Natalino Balasso porta in scena Ruzante: «La stand-up è per i comici che non fanno ridere» | Rolling Stone Italia
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Natalino Balasso porta in scena Ruzante: «La stand-up è per i comici che non fanno ridere»

A pochi giorni dall'inizio della sua nuova tournée nei teatri italiani, il comico veneto si racconta: tra Patreon, Sanremo, il feudalesimo virtuale e l'esperienza con Salvatores

Natalino Balasso porta in scena Ruzante: «La stand-up è per i comici che non fanno ridere»

Credits: Gdg Pr Srl

In Comedians, il film di Gabriele Salvatores uscito l’anno scorso, Natalino Balasso interpretava l’insegnante di un gruppo di aspiranti comici e in quel ruolo diceva: «Un comico è uno che osa, osa andare a scoprire da cosa fuggono i suoi ascoltatori, di cosa hanno paura». E ancora: «Una vera battuta non basta che allenti la tensione, deve liberare la volontà, il desiderio, deve avere voglia di cambiare la situazione».

Parole che rispecchiano lo spirito del vero Balasso, attore e autore vulcanico, irriverente, dissacrante, da tempo lontano dalla tv che gli ha dato la notorietà, oggi impegnato sia sul web, dove di recente ha aperto un profilo su Patreon, sia in teatro, dove è da poco tornato con Balasso fa Ruzante (amori disperati in tempo di guerre), spettacolo ispirato alle opere del commediografo padovano del Rinascimento Angelo Beolco (detto il Ruzante), diretto da Marta Dalla Via, scritto e interpretato dallo stesso Balasso con Andrea Collavino e Marta Cortellazzo Wiel, fino al 13 febbraio al Carcano di Milano e la settimana prossima in altre città. «Accarezzavo il sogno di portare in scena il Ruzante da tempo», spiega il comico veneto, in passato anche al fianco della Gialappa’s. «Però non potevo rifarlo pari pari, avrei finito per fare archeologia, perché la maggior parte della gente non lo ha letto e non si capisce niente: parliamo di testi scritti in pavano antico oggi incomprensibili».

Così ti sei messo a scrivere…
Esatto, una commedia originale. Basata sui testi di Ruzante, ma originale. Ci ho messo tanto, è stato un lavoro di tre anni iniziato prima del Covid. Come lingua ho scelto il fiorentino, per dare l’idea di un idioma antico, e l’ho intessuto di venetismi.

La storia è quella di due contadini, Ruzante e Menato, che si contendono una donna, Gnua: come mai questo triangolo?
Perché, nonostante il racconto sia fortemente calato nel Cinquecento, volevo che le vere protagoniste fossero le relazioni umane in quanto fondate su sentimenti universali. Data l’epoca in cui la vicenda è ambientata, la donna è contesa, ma anche combattuta: da un lato non ha libertà individuali, non ha i privilegi che hanno gli uomini di scegliere come agire e ha dunque bisogno di trovare chi la protegga; dall’altro ha delle pulsioni, per cui se la ragione la spingerebbe a optare per una vita più sicura, il cuore le dice di scegliere l’amore. Mi piacerebbe poter affermare che questa è una gabbia sociale che ci siamo lasciati alle spalle, ma non è così.

Poi c’è il rapporto tra potere e classi subalterne, altro elemento centrale della pièce. Cosa puoi dire di questo?
Bisogna ricordare che all’epoca di Ruzante i contadini non potevano diventare proprietari terrieri, lavoravano sui terreni per conto di nobili, vescovi… Di qui il sottotitolo “amori disperati in tempo di guerre”: perché le guerre in questa vicenda ci sono, con i soldati spagnoli e con i vescovi che mettono in campo addirittura eserciti, e il risultato è che sopra le teste di quei contadini che ho reso protagonisti avvengono cose molto più grandi di loro, di fronte alle quali non gli resta che vivere i propri sentimenti in maniera, appunto, disperata.

Cosa ci dice, questo racconto, del presente?
Guarda, io confido nell’intelligenza del pubblico e può darsi che sia solo una questione di culo, ma credo che il mio pubblico sappia cogliere gli elementi attuali di questa commedia senza che debba indicarli. Non mi piacciono gli spettacoli che in qualche modo ti indicano cosa devi pensare una volta uscito da teatro, preferisco rappresentare un racconto e lasciare allo spettatore la libertà di scovare i suo link e le sue associazioni anche a seconda del periodo che sta attraversando. Di sicuro un aspetto centrale del mio Ruzante è la contrapposizione tra la prima parte ambientata nelle campagne del pavano, dove i personaggi vivono un erotismo infantile, coincidente con la gioia di vivere nonostante le difficoltà, e la parte finale ambientata a Venezia, città di mercanti dove quegli stessi personaggi diventati adulti mostrano di aver perso l’ingenuità dell’infanzia contadina e di essere diventati più cinici.

In tutto ciò non ti fermi un attimo, nelle prossime settimane sarai a teatro anche con “Dizionario Balasso”, monologo sulla mistificazione della realtà provoca dall’odierna tendenza a definire ed etichettare tutto, a trasformare tutto in un tag. Quanto è difficile far ridere con argomenti come questi nell’era del politicamente corretto? Avrai letto delle polemiche su Zalone a Sanremo…
Intanto dalla mia ho la fortuna di essere già vecchio e famoso! (ride, nda). A parte questo, bisogna fare dei distinguo. Sanremo è un festival politico in senso governativo, per cui in quel contesto è considerato politicamente scorretto tutto ciò che può ferire il sentimento socio-politico mainstream. In altri casi la correttezza richiesta è di un’altra forma: a me una volta, quando facevo tv a Mediaset, mi tagliarono uno sketch perché parlava di compagnie telefoniche che non si potevano toccare. Questo per dire che ogni contesto ha la propria religione, i propri sponsor eccetera: la correttezza non esiste in sé, è chi stabilisce le regole del gioco a definirla. Io personalmente me ne sono sempre fregato e sono convinto che un artista debba sempre fregarsene, dopodiché possono capitarti incidenti di percorso, c’è anche chi cerca di intimidirti: il presidente della Regione Veneto Luca Zaia mi ha portato in tribunale per avere condiviso un post di un’altra persona che per me era chiaramente una battuta, ma sai, serve l’ironia… Ad ogni modo ha perso la causa, non è che gli vada sempre bene, ai politici.

Al di là dei tentativi di censura dall’alto, oggi, però, sono le persone comuni, benché non tutte, che sembrano auspicare una sorta di regolamento non scritto, ma uguale per tutti, che definisca ciò che un comico può dire e in che modo. Non ti stupisce, questo?
Sai, io sono arrivato a una conclusione: il popolo ha i tiranni che si sceglie. E come diceva qualcuno, la differenza tra tirannia e democrazia è che nella prima c’è uno che maltratta il popolo, nella seconda è il popolo che sceglie da chi farsi maltrattare. Detto ciò, è vero che oggi c’è un ritorno a sentimenti ottocenteschi e questo a me un po’ inorridisce. Basti vedere i programmi sui matrimoni: come mai così tante donne ci tengono ancora così tanto a sposarsi? Eppure negli anni 70 si stava andando in un’altra direzione rispetto al sentimento comune che metteva al centro della vita femminile il matrimonio. È come se fosse tornata una paura generalizzata, a questo punto sostenuta e fomentata dai mezzi di comunicazione perché gli conviene, ed è questa paura ad alimentare quel bisogno di sicurezza che poi fa sì che nulla cambi davvero. Voglio dire, il Sanremo di oggi è un carrozzone mainstream che rispetto a quello con Benigni del 1979 rappresenta un passo indietro, solo che poi ce la raccontiamo dicendo che però sul palco ci sono anche cantanti giovani con dei testi un po’ contro corrente. Comunque io me ne fotto.

Anche dei commenti negativi sui social?
Soprattutto di quelli, perché chi commenta un mio post, bene o male non importa, non costituisce una percentuale rappresentativa del mio pubblico. Resta il rischio di essere fraintesi, però qui ci sarebbe bisogno di una scuola in grado di formare una popolazione attiva, composta da individui capaci di comprendere ciò che leggono e ascoltano, ma anche di elaborare un proprio pensiero. Mentre oggi vedo che tanti si accontentano di guardare un tg o di leggere due titoli e di ripetere quello che hanno letto o sentito senza approfondire nulla. Ma cosa vuoi, purtroppo nelle scuole è tornata protagonista la famiglia, come nelle migliori epopee mafiose, e non sempre la famiglia è in grado di educare. Per questo è necessario un elemento terzo indiscutibile.

La scuola.
Già, non può essere altro, perché se uno ha per genitori due teste di cazzo… Il problema è che si parla spesso di riforme e ogni volta ci illudiamo, salvo poi scoprire che si tratta di riforme edilizie: al massimo si rifanno le aule, non le teste.

Di recente, parlando di “feudalesimo virtuale”, hai condiviso su Facebook “La presa del potere”, brano di Gaber sull’ascesa dei tecnocrati in un’Italia distratta dal calcio, dalle chiacchiere al bar, dalla tendenza a buttare tutto in caciara. Non hai l’impressione che personalità come la sua, che hanno denunciato storture che oggi vediamo sotto ai nostri occhi, siano sempre celebrate solo per la parte del loro pensiero meno scomoda?
Questo avviene perché si celebra sempre solo l’estetica, non si celebrano mai i pensieri. E vale per tutti, da qualunque parte si sia collocati. Adesso, poi, che i pensieri sono i meme, pare basti vedere l’immagine di uno che a Sanremo prende di mira il cattolicesimo per pensare che come società siamo avanti. Lo trovo paradossale, cioè, Sanremo è un rito peggio della messa ed essere contro corrente dentro la messa è un paradosso.

Tu come lo nutri, il tuo pensiero?
Da giovane odiavo studiare, ma col tempo ho capito che è l’unica. Non abbiamo un’intelligenza così ampia per poterci occupare di tutto e per poter interpretare ogni cosa secondo una nostra visione, il che significa che abbiamo bisogno di chi ha studiato più di noi in questo o quell’altro ambito. Non dico di accettare acriticamente la qualunque, però dobbiamo anche fidarci un po’! Parliamo sempre come se fossimo singoli individui, parliamo della nostra libertà individuale, peccato che questa non sia che una percezione indotta dal mercato, a cui fa comodo dividere, isolarci sui social dove, al di là delle apparenze, ognuno vede solo il proprio mondo. Invece nessuno può esistere senza reali connessioni con gli altri.

Chi sono i maestri di cui si è fidato Balasso?
Tra gli antichi, Epitteto con il suo Manuale. Poi negli anni 70-80 ho letto Henri Laborit e mi ha fulminato: veniva dal mondo scientifico, era stato medico nell’esercito negli anni 50 e nei 70, s’inventò l’aggressologia, o studio dell’aggressività e, a differenza di quanto facevano i più all’epoca, era uno che non si schierava dalla parte dei padroni, né da quella degli operai, si muoveva fuori dai giochi. Mi ha fatto riflettere sulla necessità dell’aggressività nella vita, a patto che sia indirizzata nel modo giusto, ma anche sulle scale di dominazione di cui parlavamo prima a proposito del Ruzante, per cui l’operaio sfruttato dal padrone che torna a casa e bastona la moglie, la quale a sua volta maltratta i figli, risponde a una scala di aggressività funzionale al controllo da parte del potere a tutti i livelli. Ma non possiamo fare nulla contro queste dinamiche, sono cambiate nelle modalità, ma ci imprigionano irrimediabilmente. Al massimo possiamo cercare di rendere migliori le nostre vite dentro a questo schema, dimenticando ogni tanto noi stessi e mettendoci nei panni degli altri, provando a essere più altruisti e a confrontarci in modo schietto, invece che dire “tu la pensi diversamente da me, allora sei uno stronzo”. Perché non è ammazzando gli altri che salviamo noi stessi.

Tornando alla comicità, da qualche anno in Italia si parla sempre più di stand up comedy…
Per me la stand comedy è quando un comico non fa ridere e allora fa stand up. A parte gli scherzi, queste sono solo etichette, definizioni.

Allora dimmi che cosa ti ha fatto arrabbiare di più in questi due anni di pandemia.
Che si sia cercato di far passare l’idea assurda che il teatro si possa fare online. Perché lo chiami teatro?! È come farsi una sega su un sito porno e chiamarlo amore. Il teatro è un’altra cosa, è un rito materico, fatto di persone che sono lì davanti a te, in carne e ossa, in quel momento. Poi ovvio che tutto si può fare online, ma usiamo altri termini, altre parole.

Tu, però, non schifi il web, anzi, hai aperto un profilo su Patreon che hai provocatoriamente chiamato “Natflix della cultura”, in risposta al “Netflix della cultura” voluto dal ministro Franceschini. Senza dimenticare Telebalasso su YouTube.
Il fatto che io usi sia il palco, sia Internet non significa, però, che io confonda l’uno con l’altro, a differenza di qualcuno che ha voluto far passare questo equivoco. Su Patreon propongo contenuti video grazie al contributo di abbonati. E mi sono utili quei denari, anche per comprare attrezzature per fare le cose come si deve.

Ti pesa? È qualcosa in più che ti tocca fare per motivi economici, ma che sotto sotto pensi svilisca il tuo lavoro?
Mi sono reso conto che è YouTube a svilire il mio lavoro, analizzando a fondo i dati delle visualizzazioni ho scoperto che il 90-95% dei clic arriva da persone che guardano un minuto di video su mezzora, così mi sono chiesto: è un pubblico, quello? No, per me non lo è. Parto dal presupposto che solo se paghi qualcosa, vuol dire che dai valore a quella cosa e che ti interessa davvero. Da questo punto di vista Patreon mi permette di mantenermi in vita e di stringere un rapporto diretto con coloro che mi seguono, i quali, tra l’altro, sanno che non voglio fan adulatori, anzi, ho sempre avuto un pubblico critico, al limite della rottura di coglioni! In più, una piattaforma di questo tipo mi assicura una zona di libertà che, per esempio, in televisione non c’è, che è uno dei motivi per cui me ne sono andato dal piccolo schermo. Perché lì dopo che hai scritto una cosa ne devi parlare con l’autore, che ne parla col regista, che ne parla col capostruttura, che ne parla col direttore di rete, e in tutti questi passaggi gerarchici quello che viene fuori alla fine è una fetecchia, qualcosa di talmente filtrato da essere meno vero.

Basta tv, ma in compenso sarai presto di nuovo al cinema con Gabriele Salvatores, no?
Sì, dopo Comedians, del 2020, mi si vedrà ne “Il Ritorno di Casanova”, con Toni Servillo, tra gli altri.

E a te, chi è che ti fa ridere?
Alcuni comici americani, da Charlie Brooker, famoso come sceneggiatore della serie “Black Mirror”, a Joel Coen, uno dei fratelli Coen, che ha scritto pièce per il teatro molto interessanti, anche muovendosi sul terreno di quella comicità ebraica che da Groucho Marx si è tramandata di generazione in generazione. Poi i vecchi film con Aldo Fabrizi e Totò. E a volte persino Crozza, non ho preconcetti.

Di LOL – Chi ride è fuori, che sta per tornare, cosa pensi?
La prima edizione è stata un successo. Il che è tutto dire, mi si accappona la pelle.

Perché?
Ma perché quel tipo di comicità fatta di giochi e scherzi è veramente da scuola elementare, hai presente quando si giocava a chi ride prima? E pensare che la gente voglia questo, non so, citando la battuta di un personaggio di “Comedians” direi che quella per me non è comicità, è solletico.