Rocco Tanica, breve dialogo sull’umorismo e i suoi meccanismi | Rolling Stone Italia
Stupore e intrattenimento

Rocco Tanica, breve dialogo sull’umorismo e i suoi meccanismi

La riedizione di ‘Scritti scelti male’, la partecipazione a ‘LOL 4’, gli Elii, gli articoli rifiutati da Rolling Stone (mhmm), le battute cattive e la sensibilità altrui: intervista a uno a cui piace da matti far ridere la gente

Rocco Tanica, breve dialogo sull’umorismo e i suoi meccanismi

Rocco Tanica

Foto: La Nave di Teseo

L’eco si è smorzato appena, direbbe il poeta riferendosi alla lunga coda di risate successive a Non siamo mai stati sulla Terra, esilarante esempio di co-writing tra intelligenze artificiali e umane. Per la seconda categoria, a rappresentare la specie Homo Sapiens era stato Sergio Conforti, in arte Rocco Tanica, «risposta italiana alla domanda: “Come ti chiami?”» (cit.) che ha appena ripubblicato per La Nave di Teseo i suoi Scritti scelti male. L’esordio letterario del 2008 ne esce rivisto e aggiornato, con il 15% di inediti rispetto ai libri tradizionali; anzi, «fino al 15% in più», sottolinea l’autore scongiurando le accuse di pubblicità ingannevole (tra i contenuti, anche una selezione di «articoli rifiutati da Rolling Stone»).

Se mai ce ne fosse bisogno, l’uscita in libreria e il recente annuncio della sua partecipazione al prossimo LOL offrono l’occasione per una nuova conversazione con Rocco, una breve rassegna sullo stato dell’arte della comicità nell’epoca del politically correct. Breve ma intensa, direbbe sempre lo stesso poeta.

Per prima cosa, ci tengo a dirti: «Ehi, pazzesco il ribaltamento nel tuo libro».
Oh, finalmente qualcuno che mi dà soddisfazione!

E dopo questo riferimento telefonato — che soltanto chi leggerà Scritti scelti male fino a pagina 156 saprà cogliere — potremmo continuare parlando dei tuoi «articoli rifiutati da Rolling Stone». Mi hanno appassionato molto le interviste a Janis Joplin e a Mark Chapman, potremmo riproporle in redazione…
Sì, è un peccato che siano state respinte, perché danno una differente visione dei fatti. Sai, nel caso di Chapman siamo sempre tutti pronti a condannare, a dire che se l’è cercata, invece era tutta una questione di uncinetto (spoiler, ndra). Bisogna sempre conoscere i fatti.

Ora una domanda leggermente più seria. Qual è stato il tuo approccio alla riscrittura nel riprendere un libro di 15 anni fa? E quali evoluzioni nel frattempo sono intercorse nel Rocco Tanica scrittore?
Sono partito dalla convinzione – erronea – che quel libro fosse ineccepibile, ne serbavo un ricordo piuttosto differente da quello reale, un po’ come le vacanze d’infanzia che probabilmente non erano state così epiche e gloriose come ce le ricordiamo. Quando poi l’ho riletto sono rimasto stupito da quanto la mia prosa fosse differente allora: ricordavo una scrittura più fluente, matura, organizzata, e mi sono chiesto se quelle pagine richiedessero nuove e particolari attenzioni. Non mi ero mai occupato di revisioni, riscritture e cose del genere, ma non mi interessava fare come per i remaster riassemblando lo stesso materiale e dandogli una lucidata, non sarebbe bastato. Ma c’era comunque parecchio buon materiale da nobilitare, modificando piccole cose come le “d” eufoniche in eccesso… anche se me n’è scappata una in una poesia, maledizione!

Vabbè, in quel caso puoi sempre dire che è una licenza poetica…
Sì, ma attenzione, perché come dice Faso la licenza poetica può essere revocata dalle autorità competenti.

Quali altri interventi di editing hai ritenuto necessari?
Ho ripulito a fondo la punteggiatura, un po’ perché a volte era ridondante, un po’ perché certi periodi ci avrebbero guadagnato in chiarezza e senso. Nei 15 anni passati dalla prima edizione ritengo di aver acquisito un po’ di astuzie da scrivano, chiamiamole così. In certi casi si è trattato di una sorta di restauro, in altri ho ricostruito interi paragrafi, in quelli più estremi ho escluso del tutto alcuni racconti… Nella prima edizione c’era un pezzo in cui spiegavo come la morte di Elvis fosse stata provocata da una nostra scommessa, da lui tragicamente vinta, a chi ingeriva più cibo. Ma era troppo simile a quelli su John Kennedy (“Nocivo patatrac”) e su Charles Manson e la strage di Bel Air. C’erano molti pezzi fondati su un mio — presunto — senso di colpa per l’epilogo tragico di famosi accadimenti storici; nella nuova edizione si sono ridotti a due.

 

 
 
 
 
 
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In generale, mi sembra che la tua unità di misura sia sempre il racconto, coerentemente con quanto ti accade in musica con la forma canzone. Entrambi mi sembrano i luoghi deputati ai tuoi esperimenti con i generi, sia musicali sia narrativi. Come definisci il tuo giocare con le loro norme espressive, fino a ottenere i ribaltamenti di cui sopra?
Parto sempre da due valori, che almeno io ritengo tali: stupore e intrattenimento. Alla musica e alla letteratura, così come allo spettacolo e al cinema, chiedo di essere stupito e intrattenuto. Con Elio e le Storie Tese abbiamo cercato di perseguire questo obiettivo con le canzoni, facendo slalom tra forme musicali, caratteri e argomenti per avere varietà. Varietà nel senso di eterogeneità del materiale ma anche di intrattenimento leggero, come la vecchia tv del sabato sera. È ciò che cerco quando vado al cinema o a teatro, ed è lo stesso quando scrivo: anche se si tratta di una storia seria, tragica, cerco sempre di lasciare uno spiraglio di ottimismo… salvo quei rari momenti in cui cado nel baratro e bevo tutto l’amaro calice sperando in un antidoto successivo. Una cedrata dopo il fiele, diciamo.

Ma in questo io ci vedo una tecnica cosciente, che non mi pare molto diversa dagli accostamenti inconsueti dei surrealisti…
I cadaveri eccellenti?

Esatto, o il celebre incontro tra l’ombrello e la macchina da cucire.
Sono convinto che creare un precedente apra la strada a migliaia di possibilità. Ritornando alla musica, tante volte con gli Elii ci dicevamo: «Cavoli, questa citazione, questa parodia di genere, questo riferimento è bello ardito, come verrà accolto?» e la risposta era: «Non importa, intanto facciamolo. Una volta registrato costituirà un precedente». Se nessuno prova nessuno riesce… ovviamente alla base c’è un accurato lavoro di selezione, sia per le canzoni sia per la pagina scritta. Ho fatto anche esperimenti più arditi, poi mi sono detto: forse è troppo ardito…

Per esempio?
Avevo iniziato a scrivere un manuale di cucina cannibale, con riferimenti all’Artusi e a Suor Germana, andando a rivisitare alcune ricette classiche, come il timballo di uomo. Avrei avuto bisogno di un editore coraggioso. E anche di assaggiatori volenterosi. E di volontari per il timballo. Troppo traffico, forse.

Stupendo, potrebbe diventare per te quello che per Moretti è il film sul pasticcere trotzkista. Ma in questi 15 anni hai scoperto anche nuovi modelli oltre a Calvino, Maurizio Milani e Daniil Charms, da te spesso citati?
Nel 2008 non avevo ancora letto Roald Dahl, l’ho scoperto solo intorno al 2014-’15, ma non saprei dirti se nei miei nuovi scritti se ne rinvengono tracce, come per gli allergeni. In generale le cose che mi hanno colpito da giovane sono ancora i miei riferimenti, considerando che sono un lettore pigro. Se mi chiedi quale giovane autore prediligo ti rispondo che i giovani hanno rotto il cazzo! Non lo dico perché sono anziano, lo dicevo già a 16 anni, sono un vecchio al di sopra di ogni sospetto.

 

 
 
 
 
 
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Allora, la domanda successiva — sulle tendenze della comicità contemporanea — la riformulo diversamente, parafrasando Frank Zappa: does humour belong to humour?
Mi sembra che il trend dominante sia quello della stand-up comedy che cerca di emulare gli americani e i britannici più cattivi. Il problema è che di Ricky Gervais ce n’è solo uno. Facciamo due o tre, ma la maggior parte è deceduta. Puoi portare argomenti aspri, scoscesi, in grado di sorprendere, disgustare, scandalizzare, ma devi avere una selezione di materiale talmente ampia e potente da parare qualsiasi obiezione. Per farti un esempio: quando Gervais dice «retarded», che da noi potrebbe equivalere all’offensivo «mongolo» in uso nel lontano secolo XX, sa che deve avere una battuta così forte, esilarante e gloriosa da divertire anche il destinatario della battuta o qualcuno sensibile a quella tematica. Se serve solo a provocare gratuitamente, senza riscatto, non ha senso. Se rido per una battuta sull’aborto, la decomposizione del nonno morto — peggio ancora, vivo — o l’Olocausto, argomenti non propriamente leggeri, è perché riconosco al suo autore agilità di parola, ricchezza di vocabolario e capacità di sintesi. Altro esempio, se pubblicabile: detesto le bestemmie, ma rimango rapito dalla blasfemia creativa, che non implica volgarità esplicite: ho sentito un oste in Val di Chiana dire «Dio schiodacristi» e non ho potuto trattenermi, mi sono complimentato per l’ampiezza del ragionamento. Perché implicava un’iniziativa — la schiodatura — ripetuta nel tempo, a beneficio di soggetti diversi. Politeismo pagano senese.

Su questo argomento i miei anni in Toscana sono stati un vero e proprio master, ho ricordi commoventi… Ma è lo stesso criterio per il quale, condividendo il codice di partenza, possiamo “permetterci” di ridere quando gli EelST apostrofano i “ricchioni?”.
Sì, secondo me è lo stesso principio. Citando ancora una volta Gervais, si tende a confondere l’attore con il personaggio interpretato. Se io sono qui per fare commedia e faccio una battuta sul bambino malato terminale, questo non mi trasforma nell’essere umano disgustoso — io spero non esista — che andrebbe realmente a prendere in giro un bambino morente. Sto recitando una parte, dico di averlo fatto per provocare una reazione, ma quell’evento non è accaduto. Fine della storia.

Eppure questo slittamento tra attore e personaggio, stranamente, è molto più ricorrente nel campo umoristico che non in qualsiasi altro genere narrativo.
Citando per l’ennesima volta Ricky Gervais, non vai mica da Anthony Hopkins a dirgli: «Tu mangi le persone!». Lui ti risponderebbe che ha soltanto interpretato un film in cui il suo personaggio è un cannibale. «Sì, però sembri il tipo che le mangerebbe davvero»… questo è un po’ l’andazzo.

Restando in tema di comicità, come stai affilando le armi per la tua partecipazione a LOL 4?
Sto facendo un allenamento preciso. Consiste nell’espormi il più possibile alle battute mentre sto facendo altro. Tengo in sottofondo i canali di comedy per essere preso alla sprovvista e cercare di trattenere le risate. Il problema è la battuta che ti travolge… per esempio Abatantuono, che sarà tra i concorrenti, è capace in una qualsiasi conversazione al ristorante di farmi rovesciare addosso la minestra. E magari sto mangiando altro (questo era un tentativo di battuta). Sto cercando di allenare i muscoli facciali a restare impassibili. Una confessione: sono felice che Toni Bonji, attuale punta di diamante del GialappaShow, non sia nel cast. A lui non riesco a resistere.

 

 
 
 
 
 
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Per concludere, senza voler riaprire gratuitamente il discorso sulla depressione, vorrei chiederti se il percorso psicanalitico ti ha mai portato a individuare tracce di determinate situazioni psicologiche nelle tue opere, tanto musicali quanto letterarie.
Esistono forse uno o due casi in cui il mio stato d’animo alterato aveva influito sul materiale; per il resto, quando ero depresso non scrivevo, oppure scrivevo materiale di segno opposto. Esiste una sola canzone che esprimeva l’attimo in corso, Il circo discutibile, scritta in origine per Fiorello e poi incisa dagli Elii. Quella canzone lì rappresenta il periodo più buio. Forse però è vero piuttosto il contrario: quando ho iniziato a stare decisamente meglio sono scaturite molto più fluidamente centinaia di pagine, come per Lo sbiancamento dell’anima, e mi piaceva assistere al loro progredire. Nel frattempo avevo imparato a togliermi di dosso l’idea — particolarmente presuntuosa — che il destino del mondo e la sorte delle persone ricadessero sulle mie spalle. La psichiatra mi ha fatto riflettere su qualcosa che non avevo mai considerato: non ero un essere umano indispensabile allora, non lo sono adesso. Paradossalmente, vedere che dopo il mio ritiro dalle scene Elio e le Storie Tese facevano comunque faville, forse più e meglio di prima, non è stato motivo di smarrimento ma di conforto.

In più, da quando ho iniziato a riemergere dal baratro, molte persone mi hanno detto e mi dicono ancora: «Anch’io mi sono trovato nella tua situazione, ho letto l’intervista in cui ne parlavi, ho provato a fare analisi, leggo i tuoi libri e mi consolo». È stata una cosa meravigliosa, e da quel momento far ridere è diventata una sorta di missione. A volte sono lì, come l’altra notte, a fare cose per niente urgenti come creare con l’intelligenza artificiale un’immagine di Mick Jagger al femminile e mi dico: «Cazzo, sono le 3, potrei anche andare a letto». Ma poi penso: «Ma sai che bello se qualcuno domattina alle 7 si sveglia e si fa due risate con questa cazzata?».

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