Nel fantastico mondo di Turbo Paolo | Rolling Stone Italia
Videini stupidi

Nel fantastico mondo di Turbo Paolo

Intervista a uno tra i più esilaranti comici nativi digitali degli ultimi anni, uno di quelli per cui (forse) vale la pena continuare a stare sui social

Nel fantastico mondo di Turbo Paolo

Il nome e il cognome “Paolo Sarmenghi” probabilmente vi dicono poco. Se siete millennial (ossia se siete nati tra il 1981 e il 1996, o giù di lì) e frequentate il pazzo mondo di Internet è però molto probabile che sappiate chi è TurboPaolo, il nickname che si è scelto il suddetto Paolo Sarmenghi. «Una mia compagna delle medie credeva che fosse un titolo nobiliare: sir Menghi. Mi piace pensare che è longobardo», scherza lui. «TurboPaolo è il primo nickname che mi è venuto in mente senza spazi e trattini bassi con dentro “Paolo”. Un po’ cacofonico, col senno di poi».

Per chi non lo conoscesse, stiamo parlando di uno tra i più esilaranti comici nativi digitali degli ultimi anni, uno di quei creator per cui vale la pena continuare a frequentare i social. La sua interpretazione del delfino malvagio ha fatto stramazzare dalle risate svariate persone. Ma i suoi video degni di nota sono decine: per esempio, quello che lo vede alle prese con un tappo di plastica rimasto attaccato alla bottiglia (“colpa” dei burocrati europei), oppure quello dove mette a confronto un individuo che ostenta le sue mille attività e un altro che trascorre il tempo libero sdraiato sul letto ad ascoltare Indagini, il podcast di Stefano Nazzi. Tutti sono frutto di una miscela perfetta che include idee per lo più semplici e originali, riferimenti azzeccati e puntuali all’universo culturale del suo pubblico di riferimento (i millennial, appunto) e una mimica facciale strepitosa.

Pare quasi impossibile credere che nella quotidianità TurboPaolo – o meglio, Paolo Sarmenghi – faccia il legale. Per la precisione, si occupa di normativa legata all’etichettatura di una realtà del settore lattiero caseario dove ha iniziato a lavorare al principio del 2020. «Sono stato addirittura un lavoratore essenziale, nonostante non abbia contribuito in alcun modo a superare la pandemia, a differenza di mia moglie che allora faceva la farmacista o di mio padre e del mio migliore amico che sono medici», racconta. L’azienda si trova a Novara, la città piemontese dov’é nato nel 1990 e dove vive ancora. Sia l’ambiente di lavoro sia quel mondo della provincia in cui è cresciuto sono spesso al centro dei suoi video. «È una zona che offre poche opportunità, quando ho visto l’offerta di lavoro mi sono candidato subito», continua.

Alle spalle c’è una laurea in Giurisprudenza presa senza alcuna convinzione: «Dopo il liceo scientifico non sapevo bene cosa fare. Ho scelto Giurisprudenza perché non c’è matematica, studiare non mi pesava troppo e avevo già la parlantina. Il leitmotiv era “dopo potrai fare tutto”. So di altri comici che hanno fatto Giurisprudenza, come Edoardo Ferrario e Checco Zalone». Al terzo anno, la crisi: tenta il test di Medicina, ma quando scopre di essere entrato a Odontoiatria a Firenze decide di lasciare perdere. Al quarto anno fa uno stage nella redazione di un giornale di informazione economica dei notai di Milano. E poi di stage ne fa un altro, questa volta in una casa editrice di Roma specializzata nel settore giuridico. È qui dove va a lavorare dopo la laurea, ma per poco: quello che fa non gli piace. Prende tempo con il servizio civile, e finisce in un parco naturalistico. «Da lì sono diventato favorevole al liberalismo più estremo», scherza. Prima di approdare dov’è impiegato oggi fa un periodo da commesso in un negozio di scarpe: «Quell’esperienza mi ha lasciato un sacco di materiale per fare comicità».

La comicità, racconta, ha sempre fatto parte di lui: «Ricordo benissimo che da bambino quando ho visto il genio della lampada nel cartone animato di Aladdin, doppiato in italiano da Gigi Proietti, ho pensato: “Da grande voglio essere carismatico e arguto come lui”. Ricordo anche che a sei anni in un villaggio vacanze mi hanno fatto dire una battuta sul palco. E quando ho sentito le persone ridere mi ha fatto piacere. Al liceo poi ho anche fatto teatro».

L’attitudine a far ridere e a ridere di sé è una caratteristica della famiglia Sarmenghi in generale. «L’ironia, a volte anche il cinismo, è sempre stata comune a casa mia», spiega. E alla propria famiglia di origine riconduce anche la varietà di riferimenti che troviamo nei suoi video, riferimenti che includono il duca Carlo V di Lorena, l’astrologia, le piramidi di Giza e le polpette dell’Ikea: «Ho avuto la fortuna di crescere tra persone senza puzza sotto il naso, con interessi che spaziano da Guerre stellari agli Etruschi. E sono sempre stato immerso nella cultura di Internet, ho trascorso un sacco di tempo su YouTube».

Paolo Sarmenghi racconta che i «videini stupidi» li faceva già quando Facebook andava di moda. Ma non l’aveva mai presa in considerazione come carriera. Finché nel maggio 2021 non è sbarcato su TikTok. Nel primissimo video lo vediamo ridotto a un piccolo mezzobusto che si muove sulla foto di un palazzo in costruzione: fa oltre 11 mila visualizzazioni e ottiene più di 350 like. A dare il via al successo è stato il secondo, dove interpreta un selezionatore che testa le abilità di una donna durante un colloquio di lavoro: qui le visualizzazioni sono già 203 mila, e i like 17,8 mila. «Era uno sketch ispirato alla “vita vissuta”.

Nonostante non avessi follower è andato abbastanza bene e ho iniziato a guadagnare un po’ di seguito», dice. «Ci ho messo un po’ a capire che c’era spazio per provare a fare quello che mi piace». A quel punto si è dato delle regole: postare due o tre video alla settimana, e fare sempre cose originali. Non soltanto sketch, ma anche contenuti come «il sito Internet burla per capire cosa fare se sei positivo al Covid». «I social in genere premiano la ripetitività, perché in questo modo per l’algoritmo è più facile incasellare gli utenti. Quando si fanno sempre le stesse cose spesso si ottengono più visualizzazioni», spiega. «Ma comunque le persone si sono affezionate a me, e mi fa un sacco di piacere. Vuol dire anche che non sempre la strada più semplice è quella più remunerativa. A volte basta sbattersi un po’». Dietro a un video da un minuto e mezzo – racconta – ci sono circa due ore di lavoro, tra ideazione, scrittura e realizzazione. Lavoro a cui si dedica la mattina presto, nella pausa pranzo, il pomeriggio, o nei weekend: quando non è impegnato con il suo lavoro da legale, in sostanza.

Oltre che su TikTok, TurboPaolo è anche su Instagram, per un totale di circa 300 mila follower. «È evidente che TikTok ha un pulsante per spingere i contenuti che vuole spingere. Del resto è una piattaforma privata, non rinuncia a un potere del genere. Anche per questo tutti i creator sanno che è importante diversificare, non stare su una sola piattaforma», dice. «Instagram è un canale più diretto, è come una newsletter: è più legato a te che al contenuto. Gli utenti di TikTok però mi sembrano più gentili e meno arrabbiati, forse perché sono più giovani e hanno meno sovrastrutture. Però TikTok è impietoso: non importa che tu sia Cattelan, se il video è brutto non va. TikTok è il vero giudice: se un video va bene lì è molto probabile che andrà bene anche su Instagram, mentre non è vero il contrario».
In ogni caso TurboPaolo all’algoritmo non bada proprio, nemmeno per vedere cosa va meglio e agire di conseguenza: «Scelgo cosa fare in base a quello che mi va. Spesso il personaggio che interpreto è un’idea che ho avuto di me stesso, oppure una persona che mi sta pesantemente sulle p*lle. Ma comunque quando sto realizzando un video che funzionerà lo sento subito. A me in generale piacciono i video fatti con poco sforzo, tipo quello del delfino, che al tempo stesso ha tutte le caratteristiche per fare ridere. Quando l’ho girato avevo davanti mio padre, che è scappato via».

Per quanto i suoi contenuti varino parecchio, lo stile di TurboPaolo è però inconfondibile: «C’è chi mi scrive: “Ho messo like sulla fiducia ancora prima di guardare il video”». Con il pubblico in generale ha un rapporto sereno. «Essere giudicato ogni tanto fa parte del gioco. Anzi, mi spiace perché ormai faccio davvero fatica a leggere i commenti», dice. «L’unica volta in cui ho visto che alcune persone si erano offese è stato con il video sullo smart working. Qualcuno ha scritto cose tipo: “Tu non sai quanto lavoro io anche se sono in smart working”. Gli unici casi in cui mi capita di vedere insulti però è quando qualcuno carica un mio video sulla propria pagina per fare visualizzazioni, probabilmente perché al pubblico di quella pagina quello che faccio io non fa ridere».
Gli chiediamo se ci sono argomenti che non tratta per sottrarsi agli insulti. «Mi sembra che in Italia, a differenza degli Usa, non ci sono temi che i comici evitano per paura di ritorsioni. Penso alle critiche pesantissime e alle azioni violente che Dave Chapelle ha ricevuto dalla comunità LGBTQ+. Da noi è molto difficile che un comico subisca le stesse reazioni per una battuta omofoba: faccio fatica a credere che qualche artista italiano non parli degli argomenti considerati tabù per paura di ritorsioni. Da un certo punto di vista è una fortuna: quando polarizzi il dibattito non fa bene a nessuna causa», osserva. «Le uniche cose che io non faccio sono quelle che nei Termini di servizio di TikTok e Instagram sono considerate “zero tolleranza”, come le battute sui pedofili: il rischio è il ban permanente».

Al di là delle critiche, quello che lo spaventa semmai è la possibilità di perdere il contatto con chi lo segue, di non riuscire più a stare dietro agli elementi culturali che lo uniscono al suo pubblico o di non avere più il tempo di vivere quelle esperienze fondamentali per farsi venire idee nuove. Mentre ci sono alcune cose che vuole evitare a ogni costo. «Secondo me un approccio sbagliato è quello dei creator che quando vengono criticati dicono che è colpa del pubblico che non capisce: il ruolo dei creator è soddisfare la domanda che il pubblico ha nei tuoi confronti, che può essere una domanda di intrattenimento. E il bello di Internet è anche che il tuo pubblico te lo crei tu», commenta. «Un’altra cosa che non voglio fare assolutamente è cadere nei cliché, tipo il cliché del comico di sinistra. Voglio pure evitare di essere moralista. Va bene fare la battuta arguta che magari ti dà una visione laterale, ma senza la pretesa di insegnare nulla. E poi non voglio che il mio sia un profilo dove la gente che arriva si possa sentire in difetto. Mi mandano fuori di testa le persone che ostentano in maniera strisciante, tipo quelle che si fanno fare le foto da lontano come se fossero dei vip. Se andassi a fare una domenica a Casale Monferrato con mia moglie non metterei mai la foto di noi insieme, perché c’è un sacco di gente che il ragazzo o la ragazza non ce l’ha. A meno che nella foto non ci fosse qualcosa di divertente».

Oltre a quello che vuole evitare, Paolo Sarmenghi ha le idee abbastanza chiare anche su quello che vuole fare. Una serie tv comedy, magari. Anche se per ora si sta concentrando sugli spettacoli dal vivo: «Mentre con i video devi pensare a diventare virale, lì puoi essere meno cervellotico e più personale». Tra i suoi punti di riferimento nel mondo della comicità ci sono nomi come Valerio Lundini, Max Angioni, Edoardo Ferrario e Luca Ravenna. E poi gli statunitensi Trevor Wallace e Bruce Schulz: «Sono molto virali sui social e al tempo stesso vanno in giro per l’America a fare stand up». Nella sua idea di monetizzazione futura c’è quella di realizzare spettacoli a pagamento e di continuare a fare contenuti social in collaborazione con i brand («Cerco di fare due contenuti sponsorizzati al mese per piattaforma, scegliendo sempre brand che userei anche io»), con l’obiettivo di far pagare i biglietti degli spettacoli il meno possibile: «Adesso ovviamente faccio tutto gratis, non credo che qualcuno ancora pagherebbe per venirmi a vedere». La nostra sensazione è che non si renda del tutto conto di quello che ha creato. Ma forse anche questa è una questione di famiglia: «Con i miei non parlo molto di quello che faccio sui social. Non sono proprio genitori supportive all’americana. Niente cose tipo “Grande, campione!”. Noi siamo piemontesi, del resto. La mia prozia di 89 anni, che è su Instagram, dice che sono bravo anche se non mi capisce. Mentre mia sorella che ne ha quaranta e rotti ogni tanto ride». La più entusiasta della famiglia forse è la nipote di dieci anni: «Nemmeno lei capisce, ma sa che sono simpatico. E dice che suo zio è più popolare del sindaco di Novara».