Pierluca Mariti ha scelto di abbandonare una carriera “seria” in una multinazionale per buttarsi nella stand-up comedy con il coraggio di chi ha molto da dire, anche se tanto da perdere. Ma oggi, con il suo spettacolo Grazie per la domanda, che torna nei teatri dal 28 maggio, è uno dei volti più lucidi e provocatori della comicità italiana, dai social ai live, capace di parlare con leggerezza di tematiche come la precarietà, gli stereotipi di genere e il rapporto con la famiglia. «La mia forza? Non provare l’imbarazzo che proverebbe chi mi guarda», dice con una sicurezza disarmante. E mentre il pubblico ride, Pierluca smonta e ricostruisce, sempre con il sorriso, quella tensione sociale che attualmente sembra una costante.
Forse perché non è solo un comico: è un osservatore che sa quanto sia importante «non vergognarsi delle proprie nevrosi generazionali», affrontando a muso duro le domande inopportune e quelle etichette sociali che ci definiscono. Dal suo passato in Ikea ai social con il nickname di @piuttosto_che, passando per la terapia che considera «uno strumento creativo», ci racconta di come è riuscito a trasformare il lavoro da consulente in quello di comico, come ha superato l’iniziale scetticismo familiare e come, a distanza di anni, vede il mondo dei social che l’hanno lanciato: «Se un treno passa, ci devi salire». E ora, con il tour che parte il 28 maggio, è pronto a far ridere ancora, ovunque, senza mai smettere di riflettere. Persino in giro per l’Europa: sono già sold-out le date di Londra, Bruxelles e Barcellona.

Foto: Sara Sabatino
Pierluca, da uno che come te porta il fardello di avere un doppio nome, quante volte al giorno la gente sbaglia il tuo nel pronunciarlo?
A me tutti i santi giorni. Una gag simile è anche parte integrante del mio spettacolo. Anzi, più che sbagliare il secondo nome, non mi chiamano proprio Pierluca. Mi chiamano Gianluca o in mille altri modi. Quando hai un nome composto come noi, le possibilità si moltiplicano in modo esponenziale. Quindi ormai non mi meraviglio più di niente. E siccome la mia capacità di affrontare il conflitto è molto bassa, raramente arrivo a correggere chi lo sbaglia.
Facciamo un passo indietro per conoscerti meglio. Prima di diventare comico e l’attività social, lavoravi in una multinazionale. Un lavoro “serio”. Poi cos’è successo?
Se il lavoro era serio, io non lo ero moltissimo. Non che fossi un cattivo professionista, per carità, ma la mia fortuna è stata l’essere già simpatico. Ero bravo a fare presentazioni, a spiegare le informazioni ai gruppi e a ispirarli. Lavoravo in un’azienda moderna come Ikea, molto rilassata e informale, e questo mi ha permesso di costruire un certo tipo di percorso. Ci sono finito per caso, scappando da Giurisprudenza perché non volevo diventare avvocato.
E poi?
Durante il Covid, l’azienda ci ha proposto di rappresentarla sui social. Io non avevo mai fatto video, neanche in privato, quindi ho deciso di esercitarmi sul mio profilo, che aveva bene o male 500 follower. E poi ci ho preso gusto. Anzi, devo veramente ringraziare Ikea per avermi dato quell’input inaspettato. Da lì è partito tutto e ho sviluppato davvero la mia passione.
Nessun rimpianto?
Non amo molto i rimorsi e i rimpianti. Anche se ho scelto una facoltà che non volevo fare, alla fine ho trovato la mia strada. In realtà all’inizio volevo fare l’Accademia d’arte drammatica. Poi, in modo rocambolesco, sono finito a lavorare a teatro. Quindi anche quell’esperienza aziendale, che è durata cinque anni, me la tengo ben stretta.
Certi contesti aziendali insegnano tanto a livello comico, Paolo Villaggio docet.
Esatto! La vita d’ufficio e il lavoro a contatto con il pubblico sono fonti di grande ispirazione. Ho lavorato sia negli uffici che nei negozi e in varie parti d’Italia, per cui è stato tutto materiale utile a finire in seguito sui social e negli spettacoli. All’inizio raccontavo certe cose solo ai colleghi, tra grandi risate, ma già loro mi spingevano: “Tu dovresti fare il comico!”. E alla fine li ho ascoltati.

Foto: Sara Sabatino
Quando hai detto in famiglia o agli amici che avresti lasciato un lavoro sicuro?
Per mia madre è stato quasi un tradimento. Lei aveva un rapporto affettivo con la mia azienda. Vengo da una famiglia di dipendenti pubblici, principalmente professori. Quindi per loro il posto fisso è sacro. Anche i miei amici, per quanto mi sostenessero, mi dicevano: “Ma sei sicuro?”. Finché sono riuscito a fare entrambe le cose ho proseguito in quel modo. Poi è stato necessario prendere una decisione e ho compiuto il salto, con uno slancio di coraggio. Forse sono stato un po’ avventato, ma quando vedi che un treno sta passando ci devi salire. Alla fine la scelta mi ha reso felice. E questo ha rassicurato anche le persone intorno a me.
Visto che tutto è partito durante la pandemia, ti chiedo: ne siamo usciti davvero migliori, come si diceva?
Non lo so, a me sembra che di certo ne siamo usciti più acciaccati. Abbiamo messo in discussione molte regole del passato, e questo è un bene. Ma poi ci siamo abituati a un ambiente pieno di cattive notizie e di tensione. Durante la pandemia, paradossalmente, c’erano più spensieratezza e speranza. Adesso si sono perse. In particolare sui social.
Qual è il tuo rapporto con gli haters, sempre che tu ne abbia?
Fortunatamente non ne ho mai avuti molti. Probabilmente non ho mai neanche avuto un tale successo da attrarre una vera schiera di haters. Ma bastano anche due o tre commenti violenti per farti male. Spesso non è dissenso, è prendere sul personale. Ho imparato a tenere una distanza. Rispondo sempre con leggerezza. È difficile prendersela con chi è autoironico.
Per raggiungere certi risultati, quanta percentuale c’è di talento e quanta di studio?
Sicuramente c’è una dose di casualità, che non voglio chiamare fortuna, ma una serie di coincidenze che funzionano insieme. Poi c’era da parte mia una decisa inclinazione personale verso questo tipo di lavoro. A me è sempre piaciuto stare su un palco. Quindi anche quel tipo di talento, o predisposizione naturale, lo metto nel conto. Però c’è anche tanto lavoro, tanta preparazione. Ho fatto corsi di teatro, corsi di scrittura comica. Sono strumenti fondamentali.
Quindi un po’ di studio aiuta, no?
Credo che la chiave, quella che mi ripeto prima di salire sul palco, è che la mia forza sta nel non provare quell’imbarazzo che la maggior parte delle persone nel pubblico proverebbe. C’è una sottile linea tra chi osserva e chi è osservato, e io riesco a superare quell’imbarazzo. Ho tanti amici simpaticissimi che, per fortuna mia, sono timidi. Se no mi ruberebbero il lavoro.

Foto: Sara Sabatino
Nel presentare sui social il tuo spettacolo Grazie per la domanda, ho visto che in un reel sostieni quanto suoni meglio dire «vado in terapia». Ti ha aiutato davvero?
Sì, assolutamente. Fino ai 35 anni non avevo mai fatto terapia. Devo dire che ne sono diventato un grande sostenitore, più di quanto lo fossi prima. Non l’ho mai screditata, ma non l’avevo frequentata fino ad allora. Invece ti aiuta a maneggiare le domande che ti fai, le emozioni che provi. E nel processo creativo. Ti dà spunti, perché io parto sempre da me stesso. Il primo bersaglio della mia comicità sono io, quindi è difficile offendere gli altri. E conoscersi a fondo permette di vedere tante angolazioni. Il mio terapeuta mi dice: «Ok, ma non mi devi far ridere, andiamo avanti». A volte mi scappa la battuta anche in seduta.
C’è una cosa che hai scoperto di te stesso durante questo nuovo tour?
Che non ci si sente mai pronti. Io tendo alla perfezione, il che significa che a volte non riesco nemmeno a iniziare un lavoro. Ho imparato a lasciar andare, a chiedere aiuto, a confrontarmi con gli altri di cui mi fido. C’è un detto inglese, “kill your darlings“, cioè taglia quello che ami se non serve al racconto. Ecco, imparare a tagliare è fondamentale.
Nel tuo spettacolo, tratti le domande inopportune. Quali sono le peggiori?
Difficile fare una classifica. In generale, avevo creato un format per alleggerire ed era basato su domande di affari di cuore o personali a cui io rispondevo con ironia. La battuta non serve solo a far ridere, ma anche ad alleggerire un peso. Spesso ci vediamo come vittime di grandi congiure, ma magari basta semplicemente una risata e si riesce a ripartire.
Parli anche del rapporto genitori-figli, dei bambini che diventano “gormiti” nella pubertà e dei giochi sempre più radical chic comprati dai genitori.
Sì, inevitabilmente, perché adesso i miei amici iniziano ad avere figli, ma al tempo stesso siamo ancora figli dei nostri genitori. Viviamo su un doppio binario. E molte delle mie discussioni con mia sorella iniziano così: «Sembri mamma quando parli».
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Non mancano poi gli stereotipi di genere. Il più assurdo del 2025?
Mi dà fastidio quando si distingue la comicità in generale da quella femminile. Nessuno dice “un comico uomo”. E poi ci sono stereotipi sugli uomini che mi piace decostruire. Come per esempio che «i veri uomini non piangono». Credo sia un lavoro rompere queste gabbie.
Ma nella stand-up, secondo te, si può scherzare su tutto?
Se sai fare bene una battuta, puoi farla su tutto. Conta il contesto. A teatro non ti indigni se Edipo uccide il padre, perché conosci il contesto. La comicità esorcizza, rompe la tensione. Ma bisogna saperla fare. Se si ricorre a ragionamenti retrivi, non si va da nessuna parte.
Ti è mai capitato un episodio spiacevole legato all’orientamento sessuale?
Una volta, dopo uno spettacolo, un ragazzo mi ha detto che non aveva apprezzato una battuta sull’Inno d’Italia, che volevo sostituire con T’appartengo di Ambra Angiolini. Ero ironico, chiaramente. Ma bisogna saper distinguere. Sull’orientamento sessuale, credo che l’Italia abbia ancora molta strada da fare. Mancano leggi su omofobia e transfobia. E guardiamo a Paesi come l’Ungheria dove si vietano i Pride. Non possiamo dare nulla per scontato.
Dopo tante battaglie per i diritti, come mai molti votano per partiti che vanno nella direzione opposta?
Siamo in un periodo di forte tensione sociale. Quando c’è paura, si tende al conservatorismo. Mi piacerebbe un dialogo meno polarizzato, più rilassato. Spesso i problemi veri vengono nascosti da capri espiatori come la teoria gender o gli stranieri. Spero sia una fase passeggera.
E a chi insiste nel voler pronunciare in pubblico frasi come “frocio” e “negro” in nome della libertà di parola, cosa diresti?
Penso che si descrivano da soli. Non sono un fanatico della lingua corretta a tutti i costi, nonostante il mio nickname. Ma chi usa certe parole mostra chiaramente il proprio pensiero. Che non è altro che un pensiero egoriferito e senza nessuna empatia. Non servono i divieti per queste persone, ma l’ascolto. Si può dire tutto, ma perché non ascoltare, ogni tanto?

Foto: Sara Sabatino
Tra qualche anno ti vedi ancora a raccontare la tua generazione?
Questa è una domanda da colloquio! Io non so nemmeno cosa farò tra qualche giorno. Il racconto generazionale credo che continuerà, perché crea dialogo ed è quello che più mi interessa. Poi mi piacerebbe anche interpretare qualcosa scritto da altri. Non direi no al cinema. Ma il teatro dal vivo mi riempie. E poi crescere e imparare cose nuove, questo sì.
Intanto il 28 maggio parte il tuo tour, grazie al quale ti esibirai anche in Europa.
Sì, parto per un bel giro: Londra, Parigi, Amsterdam, Berlino, Bruxelles, Barcellona. L’ho già fatto col primo tour, ed è stato bellissimo. Anche perché, non bisogna dimenticarlo, gli italiani all’estero non vedono l’ora di vedere qualcosa in italiano. E i social portano ovunque.
Ci hai mai pensato di provare il salto con la comicità in inglese e in spagnolo?
Assolutamente sì, perché parlo bene sia l’inglese che lo spagnolo. Quando vado in Spagna o Inghilterra, faccio i primi dieci minuti in inglese o spagnolo. Loro si sorprendono, ma si divertono. Poi, certo, c’è la paura del perfezionismo. Ma un pezzetto alla volta, ci arriverò.