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Silvia Calderoni: «Gli italiani non conoscono il significato della parola ‘queer’»

L’attrice, che con la compagnia di teatro sperimentale Motus mescola rappresentazione, sperimentazione e impegno civile, ci ha raccontato il passato da fondista, la seconda vita da dj e il teatro come forma di azione politica

Foto: Claudia Pajewski

Potreste averla vista nel video di Ed è quasi come essere felice, singolo di Motta. Oppure in La leggenda di Kaspar Hauser, film del 2012 con Vincent Gallo, Fabrizio Gifuni e Claudia Gerini. A breve sarà di nuovo al cinema in Last Words, nientemeno che con Charlotte Rampling e Nick Nolte. Ma Silvia Calderoni è innanzitutto un’attrice di teatro. Se nel 2010 la vittoria del Premio Ubu come under 30 l’ha catapultata sulla scena internazionale, è dal 2005 che la 37enne di Lugo di Romagna, romana d’adozione, è interprete e performer dei Motus, compagnia vicina all’approccio del Living Theatre americano nel suo fondere rappresentazione scenica, sperimentazione e impegno civile. Non è un caso che nella pièce The Plot Is The Revolution si sia ritrovata a recitare accanto a quella Judith Malina che del Living Theatre è simbolo e co-fondatrice. Ora Calderoni si sta preparando per una nuova avventura intitolata Kiss: “È un progetto mio e di Ilenia Caleo, con altri 20 performer”, spiega. “Un’indagine sull’immaginario che ruota attorno al bacio. Ci si bacerà tantissimo!”. Intanto prosegue la fortuna di MDLSX, produzione Motus ispirata al romanzo Middlesex del premio Pulitzer Jeffrey Eugenides, e giunta, dal 2015 a oggi, a quota 250 repliche tra Italia ed estero. Qui Calderoni è sola sul palco con il suo fisico androgino, personaggio unico di un caleidoscopio di parole, suoni, movimenti, immagini e musica, tanta musica: dai Talking Heads ai R.E.M. ai Placebo.

Silvia, cosa significa portare in scena lo stesso spettacolo per così tante date?
È un’esperienza stimolante, se affrontata vivendo ogni replica come fosse una tappa di un tour musicale, come le band vivono i concerti. Quindi con la consapevolezza che ogni sera sarà diversa dalle precedenti, perché tutto dipende dalla relazione con il pubblico. È questo il tipo di lavoro che sto conducendo, del resto non ho mai considerato il teatro come quarta parete chiusa, indipendente dalla platea e dalle reazioni esterne. È faticoso come approccio, comporta dispendio energetico. Ma è l’unica via per mantenere vivo ciò che si porta in scena.

Le tue performance sono molto fisiche, cosa succede se non ti senti bene?
Per assurdo le serate in cui sono giù di tono sono quelle in cui mi sembra di trasmettere più del solito. Forse perché se non mi sento in forma do ancora di più. È come se dentro di me si attivasse un salvavita interno, ed è qualcosa di assolutamente mentale, pazienza se poi, quando torno in camerino, sono stremata.

MDLSX parla di intersessualità.
Narra la storia – non la mia – di una ragazzina che si scopre intersessuale e decide di transitare nel genere maschile. Ed è un inno alla libertà: la libertà di spostarsi da un punto all’altro, di cambiare identità, di trasformarsi, di aderire a una fluidità in ogni campo.

È questo che reclami, tu, personalmente? La libertà di poter sfuggire a qualsivoglia etichetta?
Non si tratta tanto di sfuggire a delle etichette, quanto di essere liberi di definirsi come si desidera e di poter cambiare quella definizione ogni volta che si vuole. Etichetta è un termine che può essere usato con un’accezione negativa, ma non dimentichiamo che etichette come “gay”, “queer” o “LGBT” sono ancora utili quando servono a portare avanti importanti battaglie per i diritti civili. Ciò detto, io posso definirmi in un modo adesso e in un altro tra cinque minuti, e senza che siano gli altri a definire me: è questo che rivendico.

Rivendicazione in linea con la filosofia queer: secondo te la maggior parte degli italiani conosce il significato di questa parola?
Queer? Mmm… Non credo. Ma sarebbe stupido pretendere che lo sappiano.

Chiedevo, perché ho notato che da qualche tempo un numero crescente di artisti dichiaratamente gay hanno cominciato a definirsi queer. Nella musica mi vengono in mente la songwriter britannica Anna Calvi e l’americana St. Vincent. Che ne pensi?
Per quanto mi riguarda non preferisco nessuno di questi termini, nell’arco della stessa giornata posso definirmi lesbica, gender fluid, queer, transfemminista, gay eccetera. Dipende dall’interlocutore e da come mi sento in quel momento. Perché alla fine ogni definizione che do di me stessa serve solo a far capire chi sono alle persone con cui mi capita di parlare. Non serve a me: quando sono da sola non ho necessità di definire ciò che sono.

Silvia Calderoni, foto: Claudia Pajewski

Nel 2017 hai subìto un’aggressione per avere utilizzato, in un bar a Roma, il bagno delle donne, salvo essere stata scambiata per un uomo.
Già, mi hanno messo le mani addosso. Non ho preso pugni o calci, ma sono stata sbattuta tre volte sul pavimento.

Cos’hai provato?
Paura. Avevo sempre immaginato che in situazioni simili avrei spaccato tutto, ma poi ti ci ritrovi dentro e rimani impietrito, paralizzato, terrorizzato. Per settimane ti chiedi come puoi vivere in un mondo ridotto così. Poi le tue priorità iniziano a cambiare, cominci a sentire forte l’esigenza di difendere i tuoi diritti. Così, per esempio, leggi che a Verona si terrà il Congresso mondiale delle famiglie e decidi di andarci. Torni all’azione politica, hai bisogno di manifestare, di scendere in piazza. E quando lo fai, ritrovarti in mezzo a tanta gente che è lì per gli stessi diritti per cui sei lì tu, ti aiuta, ti fa sentire meno solo.

La lotta contro l’omofobia da cosa dovrebbe partire?
Dall’educazione dei bambini. Nel frattempo non resta che tutelarsi e cercare, giorno per giorno, di far comprendere a chi ci sta intorno che l’altro o chi è percepito come diverso non è così spaventoso o pericoloso, che l’altro è più vicino a chi lo ritiene lontano da sé di quanto sembri. E che vuole rimanere altro, non è che abbia l’intento di convertire nessuno.

Sei cresciuta nella Romagna rossa degli anni 80 e 90: che infanzia hai avuto?
Molto bella. Spesso mi scambiavano per maschio, sai, avevo i capelli corti, un look sportivo… Però finiva lì, non ho mai avuto grossi traumi. E a partire dai 18 anni fare teatro mi ha facilitata nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta: il mondo esterno mi vedeva come un’artista e agli artisti sono quasi sempre riconosciuti margini di libertà più ampi. Questo mi ha permesso di essere eccentrica, di vestirmi da maschio, di essere “quella strana” più che se avessi fatto altro nella vita.

Prima dei 18 anni, però, sei stata un’atleta.
Una fondista, correvo su lunghe distanze, gareggiavo a livello agonistico: dagli 8 ai 16 anni è stata quella la mia vita. La vita di una ragazzina che corre per un sacco di chilometri in silenzio e che, così facendo, impara ad abituarsi alla solitudine e a riflettere durante la fatica. Sono aspetti di me, questi, che ho sviluppato in quel periodo e che mi sono poi portata dentro da attrice: sul palco il mio non è solo un corpo che agisce, è un corpo che pensa mentre agisce.

Il mondo dello sport è notoriamente chiuso…
Vero, ma personalmente non ho trovato chiusure. Ho avuto un’adolescenza di merda, ma chi non l’ha avuta?! Insomma, so che funzionerebbe di più raccontare di avere avuto un’infanzia terribile, ma non mi va di fare revisionismo.

Ci mancherebbe. Come mai, però, hai lasciato l’atletica?
Non sopportavo più l’agonismo. Ero arrivata ad avere un attacco di panico ogni volta che sentivo lo sparo d’inizio corsa; non ho mai capito perché dev’essere una pistola a dare il via alle gare. Poi nella mia scuola superiore hanno avviato un laboratorio teatrale gestito dalla compagnia sperimentale Teatro Clandestino, mi sono iscritta per caso ed è finita che sono ancora qui a recitare. Quell’esperienza mi ha completamente travolta.

Quindi ti sei avvicinata da subito al teatro di ricerca?
Sì, con un approccio punk: l’idea dietro al mio lavoro di attrice era di provocare una rottura e di creare nuove forme espressive, senza, in realtà, avere nulla da rompere, dato che non sapevo nulla di teatro classico o di prosa. A parte l’accresciuta consapevolezza e l’evoluzione che c’è stata dopo, quell’attitudine DIY me la porto dentro ancora oggi. Così come tutt’oggi non ho una collocazione precisa, faccio parte di una comunità di artisti a me affini, ma per il resto mi muovo, amo passare da un luogo all’altro e attraversare luoghi lontani da me. Questo fa sì che mi si possa trovare sul palco di una casa occupata così come a una sfilata di Gucci (lo scorso gennaio, in chiusura della Milano Fashion Week, Silvia ha portato MDSLX al Gucci Hub di Milano, quartier generale della casa di moda; ndr). Ciò che conta è lasciare il segno. Il che non significa che proporrei uno spettacolo per Casa Pound.

Nel film La leggenda di Kaspar Hauser, del 2012, hai recitato con Vincent Gallo, attore e regista di culto, pur se controverso. Il suo Buffalo ’66 è una gemma del cinema, lui il sogno erotico di molte e molti.
Nonostante mi piacciano le donne posso confermare che è un figo, uno degli uomini più belli che abbia mai visto. E mi ha insegnato tanto, lo considero un maestro. In seguito ho lavorato al cinema con vari registi, da Francesca Comencini a Roberta Torre a Roberto Andò, ma La leggenda di Kaspar Hauser è stato essenziale per me: ancora oggi c’è chi mi ferma per strada per quel film! Peccato che Davide Manuli, il regista, non ne abbia più fatti altri, nessuno lo ha più prodotto. Invece avremmo bisogno di film del genere: visionari, immaginifici.

Lì la colonna sonora è di Vitalic e il tuo personaggio, approdato su un’isola da chissà dove e del tutto privo di conoscenze, non fa che ascoltare musica a tutto volume con le cuffie. Tu sei anche dj, giusto?
Sì, ma non mi definisco una dj, non è il mio primo lavoro, non ho vinili, non so mixare. Semmai durante le mie serate mi scateno, uso la mia presenza scenica per dar vita a qualcosa che per me, più che un dj-set, è un rito catartico.

Che musica metti?
Passo da un genere all’altro: post punk, elettronica, trip hop, rap anni 90… Mescolo di tutto, anche frammenti di film registrati. Venerdì 24 maggio sarò al Lucha y Siesta, a Roma, un luogo speciale dove si aiutano donne in difficoltà, vittime di violenza e non solo. Attualmente lo spazio è a rischio perché il Comune ha messo in vendita lo stabile, questa serata sarà in suo sostegno.

Dj-set a parte, cosa ascolti nel privato?
Spazio da Motta ai Baustelle, da Peaches ai Suuns agli Smashing Pumpkins, che adoravo da ragazzina. Poi Joy Division, Bauhaus, Psychic TV. Ah, tra gli italiani anche Lucio Corsi: è bravo, lui.

Entro fine anno tornerai sul grande schermo in Last Words: questa volta le sono toccati come colleghi Charlotte Rampling e Nick Nolte.
Sono fortunata! Last Words è una favola ecologica ambientata in un futuro non così lontano, nel 2086. Mi hanno chiamata dopo avermi vista a teatro, interpreto uno degli ultimi abitanti della Terra, pianeta dove la vegetazione è ormai tossica e l’umanità sta per scomparire. È un bellissimo progetto, oltre che un film: il regista Jonathan Nossiter ha voluto scardinare alcune dinamiche tipiche dell’industria cinematografica e proporre un modello economico alternativo, per cui le paghe di tutti i componenti sia del cast tecnico, sia di quello artistico, erano equiparate. Siamo stati pagati tutti allo stesso modo, inclusi la Rampling e Nolte.

Qual è l’Italia che desideri?
Sicuramente non un’Italia di soli queer, lo preciso perché su questo punto spesso si creano malintesi. Vorrei un Paese con colori diversi, culture diverse, generi diversi, gusti sessuali diversi e identità diverse che vivono in sintonia. Dato che tutto ciò, data la vandalizzazione dell’umanità cui stiamo assistendo, è qualcosa di terribilmente utopico, pretenderei almeno un minimo di rispetto nei confronti delle diversità.

Che cosa direbbe a quei personaggi pubblici che si dicono contrari al coming out perché “certi argomenti appartengono alla sfera privata”?
È il mio pensiero, vale poco, però per me se sei un personaggio pubblico e il tuo esporti può migliorare la vita di qualcuno, dare coraggio a un ragazzino che ha paura di dire che è omosessuale o modificare la percezione dell’opinione pubblica mettendola di fronte alla realtà nelle sue diverse sfaccettature, allora hai una responsabilità.

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