incontrato alcuni dei personaggi legati a questo evento. Ho dovuto guadagnarmi la loro fiducia, spiegando che il mio interesse era quello di raccontare storie di personaggi che arrivano da quartieri popolari ma che comunque girano attorno all’arte e alla musica e così hanno iniziato a sbottonarsi un po’. Ho iniziato a seguirli e fotografarli e tramite loro ne ho conosciuti altri, tutti fondamentalmente trapper. Da Milano, tramite contatti loro, nati spesso grazie a featuring musicali, sono andato a Roma e poi a Napoli, La Spezia, Bergamo, Lecco.. è venuto fuori un quadro non più milanese ma nazionale. Che poi si è allargato oltre i confini del Paese perché, sempre tramite contatti, sono finito nella banlieu di Parigi e in alcuni quartieracci di Londra, per fotografare alcuni artisti italiani che producono le loro canzoni, in italiano, all’estero. Non sono andato a cercare i top player del genere, anzi, inizialmente ero under underground, dove la musica è vissuta più come una speranza che come una vocazione per uscire dal disagio, dal ghetto diciamo. E poi sono passato a quelli che hanno trasformato il loro talento in una effettiva possibilità di farne un mestiere o comunque di poter monetizzare su questa appartenenza alla strada, sulla loro credibilità. Il talento non basta, la credibilità non basta, i soldi se vuoi produrre la traccia non bastano, insomma, ci vuole un po’ di tutti questi fattori, che io ho ritrovato in molti degli artisti che ho fotografato. E che rappresentano in pieno quello che era l’obiettivo della mia ricerca, il desiderio di affrancarsi da un disagio, che a volte è personale ma tendenzialmente è sociale, di uscire e riuscire attraverso la musica. Che non è la musica classica o il rock, ma la trap: a volte drill, a volte con ancora certe influenze rap, ma fondamentalmente questa nuova ondata che arriva ai giovani e ai giovanissimi tramite i social. È un linguaggio quello della trap ed oggi è diventata una cultura. Perché, quando un genere musicale finisce per influenzare la moda, il cinema, i personaggi, allora possiamo parlare di cultura.

Foto: Marco Garofalo

Come hai scelto i personaggi, le periferie, le storie?
Ho affrontato questo lavoro con tanti ‘occhi’ diversi: i primi sono quelli del fotogiornalista, perché leggendo i fatti di cronaca mi sono reso conto che nelle periferie, tendenzialmente nelle periferie peggiori delle grandi città, succedevano queste cose, con i grandi nomi, i grandi talenti che, guarda caso, arrivavano proprio da questi posti qua. Per cui ho cominciato a cercare nei luoghi peggiori, San Siro o piazza Prealpi a Milano, Scampia o Forcella a Napoli, Corviale o Primavalle a Roma, insomma, postacci. Dove però, come dire, a volte i fiori più belli nascono nei posti più nascosti. E in questi posti ho trovato talenti sconosciuti, inespressi, a volte ancora acerbi nei quali ho intravisto un potenziale. Che poi ho fatto sentire a mio figlio più grande, che ha 15 anni, a volte è lui a farmi conoscere dei nomi. Gli altri occhi che ho utilizzato sono proprio quelli del padre di famiglia. Perché appunto, ho due figli, uno di quindici, uno di dieci. Che quello di quindici ascolti questa roba lo trovo normale, direi inevitabile, anche perché la trap ormai va di moda, anche i grandi brand ammiccano a questo linguaggio. Pensa alla pochette di Louis Vuitton, esibita da praticamente qualsiasi trapper, che si mischia alla strada. Quindi, da padre di famiglia, ho detto vabbè, mi aspetto che mio figlio più grande ascolti questa roba. Ma mio figlio più piccolino? Ho iniziato a preoccuparmi che potesse conoscere le canzoni di Baby Gang o di altri artisti con questo linguaggio molto esplicito e violento. Ho aggiunto questi occhi, per cercare di capire quale fosse il motivo per cui c’è questo concentrato di emozioni legate alla strada, ad un racconto violento sia nei contenuti che nelle modalità di espressione. Una risposta me l’ha data un operatore dell’Associazione 232 che è un’associazione che lavora al Beccaria, il carcere minorile di Milano e che usa il rap come strumento di dialogo con i ragazzi che sono dentro. E mi ha spiegato che la trap fa presa su giovani e giovanissimi perché – e questo lo spiega la psicologia dell’età evolutiva – l’adolescenza è una continua ricerca di emozioni. E le canzoni e i video trap non sono altro che un concentrato di emozioni forti che i ragazzini trovano attraenti e condivisibili. Non è un caso che gli stessi artisti trap, smussino i loro angoli più spigolosi una volta cresciuti, fino ad arrivare a canzoni più conscious. Questa cosa l’ho trovata molto vera. E comunque anche nel rap degli anni ’90, anche noi, la mia generazione, era attratta da un linguaggio più esplicito, un po’ gangsta, perché ti faceva sentire un po’ più grande, capace di essere un segreto per i genitori e ti portava a saper gestire magari anche un certo tipo di violenza verbale, che in certi posti in America non era solo verbale. Ma anche in certi quartieri da noi. Io anche vengo dalla periferia e ne ho viste di cose brutte, ma siamo ben lontani dai ghetti americani. Trovo invece più vicinanza di contenuti e modalità di narrazione di quei contenuti nelle periferie di oggi con l’hiphop della prima scuola. Per cui c’è un’analogia incredibile per quanto riguarda il disagio sociale e la voglia di affrancarsene attraverso la musica, unita ad un nichilismo di fondo che ti porta a pensare che è più semplice guadagnare soldi con una hit rispetto a spaccarsi la schiena per tutto l’anno come fa tuo padre. Ci sono anche tante differenze, è difficile fare un confronto fra la trap e l’hiphop, ci sono punti di contatto, ma anche altri che sono lontanissimi fra loro.

Gli architetti sostengono che le città, al giorno d’oggi, si distinguano per i centri storici, mentre le periferie sono tutte uguali, quasi sovrapponibili. Sei d’accordo? Qual è stata la tua esperienza?
Questo è interessante perché le periferie nascono da progetti architettonici, e addirittura a volte da progetti sperimentali che, quando sono stati realizzati, negli anni ’50 o ’60, erano studiati per aumentare il benessere delle persone che ci sarebbero andati a vivere. Voglio dire, le periferie si formano perché la città si allarga, perché c’è bisogno di nuova popolazione, di lavoratori, per cui subisce tutta una serie di flussi migratori per ospitare persone che arrivano da fuori. Quindi quando vengono costruiti questi quartieri, ci sono progetti sperimentali ma anche architettonici, ci sono zone comuni, ballatoi, spazi verdi, eccetera. Il problema maggiore è che magari non c’è stata manutenzione perché le case popolari sono spesso proprietà del Comune o della Provincia o della Regione e, con la crisi economiche, tagliando vari voci dei costi, le prime cose che sono saltate sono proprio le manutenzioni di questi grandi edifici che a volte sono mostruosi, vedi Corviale o Primavalle o Aler a Milano. Quindi questi spazi sono andati sempre più in malora, presentando un degrado strutturale che poi è coinciso con un degrado sociale sempre più grave. Questo ha prodotto effetti drammatici, a partire dalle condizioni di vita delle persone in primis, i cui effetti, come la microcriminalità, sono entrati nella narrazione della musica. La trap, la drill, comunicano questo tipo di disagio. Anche se poi dopo subentra la moda, per cui il genere viene replicato anche da persone che non hanno vissuto quel tipo di disagio perché questo, oggi, fa grandi numeri. Per rispondere alla domanda, le periferie si assomigliano tutte, moltissimo, soprattutto nelle storie che si sviluppano dentro, per cui se tu vai a Napoli, a Milano, a Parigi o a Londra le storie di vita si assomigliano tutte quante. Da fuori questi posti sono brutti, ma per chi ci vive dentro, si sviluppa una sorta di campanilismo, dove il campanile in questo caso sono questi palazzacci. Che diventano addirittura rassicuranti. Parlando con questi ragazzi mi sono accorto che alcuni di loro non escono mai dal loro quartiere, perché lì tutti li conoscono e loro conoscono tutti e questo magari si traduce anche in un piccolo potere. Ma fuori da lì, gli manca il terreno sotto i piedi. Magari non vanno a farsi un giro al Duomo o nelle zone belle, preferiscono rimanere lì, dove magari è uno schifo ma si sentono a loro agio.

A proposito di ragazzi, ci racconti una storia che ti ha colpito?
Io sono sempre dalla parte di chi fotografo, questa è la mia attitudine. Cerco di estremizzare le storie, sia nel bene che nel male, ognuna è importante, ognuna mi ha colpito. Se dovessi sceglierne una, perché davvero mi ha stupito e mi ha fatto capire qualcosa che non conoscevo, è questa, successa a Parigi. Stavo fotografando dei rapper in una banlieu a nord di Parigi e mi si avvicina questo ragazzo, nero, che mi mostra questo tatuaggio sulla pancia, in lettere gotiche, con scritto Milano. Era un ragazzo originario della Costa D’Avorio, nato a Milano, che viveva a Parigi e rappava in italiano. Aveva quel tatuaggio perché Milano gli mancava tantissimo. Ecco, in questa immagine, in questa persona, ho trovato fusi culture, provenienze, influenze, idee, centro e periferia – che non è necessariamente quella della città, può essere intesa anche in maniera più astratta, come periferia dell’essere – tutti questi concetti assieme e mi ha colpito. Proprio l’immagine del segno dei tempi e di un metissage che trovo interessante e anche molto bello. Perché poi questi ragazzi, a parte qualcuno che è realmente compromesso per varie situazioni della vita, la verità è che la maggior parte di questi che ho incontrato sono molto smart, molto capaci di comunicare sia il loro disagio che la loro voglia di vivere, attraverso immagini e video, la narrazione del sé, anche in maniera molto matura.

Negli anni ’90 si diceva che il rap era la CNN dei poveri, proprio per la sua capacità di raccontare storie che esulavano dalla narrazione mainstream. La trap che televisione è?
La trap non è televisione, probabilmente. Perché la trap è cotta, mangiata, consumata sui social network. Quindi se devo scegliere un media non è sicuramente la televisione ma i social. E non intendo Facebook, che questi ragazzi non adoperano, ma Youtube, Instagram e TikTok dove i contenuti sono condivisi ad una velocità che a me fa paura, perché appartengo ad un’altra generazione. Trovo che ci sia una velocità di consumo dei contenuti eccessiva, quasi bulimica, che se da una parte rende tutto in movimento e in continua evoluzione, dall’altra non ti permette di godere qualcosa perché già ce n’è una nuova e tu ti sei già scordato di quella precedente. Questa cosa non ti permette di costruire delle fondamenta, una base su cui costruire. Ma ci sono anche gli artisti che considerano come fondamenta quello che è venuto prima di loro e non a caso quelli che poi hanno successo sono proprio quelli che riescono ad avere questo tipo di disciplina. Se non hai disciplina, in tanti campi, non vai da nessuna parte, ma in questo ambito, con questa velocità schizofrenica di condivisione, è davvero fondamentale.

Cortona On The Move è organizzato dall’associazione culturale ONTHEMOVE e si svolge con il patrocinio della Regione Toscana e del Comune di Cortona. È realizzato con il sostegno di Intesa Sanpaolo e Gallerie d’Italia, main partner, Chengdu Biennale 2023, international partner, con il contributo di Fondazione CR Firenze e di Autolinee Toscane, partner, e di Medici Senza Frontiere, charity partner.

La tredicesima edizione di Cortona On The Move avrà termine il primo ottobre: nel programma, 30 grandi protagonisti della fotografia nazionale e internazionale, oltre ad esperti, giornalisti e appassionati da tutto il mondo. Larry Fink, Massimo Vitali, Dana Lixenberg, Chauncey Hare, Marco Garofalo, Irina Werning, Fabiola Ferrero sono solo alcuni dei nomi dei fotografi a cui saranno dedicate le 26 mostre allestite tra il centro storico, la Fortezza medicea del Girifalco e la “Stazione C”, accanto alla stazione ferroviaria di Camucia-Cortona.

Il programma completo a questo link.