Silvia Calderoni e Ilenia Caleo: i corpi devono incontrarsi, senza conflitto non c’è rivoluzione | Rolling Stone Italia
ortiche agli angoli delle strade

Silvia Calderoni e Ilenia Caleo: i corpi devono incontrarsi, senza conflitto non c’è rivoluzione

Ovvero di linguaggio, resistenza e speranza quando tutto attorno brucia. Abbiamo parlato di sguardi, di lotte, e di un presente che non sa bastarci con una delle coppie creative più interessanti (e necessarie) del panorama italiano

Ilenia Caleo (a sinistra) e Silvia Calderoni (a destra)

Ilenia Caleo (a sinistra) e Silvia Calderoni (a destra)

Credits: Pietro Bertola

C’è un corpo sulla scena. Ci guarda, immobile. Attira sguardi come uno specchio. Presto è raggiunto da altri occhi, altri corpi. Si mandano segnali attraverso rivoli d’aria. È il palco di uno spettacolo, ma potrebbe essere il cuore della giungla, e le sue tenebre sarebbero queste presenze: seducenti, sconosciute, sfingi in un deserto di panorami urbani. Così è The Present Is Not Enough, progetto di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo con Giacomo AG, Tony Allotta, Gabriele Lepera, Fedra Morini e Ondina Quadri: la messa in scena di un movimento, un fluire nello spazio che prende ispirazione dalle dinamiche – sarebbe meglio dire, dai racconti, ma ci torneremo – del cruising, ovvero il vagare alla ricerca di partner sessuali occasionali, storicamente di pertinenza della comunità LGBTQ+. E che obbliga il pubblico a confrontarsi con questi sguardi, a formulare una propria, personale risposta, e dunque a scoprirsi, nel senso di togliersi qualche metaforico velo di dosso e andare alla scoperta di quello che sta sotto, celato più in basso.

Non pensate allo scandalo, però, perché i corpi non dovrebbero mai provocarlo. Sembra questa la lezione, o parte di essa, che possiamo cominciare a trarre dopo circa due decadi che siamo entrati in contatto con Calderoni, con la sua alterità radicale (l’abbiamo raccontata qui), che dal Teatro Valdoca l’ha portata alla compagnia Motus e poi alle collaborazioni con Caleo, che è ricercatrice universitaria, attivista, performer e lavora da sempre nel teatro all’intersezione tra teoria e pratica – potremmo pensare, in mezzo dunque al regno dei corpi. La fisicità può essere un vessillo, è di certo politica ma è, prima di tutto, un dato di fatto: esiste, parla della propria identità e si relaziona con altri corpi, altre inevitabili presenze.

In quel punto di incontro, tutto si allarga, si travalicano i confini dell’epidermide e si apre lo spazio della creazione. Per questo il presente “non può bastare”: perché in ogni momento siamo noi e altro da noi. Perché la ricerca svolta da Calderoni e Caleo non sarebbe stata possibile senza il dialogo con un passato che parla della storia collettiva della comunità LGBTQ+. E perché gli interstizi per essere, semplicemente essere, sono sempre più esigui in un paese che preferisce i poteri ai saperi, e che sta scivolando in parte per inconscio, in parte per connivenza, in una monocultura asfissiante.

Dello spettacolo (che dal 5 all’8 giugno sarà in scena al Circolo Arci Angelo Mai di Roma), di utopie e di incontri, che sempre dovrebbero essere scontri, abbiamo parlato proprio con Caleo e Calderoni a ridosso di una replica di The Present Is Not Enough, avvenuta a Reggio Emilia grazie alla lungimiranza di Acid Tank, associazione e collettivo multi-disciplinare che, per dirla con un’immagine che leggerete tra poco, si ostina a non estirpare le ortiche dalla provincia, permettendo loro di crescere alte, e con radici solide.

the present is not enough silvia calderoni Ilenia caleo

Un momento di ‘The Present Is Not Enough’. Credits: Roberta Segata

Partiamo dai corpi. Come stanno, nel 2024? Li diamo troppo per scontati, pensiamo ormai di “saperli”?
Ilenia Caleo: I corpi sono fondamentali oggi, centrali, grazie anche ai movimenti queer, femministi e antirazzisti, dove il corpo, il modo in cui siamo incarnati, fa parte della questione politica. Fare attività politica oggi significa esporre il corpo, buttarlo nella mischia, lo vediamo con le manifestazioni a sostegno della Palestina, o con il movimento delle tende per il diritto alla casa. Il corpo è in mezzo, il corpo è centrale. E certo, per la nostra scena, quella della ricerca, è fondamentale. Per The Present Is Not Enough lo abbiamo eletto a nodo focale, tutto avviene sul corpo e attorno a esso. C’è un forte lavoro scenico, per vibrare a una temperatura più alta, e intendo soprattutto una temperatura interna, qualcosa che affiora, che arriva appena-appena alla superficie. E da lì passano mondi, relazioni, sensazioni. Questi corpi stanno in uno spazio e lo modificano in maniera sottile, e così si costruisce il presente, quasi come una rivoluzione utopica. Il teatro in fondo è questo, un esperimento di trasformazione.

Silva Calderoni: È vero, nel corpo accade tutto, anche quello che non accade. Per questo nello spettacolo abbiamo lavorato con dinamiche di alternanza e sottrazione, cioè: a volte usciamo dalla scena, a volte rientriamo, ma le cose continuano a succedere. Tutto nel corpo, ma non proprio tutto lì. Molto spesso abbiamo l’idea che l’epidermide sia un confine invalicabile per il corpo, ma non è così. Noi andiamo oltre, dentro e fuori continuamente.

IC: Ovviamente il corpo è anche il luogo della violenza. Lo sappiamo come donne e come donne lesbiche. È una cosa che le giovani di oggi hanno ben presente.

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Un momento di ‘The Present Is Not Enough’. Credits: Simona Diacci

Corpi che sono centrali, e politici, in un mondo digitale e smateriallizato. Che dialettiche si creano?
IC: È una questione importante. Da una parte c’è l’attivismo digitale, che accade nel gesto e nel passaggio sui social, e in un certo senso toglie responsabilità. Allo stesso tempo però il digitale e le sue risorse vengono usate proficuamente e con strategie impreviste ed efficaci. Ricordiamoci che i social e internet sono spazi privati, messi a profitto. E nonostante questo si creano delle intelligenze collettive, dei modi per piegare il mezzo a proprio favore. Penso a Facebook, a come è riuscito, in anni in cui l’aggregazione era più difficile, a chiamare all’azione, a mettere insieme le persone. Oppure oggi, con le manifestazioni a sostegno della Palestina: se avessimo seguito solo i media mainstream avremmo avuto una versione della storia. I social ne restituiscono una diversa, di solito più veritiera, seguendo le persone giuste. L’interazione che offrono è potente, e può creare onde di partecipazione. Audre Lorde diceva: bisogna usare gli strumenti dell’oppressore, reinventarli a proprio favore. In questa ottica il digitale è una risorsa positiva, si crea una relazione dinamica.

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Un momento di ‘The Present Is Not Enough’. Credits: Davide Ciriello

Il ribaltamento della prospettiva sullo strumento assomiglia al processo linguistico di creolizzazione: mi impongono una lingua straniera, io la mischio con la mia, con ciò che mi conferisce un’identità, e creo un nuovo mondo che parla per codici comprensibili a chi condivide la mia stessa esperienza. Strategia ben nota alla comunità queer, anche.
IC: È una lingua mobile, sì, è viva. Lo stesso termine queer nacque come dispregiativo e fu poi recuperato. Parole come queste sono ferite fattuali, non metaforiche, diceva Judith Butler, perché minacciano e definiscono i confini sociali di ogni corpo, ciò che può o non può fare, come deve comportarsi. Il linguaggio è un luogo e modifica il nostro corpo, questo invece lo diceva bell hooks, è performativo e affermativo, e dunque dev’essere un luogo di lotta. E, per delle artiste, anche di creazione. Quando dico linguaggio naturalmente mi riferisco a codici comunicativi che vanno oltre quelli verbali. È tutto ciò che ha il potere di ricreare il mondo da capo, di reinventarlo.

SC: Credo che sia sbagliato pensare al linguaggio come a qualcosa di stabile e fisso, lo penso oggi, ora che è un po’ che attraverso il mondo. Il linguaggio ha una natura velocissima, si modifica, cambia, si adatta. Avere questa consapevolezza mette in prospettiva tutti i finti problemi che spesso ci si fa attorno a questo o quel termine nuovo, questa o quella convenzione linguistica. Tutti stiamo dentro a questo cambiamento e lo viviamo quasi senza accorgercene, e ogni volta che cerchiamo di fermare la lingua andiamo contro il suo funzionamento. Per questo è il primo luogo in cui mettere il germe della rivoluzione. È dalla ferita che parte tutto.

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Un momento di ‘The Present Is Not Enough’. Credits: Davide Ciriello

Torniamo a quel “vibrare a una temperatura più alta”: The Present is Not Enough è più difficile per gli attori o per il pubblico?
IC: Tecnicamente non è uno spettacolo difficile, ha leggerezza, è lieve. Si è nude, ci sono immagini di archivio e salti temporali, si è esposte, si è più fragili e vulnerabili, più che su altri palchi o in altre occasioni. C’è complessità anche in questo, certo. Poi c’è una continua ricerca di contatto, libero, come un’offerta che si può scegliere se raccogliere o meno, soprattutto quando i performer rivolgono uno sguardo diretto verso il pubblico. Non sono tante le persone che siamo disposti a guardare dritte negli occhi nella nostra vita, no? Non c’è mai stata ostilità, però, qualcosa è sempre passato.

SC: È un lavoro facile e difficilissimo allo stesso tempo. C’è leggerezza, sì, semplicità. Ti costringe a prendere la via più breve, anche a costo di inciampare, perché l’inciampo può stare dentro la partitura. Paradossalmente però questo stato di semplicità e a volte immobilità non è la dimensione più naturale per una performer, e allora diventa complesso. Stare in molte sul palco facilita, è semplicissimo e difficilissimo allo stesso tempo. Poi c’è la relazione con il pubblico, che in questo spettacolo è molto forte. Tornando a quanto dicevo prima, si scavalca il limite, i corpi di chi guarda e di chi fa si mischiano.

IC: Il non-fare è una condizione scenica che stiamo ricercando molto. Per riuscirci devi lavorare tantissimo, e certo, poi passa tutto dalla tecnica. Vorremmo portare a una condizione di imprevedibilità quasi, a sporcare l’evento scenico.

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Un moment di ‘The Present Is Not Enough’. Credits: Davide Ciriello

The Present Is Not Enough mette in scena riferimenti specifici al cruising, pratica che, nell’immaginario condiviso, è solitamente associata al mondo maschile. È così? Da autrici e performer donne, e lesbiche, c’era una volontà di rilettura?
IC: Tutte e due. Il cruising è pratica della comunità gay maschile, poi naturalmente per raggiungere lo stesso scopo, ovvero scambio di prestazioni sessuali a titolo gratuito, esistono anche luoghi frequentati da donne, come i bar, eccetera. Però si parla di luoghi chiusi. Il cruising avviene all’aperto, ed era proprio l’aperto che ci interessava. Parchi di notte, parcheggi, aree sosta, luoghi abbandonati… Non abbiamo esperienze di prima mano per forza di cose, ma quegli spazi, per noi, sono spazi di violenza, da evitare, specie se di notte e da sole. Cosa diversa per i nostri fratelli maschi, anche se ora con le dating app l’esperienza si è rimodulata. Però è da lì che siamo partite.

Ci interessava questo ambiente in parte selvatico, in parte urbano, senza regole ma funzionante, a cui noi non avevamo alcun tipo di accesso pur facendo parte della comunità queer. Volevamo capire come stavano i corpi in quello spazio, come si comunica, quali cono i codici per accettare o rifiutare, come si costruisce quello spazio in termini coreografici, come accade collettivamente, e così via. Interesse che nasce anche da un’esperienza affettiva: vale sia per me che per Silvia, eravamo abituate che a un certo punto della serata i nostri amici ci salutassero, e li rivedevamo il giorno dopo con grandi racconti di parcheggi e di scopate. Quindi noi immaginavamo senza poter mettere in piedi un lavoro documentario. Questi racconti ci arrivano tutt’oggi, e volevamo innestarci un lavoro anche storico e di ricerca, per aggiungere questa componente di alterità.

Abbiamo scelto di concentrarci sui Piers di Chelsea a New York, uno spazio oggi molto trendy ma che, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, era in uno stato di abbandono, era crollata la superstrada, insomma, lasciati lì, ed erano diventati uno spazio di ritrovo per la comunità frocia e queer. Se ne stavano a prendere il sole e scopare sulle rive dell’Hudson, chissà che cosa c’aveva dentro quel fiume. C’erano artisti, era una scena di sperimentazione, e anche per questo abbiamo molto materiale fotografico che ritrae quel luogo in quel periodo. Tra questi artisti abbiamo trovato uno spirito-guida, David Wojnarowicz, molto marginale, grafico, artista visivo, dipingeva sui Piers e aveva anche un gruppo punk, abbiamo incluso un suo brano nello spettacolo, alla fine. Anche lui fu spazzato via dall’AIDS, tutta la comunità che frequentava i Piers lo fu.

Wojnarowicz in particolare divenne attivista di ACT UP [AIDS Coalition To Unleash Power, ndr], lo fu per tutto ciò che rimaneva della sua vita e disse famosamente: “quando morirò non fatemi un funerale ma buttate il mio corpo sulle scale della Food and Drug Administration”. Era un marchettaro, viveva per strada, un tossico, e allo stesso tempo una presenza artistica luminosissima. Abbiamo unito i suoi e altri materiali e abbiamo creato un collage per dire che cosa rappresentava per noi questo selvatico urbano, questo outdoor lasciato sciupare. Tutto questo per dire che no, il nostro punto di vista non era interno e che per questo diventa anche un lavoro sull’utopia.

'En Masse, Sunners Seen from Pier 45', 1982

‘En Masse, Sunners Seen from Pier 45’, (1982). Credits: Frank Hallam

Mi sembra che stiamo parlando di interstizi, i Piers lo erano, il selvaggio urbano lo è. Ce ne sono, sotto il Governo Meloni?
SC: Siamo in un periodo terrificante. Non si riesce a far molto e ciò che si riesce a fare viene chiuso, minato, messo in difficoltà e occupato dalle destre in modo estremamente lucido, con un piano di trasformazione culturale oculato. Questo sta avvenendo in spazi che prima non erano mai stati toccati, che ora vediamo svuotati di contenuti, popolarizzati nel senso deteriore del termine. Intanto, però, le ortiche, le erbe infestanti nascono ancora, nascoste agli angoli delle strade. Continuano a esserci spazi di resistenza, ok il disfattismo, ma bisogna anche guardare alle potenzialità. Noi vediamo molta fertilità nei micro-festival, nelle occasioni piccole ma con pensiero indipendente, per quanto agiscano a gittata più vicina. Bisogna tirar fuori una cassetta degli attrezzi diversa. Di luoghi interstiziali ne esistono ancora, qui a Roma al Pigneto, per esempio, il Fanfulla. A parte questo, il resto è monocultura. La terra non riesce più a generare ciò che generava prima, le nostre istituzioni sono gestite in modo quasi amatoriale da chi non ha saperi ma solo poteri.

IC: Esatto. Per questo siamo contente che da qualche mese si sia attivato un percorso di mobilitazione di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo, si chiama “Vogliamo Tutt’altro”, è molto vivo a Roma ma anche per esempio a Bologna e in Sardegna, mentre a Milano le Scuole Civiche sono in mobilitazione. Il sistema culturale in Italia è al collasso, la precarietà è altissima, si riesce a lavorare poco e male, non ci sono né finanziamenti né idee o visioni. E poi, nel nostro momento storico non possiamo far finta che queste rivendicazioni non si uniscano alle lotte e alle manifestazioni per ciò che sta avvenendo in Palestina. Vogliamo e bisogna parlare di Palestina, delle atrocità che si stanno compiendo contro il popolo palestinese e delle politiche che lo permettono, sia dall’interno di Israele che sul piano internazionale, Europa compresa. Sono tempi bui, ma ci sono delle luci.

Nella bolla culturale invece su questi temi siamo tutti (o quasi) d’accordo. Come si fa a uscirne? Come si fa a tirare altre persone dalla propria parte?
IC: La bolla deve tornare a organizzarsi. Bisogna creare delle reti, organizzare dei collettivi, ramificare, fare micorrize come i funghi. Servirà del tempo, e qui torniamo ai corpi che devono incontrarsi. Bisogna interconnettersi e soprattutto imparare a non avere paura del conflitto, che è linfa vitale anche all’interno della propria squadra. Dobbiamo tornare a scazzarci tra di noi. Perché questi incontri ristrutturano le relazioni tra le persone. L’ho visto in università: gli studenti sono entrati in mobilitazione per la Palestina, io e altre colleghe abbiamo messo a disposizione le nostre ore per confrontarci sul tema e sono nate relazioni diverse, pensieri diversi, abbiamo scardinato la situazione. Quindi la bolla non basta nel senso che bisogna organizzarla.

SC: Sicuramente chi si trova su un palco in questo momento, che ha pubblico, o che anche sulla rete ha seguito ampio, ecco, ha una nuova responsabilità. Più pubblico hai, più responsabilità hai. Il numero dei follower di Instagram non dovrebbe essere un beneficio e basta. Forse per uscire dalla bolla dobbiamo pensarci così come artiste e artisti, partire da quel numero per costruire un discorso. La nostra è una lotta privilegiata d’altronde, rispetto per esempio a quelle dei rider che faticano molto di più ad arrivare ai microfoni. Abbiamo delle risorse e non le sfruttiamo ancora appieno.

Shelley Seccombe, 'Sunbathing on the Edge, Pier 52', 1977

‘Sunbathing on the Edge, Pier 52’ (1977). Credits: Shelley Seccombe

Vorrei chiudere con una domanda che parte dall’esperienza di Silvia. Anni fa, quando portavi in tournée MDLSX [produzione Motus, adattamento di Middlesex di Jeffrey Eugenides, ndr], un articolo del Guardian titolò così la sua recensione dello spettacolo: Perché sentiamo il bisogno di sapere con esattezza il sesso di quest* performer? Pensi che il tuo corpo ti preceda, in un qualche modo? Per allargare la domanda: siamo ancora ossessionati dal dover categorizzare, chiudere le persone dentro schemi interpretativi rassicuranti al primo sguardo?
SC: Sì, io credo che questa ossessione sia reale, che continui a esserci. Ormai sono allenata e riesco a leggerlo negli occhi di chi lo fa, senza giudicare, ma capisci che certe persone ce l’hanno culturalmente, questa cosa, nello sguardo. Devono mettere tutti i tasselli in fila: questa persona, questo colore, questo sesso, altrimenti vanno nel panico. Allo stesso tempo è cambiato nel tempo: io sono una figura un po’ a cavallo, nel senso che come tante e tanti sono stata queer prima della parola queer, e sono stata queer ancora prima di considerarmi tale. Ho scoperto di esserlo che già lo ero, e in questi ultimi vent’anni ho visto che la nostra ossessione per i corpi si è rimodulata. Sono cambiate le corporeità, sono cambiate le parole che usiamo, c’è stata una riappropriazione molto forte, sia linguistica che nello sguardo, da parte della comunità. Come a dire: ok, tu mi vedi così, ma io son qui e ti dico chiaro e tondo come voglio esser chiamata. La differenza in questo senso è abissale. Per fare un esempio, credo che oggi il Guardian non rifarebbe quel titolo, che risale a dieci anni fa. E però, allo stesso tempo, con quel titolo dieci anni fa anticipavano dei temi, mettevano un punto su argomenti fondamentali. Ma, per tornare alla mia figura di transito, credo di potermi vedere sia come una “mother of the house” per i piccoletti e le piccolette, sia come una delle prime, all’interno del mio mondo, ad aver detto che ero lesbica senza farne un vessillo. Lo ero, lo sono, punto e basta, fa parte di me. Sono una figura di inceppo, ho un piede nel passato e uno nel futuro.

Ilenia, vuoi aggiungere qualcosa sul tema?
Le ragazze si baciano affettuosamente.

*The Present Is Not Enough è un progetto di: Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, con: Giacomo AG, Tony Allotta, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Gabriele Lepera, Fedra Morini, Ondina Quadri. Suono: Gabor + SC. Cura e produzione: Elisa Bartolucci. Consulenza drammaturgica: Antonia Ferrante, e moltx amicx* praticanti. Co-produzioni: Azienda Speciale Palaexpo – Mattatoio | Progetto Prender-si Cura, Kampnagel (Hamburg), Kunstencentrum Vooruit vzw (Ghent), Motus Vague. Con il supporto del progetto residenze coreografiche Lavanderia a Vapore (Torino).