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Lorenzo Mattotti, se l’immagine è musica

Abbiamo parlato con il più internazionale degli autori italiani, amato dal New Yorker, del suo «pensiero musicale», delle sue tavole per 'I miei stupidi intenti' e del valore dell'immagine sui social

Foto: Alberto Mancini

Artista per immagini col l’attitudine più pura alla crossmedialità, Lorenzo Mattotti è senza dubbio uno degli autori internazionali che meglio ha saputo intrecciare le arti in maniera naturale e allo stesso tempo sofisticata. Perché non solo le sue storie a fumetti, ma anche i suoi lavori audiovisivi e il suo eccezionale operato nell’ambito dell’illustrazione possiedono da sempre una “logica musicale” che, spesso ineffabilmente, esplode attraverso forme, colore e sviluppo narrativo. Ma cosa significa esattamente imprimere un ritmo sonoro a un racconto per immagini? Per chi scrive è presto detto, basta immergersi nel libero flusso di un’opera come Chimera, il volume comparso nel panorama editoriale nel 2006 per Coconino Press. Un piano sequenza senza schemi, che segue il ritmo e il lavoro di impaginazione, uno spazio onirico e grafico che si sviluppa come un brano progressive di grandissimo impatto tecnico ed emotivo. A marcare in maniera indelebile questo trait d’union fra l’arte del fumetto, la musica, il cinema e la danza ci ha pensato la mostra Storie, ritmi, movimenti di Brescia, interamente dedicata all’artista non solo con l’intento di celebralo ma anche di mettere in luce la sua personalissima armonia visuale. Lo spiega bene anche l’eccellente volume omonimo pubblicato da Skira Editore in occasione dell’esposizione, dove viene ripercorso il lungo viaggio che ha elevato Mattotti dalla scena underground degli anni settanta all’Olimpo dell’arte internazionale.

«C’è sempre stata gente che dice che le mie storie hanno un ritmo musicale», ci spiega Lorenzo Mattotti al telefono, «per cui io credo di pensare più in maniera musicale che non in maniera logica o razionale. Le mie storie sono molto basate su ritmi, accelerazioni, rallentamenti, su un certo tipo di melodia dell’immagine, sui vuoti e i pieni, sui primi piani. C’è tutto un tipo di solfeggio grafico che amo molto. Ecco, non mi interessa la costruzione razionale, se una storia non segue una struttura quasi musicale allora non me ne frega niente». Pur restando sempre pienamente moderno, le opere dell’autore bresciano possiedono anche una bruciante elegia psichedelica, non solo per l’eleganza nello sviluppo delle forme ma soprattutto per l’esuberanza dei colori. Questa libertà creativa, unita alla fluidità del suo stile, porta subito alla mente lo sviluppo compositivo di un brano, specialmente se ci riferiamo al meglio che il rock di matrice prog e psicotropa ha espresso fra gli anni ’60 e ’70. «Quella musica è stata molto importante per me, per la mia crescita», ci spiega.

Per gentile concessione dell’artista

«I miei fratelli suonavano e io seguivo un po’ i miei amori di allora, che andavano dai Quicksilver Messenger Service ai Greatful Dead, che ricordo di aver visto live. Poi mi ricordo Nick Drake, che per me era estremamente importante, quando l’ho scoperto saremo stati in 500 ad ascoltarlo. Ho davvero adorato Robert Wyatt, soprattutto Rock Bottom, e ci sono stati dei momenti in cui mi ha anche influenzato nella maniera di disegnare. Il suo modo di cantare era molto fragile, quasi stonato, ma nella da quella fragilità sprizzava poesia pura. Un certo tipo di disegni, come la Linea fragile, sono anche debitori di quella voce, di quella maniera di affrontare le proprie emozioni. Ero affascinato un po’ da tutti i gruppi meno conosciuti, per cui se ne venivano fuori di strani li si andava ad ascoltare subito. Vivendo a Como ho avuto la possibilità di seguire tantissimo i gruppi che passavano da Milano. Mi ricordo che amavo molto gli inglesi Family e la loro capacità visionaria e a 11 o 12 anni, parlo del 1966, avevo la foto degli Who attaccata al muro. E poi c’erano gli Animals di Eric Bardon, ma ho anche amato tutto quel blues britannico, a partire dai Fleetwood Mac di Peter Green. Lui è stato un artista che mi ha sempre molto affascinato e il suo disco pubblicato nel 1970 subito dopo l’uscita dalla band, The End of the Game, per me è un capolavoro completamente misconosciuto».

Per Mattotti quell’afflato sonoro di totale libertà sperimentale si affievolisce già negli anni ’90, portando l’artista verso altre direttrici creative. A cambiare, ovviamente, non c’è solo la musica, ma anche la modalità di fruizione, che disintegra il concetto di concept album e si appiana sull’idea di singolo e di playlist. «Quel sentimento di esplorare costantemente suoni nuovi sinceramente non c’è più. Negli anni passati vivevo giorno per giorno quel che accadeva e qualsiasi disco uscisse era un capolavoro. Poi dagli anni ’90 quell’interesse si è affievolito, anche perché non mi interessano il rap o l’hip hop… Casomai mi capita di sentire una bellissima musica e dopo vado a esplorare quel gruppo o quell’artista, ma spesso noto che le altre cose sono tutte simili, tutte uguali… Certo, poi ci sono anche delle cose più contemporanee, che ho scoperto e a cui mi sono affezionato, però il piacere più grosso per me è nell’andare a cercare vecchi dischi che non avevo comprato ai tempi. Il mio rapporto con la musica è cambiato moltissimo, prima c’era un vero dialogo fra ciò che sentivo e quello che disegnavo, mentre adesso ascolto tantissima radio».

Un discorso assimilabile può anche essere fatto nel campo delle immagini, in un clima contemporaneo in cui il continuo bombardamento di immagini porta all’ appiattimento e alla desensibilizzazione dell’occhio. La necessità di ripulire lo sguardo, di staccarsi dall’oppressione del semplice “consumo” di immagini, è un obiettivo pienamente raggiunto da Mattotti, che spiega: «Io credo che l’immagine debba avere varie stratificazioni. Non ci si può fermare solo a una piccola idea, che poi si riempie con qualche colore e linea e la si piazza online. Io seguo Instagram e scopro tantissimi pittori, gente che dipinge, che lavora con l’immagine. Lì vedi che le immagini hanno tutto un altro tipo di fascino, l’occhio non le consuma, ci sono immagini che hanno bisogno di tanto tempo per essere comprese. Alla fine io direi che le immagini vanno create con stratificazioni di contenuti, di sentimento e di emozioni. Più ha una sua storia nell’essere creata, per cui possiede complessità, più ci aiuta ad andare avanti». Opere come Ghirlanda, L’uomo alla finestra, Stigmate, Nell’acqua (tutti pubblicati da Logos Edizioni) si impongono all’occhio non solo per complessità ma anche per immediatezza, ma è con le copertine realizzate per il New Yorker (e raccolte in un bellissimo volume sempre per Logos) che questo aspetto diventa ancor più evidente. A metterlo in primo piano è anche Françoise Mouly, l’art director della mitica rivista, che nella prefazione al libro spiega come Mattotti sia tra i pochi in grado di raccontare il proprio tempo senza essere inestricabilmente legato ad esso. «La potenza dell’immagine», conferma Mattotti, «si impone quando hai la sensazione che sia fuori dal tempo, che non sia collegata al video che hai visto ieri o con la musichetta che hai sentito oggi… con la moda del momento insomma. È fondamentale che l’immagine mantenga un suo mistero e questo mistero, certe volte, è dato da questa capacità di vivere fuori dalla nostra contemporaneità».

Per gentile concessione dell’artista

Proprio questa impareggiabile capacità di raccontare la nostra società pur restando fuori dal tempo è anche alla base della magnifica collaborazione fra Mattotti e Bernardo Zannoni per il suo romanzo I miei stupidi intenti. L’ultima ristampa di Sellerio è un’edizione speciale che comprende 66 bellissime tavole, realizzate con inchiostro a china di color sanguigno e un sottilissimo pennello. Il felice incrocio fra scrittura e disegno ha portato anche alla realizzazione dell’omonima mostra Milanese a cura di Mimaster Illustrazione, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. «Avevo scoperto questo libro su consiglio di una mia amica. Spinto dalla curiosità, sono andato a leggere e devo dire che mi ha preso molto, non solo per lo stile ma anche perché ci ho trovato qualcosa di molto classico. Insomma, c’è una grossa forza e una grande grande energia dentro questo piccolo romanzo. Mentre lo leggevo mi venivano in mente delle immagini in maniera molto naturale, legate un po’ a uno stile classicheggiante, alle illustrazioni de Il vento nei salici o a Winnie-The-Poo nelle immagini del grandissimo illustratore americano E. H. Shepard. Solo più tardi, quasi per caso, ho conosciuto Bernardo Zannini, e tutto è nato il tutto in maniera molto naturale».

Passato dal fumetto al cinema, dal teatro all’illustrazione, al momento Mattotti conferma che non prevede una nuova esperienza alla regia dopo la memorabile trasposizione animata del classico di Buzzati La famosa invasione degli orsi in Sicilia. La sua attenzione è tutta su Hänsel und Gretel, l’interpretazione teatrale realizzata con l’Opera di Digione, uno spettacolo con le sue immagini proiettate sullo schermo e una colonna sonora di musica classica. Dopo le repliche in Francia, la reinterpretazione della fiaba tedesca dei fratelli Grimm potrebbe arrivare in tournée in Italia, ma c’è anche una possibilità che diventi un cortometraggio con la regia del maestro bresciano. Il tutto, come sempre, sulla spinta della libertà verso la contaminazione che ha reso Lorenzo Mattotti un perfetto esempio di autore fuori dal tempo.

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