Peter Schneider: «Il muro di Berlino è caduto 30 anni fa, ma nella testa delle persone c’è ancora» | Rolling Stone Italia
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Peter Schneider: «Il muro di Berlino è caduto 30 anni fa, ma nella testa delle persone c’è ancora»

Che cosa ha significato vivere all’ombra della cortina di ferro? E quali sono le conseguenze che ci portiamo dietro? Ne abbiamo parlato con l'autore de 'Il saltatore del muro’, il libro che raccontò il coraggio delle persone che sfidarono i divieti per provare a essere liberi

Peter Schneider: «Il muro di Berlino è caduto 30 anni fa, ma nella testa delle persone c’è ancora»

Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. Sono trascorsi 30 anni da quando milioni di persone si riversarono per le strade della città tedesca per festeggiare il crollo della barriera di cemento e filo spinato fatta costruire all’inizio del 1961 dal governo della Germania Est: per i berlinesi e per l’Occidente in generale quell’accadimento segnava il trionfo della democrazia sul totalitarismo. Ma quegli stessi berlinesi si lasciavano alle spalle un periodo altrettanto lungo – 28 anni – in cui si erano ritrovati a vivere in una città divisa: da un lato Berlino Ovest, enclave della Repubblica Federale di Germania legata alla Nato, d’influenza americana; dall’altro Berlino Est, capitale della DDR o Repubblica Democratica Tedesca sotto l’influenza dell’Unione Sovietica.

Che cosa significava vivere in un contesto simile, all’ombra della cortina di ferro frutto della Guerra Fredda e della contrapposizione tra due blocchi geo-politici tra loro opposti? Storici e studiosi hanno provato a rispondere a questa domanda. Tra questi Peter Schneider, scrittore e intellettuale di Lubecca, classe 1940, approdato a Berlino Ovest negli anni 60, che nel 1982 pubblicò “Il saltatore del muro”, romanzo con elementi del saggio e del reportage, incentrato sulle storie di alcuni cittadini passati da una parte all’altra del Muro illegalmente, in entrambe le direzioni, per le ragioni più svariate: per incontrare la persona amata, per andare al cinema e godersi i film prodotti a Hollywood, per aggirare una separazione percepita come un’imposizione. Da giovedì 7 novembre il libro è disponibile in una nuova edizione targata La Nave di Teseo, per l’occasione abbiamo intercettato lo stesso Schneider.

«Ci vorrà più tempo per eliminare il muro dalle nostre menti di quello impiegato da qualsiasi società di demolizioni per abbattere il muro che possiamo vedere», scriveva profeticamente lui che all’ombra di quella barriera artificiale di 155 chilometri era stato un esponente di spicco del movimento studentesco socialista del ’68, contrario tanto all’economia capitalista di stampo americano quanto alle derive autoritarie e liberticide del regime della DDR. Parole, le sue, che anticipavano come anche dopo la caduta il Muro avrebbe continuato a plasmare la mentalità delle persone che ne avevano vissuto le conseguenze sulla propria pelle. E a condizionare ogni analisi del processo di riunificazione della Germania, riunificazione che fu ufficializzata il 3 ottobre 1990 e che dopo tre decenni non si può ancora definire del tutto riuscita. Lo ha ammesso di recente persino Angela Merkel: «L’Est è ancora povero, mentre l’Ovest è ricco. La riunificazione tedesca è un processo ancora non completo». E Schneider, pur da una prospettiva distante da quella della cancelliera, concorda.

Che cosa premeva raccontare quando scrisse “Il saltatore del muro”?
In quel periodo, nei primi anni 80, a Berlino Ovest non si parlava quasi più del Muro. Era diventato una consuetudine e anche negli ambienti della sinistra entrava nei discorsi solo ogni tanto: appena si toccava l’argomento si veniva accusati di stare dalla parte del regime della DDR. A me sembrava ridicolo, perciò decisi di raccogliere le storie di coloro che erano passati illegalmente da una parte all’altra della barriera: dal mio punto di vista i “saltatori” erano degni di attenzione in quanto gli unici a ribellarsi a quel confine artificiale. C’era chi li considerava pazzi, io li ritenevo i più normali di tutti.

Dove si trovava il 9 novembre 1989?
Non a Berlino, mi trovavo negli Stati Uniti per lavoro. Ci tornai quattro settimane dopo, la città era ancora in festa, si respirava un’euforia unica che non ho mai più sperimentato in vita mia. Del resto, ci trovavamo di fronte a un simbolo universale: il muro che si apriva, che si squarciava, che crollava, rappresentava la vittoria della democrazia, della libertà.

Lei, però, ha coniato l’espressione ‘Il muro nella testa’ proprio per dire che anche dopo il crollo il Muro avrebbe continuato a condizionare i pensieri dei singoli individui.
La mia era una risposta alla retorica con cui si sosteneva che dopo la caduta del Muro i tedeschi sarebbero stati tutti fratelli. Com’era possibile che ciò accadesse dopo quasi 30 anni di separazione durante i quali due parti della popolazione tedesca avevano vissuto sotto due sistemi completamente diversi sotto il profilo economico e politico?Il capitalismo occidentale da un lato e il socialismo sovietico dall’altro avevano favorito lo sviluppo di due culture profondamente differenti. Prevedevo, per esempio, che di fronte a una protesta di piazza a Kurfürstendamm un ragazzo dell’ex Berlino Ovest avrebbe reagito con entusiasmo considerandola un segno della libertà di espressione, mentre un suo coetaneo cresciuto a Berlino Est sotto il controllo della Stasi e la censura di ogni forma di dissenso non avrebbe interpretato quella stessa protesta come un moto spontaneo, ci avrebbe visto qualcosa di controllato dalla polizia. Perché il muro nella testa è più stabile di quello di cemento.

Crede sia così ancora oggi, a 30 anni dalla caduta?
Più di quanto potessi immaginare. Credevo che nel giro di una generazione certe differenze sarebbero scomparse, ma non avevo calcolato che bambini e giovani sono attorniati da genitori, nonni, bisnonni, zii, parenti, adulti che tramandano loro una determinata visione di quanto accaduto: la loro visione. Motivo per cui il flusso della storia persiste molto più a lungo della vita di una generazione.

E con esso i paradigmi con cui la analizziamo, la storia. Prima ha detto che per la sinistra tedesca il Muro era un tabù: può spiegare meglio?
Vede, io penso che il Muro fosse come uno specchio in cui ci si rifletteva per affermare chi era il più bravo e il più bello. La Germania Ovest lo chiamava “il muro della vergogna” utilizzandolo come pretesto per affermare la propria superiorità sulla Germania Est. In quello stesso contesto i militanti e intellettuali di sinistra, pur sapendo che quel muro era stato costruito dalla DDR a tutela di un regime autoritario, evitavano di definirlo così per non essere associati ai capitalisti contro cui militavano. Lo osserviamo spesso questo fenomeno, no?

Si tratta di ambiguità ideologiche? Vengono in mente i tanti che a sinistra hanno tutt’oggi nostalgia della libertà che si respirava in quel rifugio di “alternativi”, punk e obiettori di coscienza quale era Berlino Ovest prima della caduta del Muro: difficilmente lo dicono ad alta voce
Ma diciamolo che quella libertà di cui hanno nostalgia, per quanto entusiasmante, era appannaggio di un’élite narcisista che evidentemente non guardava al Muro pensando anche ai fratelli dell’Est. È stato un peccato della sinistra in generale, questo atteggiamento. E non privo di conseguenze. Al momento del crollo del Muro quasi nessun tedesco di quel fronte era a favore della riunificazione delle due Germanie. L’ombra della dittatura nazista pesava ancora, si temeva che la Germania riunita sarebbe stata troppo forte e pericolosa, temibile. C’era poi chi sosteneva che il Muro fosse lo scotto da pagare per aver combattuto e perso la Seconda Guerra Mondiale sotto Hitler. Argomentazione assurda: il Muro fu il frutto della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, non del secondo conflitto mondiale né del Terzo Reich. Ma qui emerge un limite insito nell’essere umano: nell’analisi della realtà ci si fa spesso influenzare dalla linea di pensiero del gruppo cui si vuole appartenere per paura di restare tagliati fuori. Così si dicono cazzate…

Lei è stato un portavoce del movimento studentesco socialista del ‘68 nella Berlino divisa: che cosa voleva dire essere anticapitalisti in quel periodo storico e in quel contesto?
Noi protestavamo contro il capitalismo reale, non fu affatto facile portare avanti le nostre istanze a Berlino Ovest, e questo nonostante mettemmo subito in chiaro che per come la pensavamo la dittatura della DDR era peggio di tutti i mali del capitalismo americano. Ciò che sognavamo era un socialismo democratico, ma i nostri concittadini non ci diedero molto credito. La risposta alle nostre battaglie era sempre: “Ma se sei di sinistra e anticapitalista perché non vai dall’altra parte?”. In un certo senso avevano ragione, è vero che gli esperimenti di socialismo democratico hanno storicamente portato alla nascita di strutture statali autoritarie, basti pensare a Cuba e alla Cina.

È deluso?
A questo punto credo sia giusto ammettere che il socialismo democratico non ci offre una soluzione, non è da lì che bisogna ricominciare. È necessario, però, riformare il nostro capitalismo, trasformarlo radicalmente.

Negli ultimi anni a Berlino si discute molto di turbocapitalismo e di come quest’ultimo abbia condotto a processi di gentrificazione spinta, portata all’estremo e sostanzialmente fuori controllo. Processi non più volti a riqualificare interi quartieri periferici per il benessere dei loro abitanti, ma diventati pura violenza economica contro i ceti meno abbienti che da quelle zone gentrificate si ritrovano costretti ad andarsene a causa dell’aumento dei prezzi degli affitti.
Questo è il capitalismo delle finanze ed è qualcosa di stupido, crudele, disumano, inaccettabile. Bisogna inventarsi qualcos’altro.

Una terza via. È speranzoso?
Mi danno speranza i tanti giovani che vedo scendere in piazza per la salute dell’ambiente. Se riusciranno a comprendere che non si può separare la protesta ambientalista da una critica puntuale al capitalismo così come lo abbiamo impostato e implementato finora, allora forse avremo ancora qualche chance di migliorare le cose. Ma il prezzo da pagare potrebbe essere una nuova militanza terroristica, di questo dovremmo essere consapevoli. Io quel rischio lo vedo chiaramente.

Per il trentennale dalla caduta del Muro il film “Good Bye, Lenin!” di Wolfgang Becker tornerà al cinema. Quella pellicola, di culto anche in Italia, narra la nostalgia – Ostalgie in tedesco – che molti hanno provato per la vita a Berlino Est: come mai negli anni 90 si diffuse questo sentimento?
È un sentimento condiviso tuttora da una parte dei tedeschi. Lo stesso leader di Die Linke, il partito di sinistra tedesco, ha dichiarato che secondo lui nella Germania Est, prima che il Muro fosse abbattuto, non vigeva uno stato assoluto contrario allo stato di diritto. Invece si trattava di una dittatura, questa è una concessione stupida. E lo affermo nonostante pensi che non fosse tutto sbagliato nella DDR, per esempio le donne avevano a disposizione asili statali dove lasciare i figli, cosa che permetteva loro di lavorare.

Tra la fine del 1989 e il 1990 il padre della riunificazione tedesca, il cancelliere Helmut Kohl, trasformò i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest sebbene i primi valessero meno dei secondi: una soluzione economicamente traumatica per la popolazione della Germania orientale
Si sono commessi errori, si è fatto tutto troppo in fretta e con arroganza, infatti non penso che la riunificazione sia andata così bene. Imponendo la transizione da un’economia socialista a un’economia capitalista negli ex Länder della Ddr si sono creati più di due milioni e mezzo di disoccupati. Senza contare che dopo la caduta del Muro circa 4 milioni di persone fuggirono dall’ex Germania Est per andare in cerca di fortuna nella più ricca ex Germania Ovest e che in molti casi a scegliere quella strada furono i giovani più preparati e intraprendenti. Il risultato è che ancora oggi nei territori orientali c’è più povertà, ci sono vaste aree de-industrializzate dove le opportunità di lavoro scarseggiano, la popolazione è anziana: tutti elementi che di recente hanno portato alla crescita della nuova destra, ossia di quel partito nato solo sei anni fa che è la Afd (Alternative für Deutschland).

Con le elezioni regionali di fine ottobre l’Afd è diventato il secondo partito in Turingia, stato dell’ex DDR. Qui l’ultradestra ha più che raddoppiato i consensi rispetto al precedente turno del 2014 ottenendo il 22 per cento dei voti e superando di circa un punto la Cdu di Angela Merkel, che in 5 anni ha perso quasi il 12 per cento delle preferenze
Anche in Brandeburgo e Sassonia, sempre nella Germania orientale, la Afd è cresciuta. Non che a ovest non vi siano aderenti: ci sono, ma in minor misura. In generale tutto ciò è inquietante, mai avrei ipotizzato uno scenario del genere a 30 anni dalla caduta del Muro. Non sto sostenendo che in futuro avremo una nuova dittatura – la storia non si ripete -, ma noto una tendenza a invocare uno stato autoritario che mi preoccupa. Considerando che l’ex Germania Est conta circa 12 milioni di abitanti e che la popolazione della Germania supera gli 80 milioni potremmo anche fregarcene, ma non si può abbassare la guardia in un periodo in cui la politica è estremamente polarizzata ovunque.

Che cosa suggerisce?
L’aumento della xenofobia nell’est si lega al fatto che l’ex DDR conta solo il 2 per cento di residenti stranieri, a differenza del resto della Germania, dove la gente è più abituata a convivere con culture diverse.

Serve un’educazione al multiculturalismo?
Assolutamente, bisognerebbe distribuire i migranti in arrivo in Europa anche in quelle zone, così da avviare, per gradi e con grande cautela, un processo di integrazione. Il presupposto è che la paura del diverso, il razzismo e l’antisemitismo nascono dalla non conoscenza.

Un consiglio che darebbe oggi ai nati dopo il crollo del Muro di Berlino?
Di pensare con la loro testa, non con quella degli altri.

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