Stefano Nazzi: «Il male esiste ed è la mancanza di empatia» | Rolling Stone Italia
Fa il giornalista da tanti anni

Stefano Nazzi: «Il male esiste ed è la mancanza di empatia»

Si possono raccontare delitti efferati senza morbosità e spettacolarizzazioni? Lo dimostra il giornalista che con l'audiolibro 'Il volto del male' ci spiega perché non c’è sempre un movente

Stefano Nazzi: «Il male esiste ed è la mancanza di empatia»

Foto: Instagram

La cronaca nera ormai da anni non ha rivali nell’informazione e la fa da padrona su ogni tipo di sito e in qualsiasi fascia oraria televisiva. Per non parlare dei social, dove si raggiungono vette impressionanti (e anche inquietanti). In questo panorama, dove abbonda l’offerta c’è però chi riesce, senza morbosità o spettacolarizzazioni, a distinguersi: è Stefano Nazzi, giornalista che si è messo in luce con Indagini su Il Post, e ora torna a raccontare i crimini più efferati, sia in un volume, Il volto del male, che in un audiolibro omonimo su Audible.it, dove prende in esame dieci storie, di uomini e donne di età diverse, che in Italia si sono resi colpevoli di delitti raccapriccianti: dai più noti, come Nicola Sapone delle Bestie di Satana o Luigi Chiatti, il Mostro di Foligno, a nomi meno conosciuti, come il serial killer Gianfranco Stevanin, il «Cherubino nero» Roberto Succo o, ancora, le tre ragazze che a Chiavenna uccisero senza motivo una suora. Vicende drammatiche i cui moventi erano apparentemente inesistenti. Sì, perché anche il raptus omicida, come si legge spesso sulla stampa, in realtà non esiste, è invece il “male” a esistere. E, come ci ha spiegato Nazzi, si può tradurre in «una totale mancanza di empatia verso il resto degli esseri umani».

Stefano, partiamo dalla domanda delle domande, alla quale però mi sembra che tu nell’audiolibro sia riuscito a dare una risposta: il male esiste?
Esiste, certo. Esistono persone malvagie. Capire da dove venga questa malvagità e perché fanno del male ad altri è più difficile. Ci sono storie tutte diverse, alcune che comprendono disturbi psichiatrici e della personalità, ma in fondo hanno sempre in comune una forma di atteggiamento che porta questi protagonisti a pensare che solo loro siano importanti nell’universo e la vita degli altri non abbia rilevanza.

Il male, quindi, non è sempre dovuto a delle malattie?
No, soltanto a volte è dovuto a malattie. Ma, come mi diceva la criminologa Isabella Merzagora, «guarda che non sono tutti malati, ci sono anche quelli cattivi». Gente razionale, presente a sé stessa e che persegue un obiettivo e fa del male agli altri. Non per forza un grande obiettivo, anche solo desiderare di essere più forte o più importante degli altri.

Come mai si è diffusa la vulgata che, dietro a ogni delitto, c’è dietro spesso un disturbo psicologico o psichiatrico?
Forse perché è una strategia difensiva quella di cercare almeno una parziale infermità di mente. E poi c’è il desiderio, nell’opinione pubblica, di cercare una via più spiegabile a tutto ciò che ci sembra troppo esagerato, che non riusciamo a spiegarci, che ci sembra così lontano da noi. E tendiamo a giustificarlo con una malattia, con qualcosa che possa chiarire un atto feroce o crudele. Spesso, però, non è così.

Un po’ come il raptus, che però non è attendibile come diagnosi.
No, Non esiste. Spesso lo diciamo e lo scriviamo, ma qualsiasi psichiatra può spiegarci che non c’è una forma attraverso la quale uno viene preso da un momento incontrollabile. C’è sempre un percorso, una storia, una attitudine che vengono da lontano e hanno manifestato dei segnali.

Lo psichiatra austriaco Bruno Bettelheim disse: «Datemi i primi sette anni e tenetevi tutto il resto!». È nell’infanzia che si creano i mostri?
Certo, l’infanzia è il periodo in cui si costruisce la personalità di un individuo. Non a caso si dice che chi subisce violenze da bambino tende a ripeterle. Non è sempre così, per fortuna. Però è indubbio che se cresci respirando violenza, impari in qualche modo che quella è una forma di rapporto con gli altri. Quello che viviamo condiziona la nostra personalità.

In questa raccolta di storie inquietanti, come hai proceduto alla selezione?
Ho cercato storie esemplificative di momenti storici, provenienze, sia culturali che economiche, differenti. Il fil rouge è quello che dicevamo: una totale mancanza di empatia verso il resto degli esseri umani.

Tra le dieci storie che racconti, alcuni di loro torneranno mai in libertà?
Dipende dalla condanna, il nostro sistema giudiziario si basa sull’articolo 27 della Costituzione, il quale prevede che la pena debba essere votata non solo alla punizione ma anche al reinserimento. Persino l’ergastolo prevede che una persona, se ha rispettato certe regole, dopo un po’ possa usufruire dei benefici di legge. Che non vuol dire tornare libero, ma magari lavorare fuori dal carcere e avere permessi premio. Prima o poi torneranno liberi.

Credi che, dopo quello che hanno compiuto, sia sicuro?
Questo lo giudicano i giudici di sorveglianza e gli psichiatri quando concedono i benefici. Però il nostro sistema prevede che ci sia questo percorso. O almeno ci dovrebbe essere, che permetta una evoluzione a queste persone per essere nelle condizioni di non ripetere un delitto. Ma è anche vero che il sistema carcerario non ha gli strumenti per renderlo possibile.

C’è un caso in particolare che ti ha colpito più di altri?
Un caso in cui non c’è un omicidio, compiuto da quella che chiamiamo “la coppia dell’acido”. Questo desiderio, oltre a utilizzare l’acido che è una forma di ferocia assoluta per dolore fisico e psicologico, di cancellare e purificare il passato mi ha impressionato. Quando non trovarono la vittima tornarono il giorno dopo, senza nessun ripensamento, e la colpirono. Questo bisogno di fare del male a tutti i costi per sentirsi bene è quello che più mi ha colpito.

Credi che trasmissioni del pomeriggio, o in altri casi ma condotte da persone non esperte, possano travisare e rendere confusa l’analisi di certi casi?
Non è quello. è che il racconto della cronaca è diventato spettacolare. Storie nelle quali i protagonisti diventavano di uno show, da Avetrana a Garlasco. Il rischio esemplificazione non direi, più che altro di prendere vie laterali, concentrandosi su cose che non contano nulla con i fatti inseguendo aspetti più spettacolari, senza dire morbosi. Più emotivi ed emozionali, mentre un fatto di cronaca ha già emozioni in sé, tra emozione e paura.

All’estero i casi di cronaca nera vengono trattati in modo diverso rispetto all’Italia o c’è la stessa morbosità?
Basta aprire i tabloid britannici o certe trasmissioni americane per accorgersi che è così ovunque. L’Italia non credo sia peggio di altri paesi. È un atteggiamento abbastanza universale. Da noi però la data spartiacque è quella del delitto di Cogne. Da quel momento in poi c’è stata una rincorsa anche da parte di trasmissioni che prima si occupavano di altro.

Sei mai stato toccato da tanto “male” che hai raccontato, fino ad arrivare a pensare di doverne prendere le distanze?
Io di solito ho la reazione opposta. Tendo a cercare poi cose belle e di tutt’altro tipo. Non credo che “se guardi molto l’abisso, poi sarà lui che guarderà te”. Anzi, se studi e racconti certe storie le contestualizzi riesci a isolarle per arrivare a pensare che, per fortuna, sono delle eccezioni. E tendi a vedere tutto il resto del mondo come un posto di persone non in grado di fare del male.

Sai che sui social c’è chi dice che tu abbia una voce sexy?
Ma dai, davvero? Non ci ho mai pensato a questo aspetto.

Il “male” che racconti non ti ha cambiato, ma il successo?2
Ma no, perché è un successo relativo e arrivato da adulto. Lo prendo come un riconoscimento a qualcosa che piace anche agli altri, Inaspettato e non cercato. Se è arrivato sono felice, ma non era quello l’obiettivo. Neanche questo credo mi abbia cambiato.