Intervistare Lorenzo Mattotti una mattina tra Parigi a Milano è condividere lo stesso cielo grigio, dice lui, indossando una camicia di flanella un po’ rustica, che lo ringiovanisce.
La domanda sui taccuini non era la prima, ma dallo schermo del computer sono così visibili, alle sue spalle, da anticipare la mia curiosità. Lorenzo Mattotti ha un taccuino tra le mani dal 1979, li conserva sugli scaffali, in un armadio bianco dove ci sono anche gli originali dei suoi lavori, e in vari cassetti. Rappresentano la sua anamnesi di artista.
Mi fai vedere la tua libreria di taccuini?
Tutto è iniziato da un taccuino che mi ha salvato la vita. Una sorta di terapia personale, dopo un periodo dove mi ero perso, con la testa, con il lavoro, con tutto… Grazie al mio amico e maestro incisore Enzo Borgini, ho imparato a riempire le pagine di me stesso. Il fatto di avere uno spazio intimo, dove potevo tirar fuori in maniera onesta e libera quello che sentivo dentro, mi ha permesso di creare un dialogo interiore per costruire una sorta di identità. È sempre stato uno spazio dove non avevo l’angoscia di far vedere il bel disegno. Anzi, disegnando quando mi veniva, sul taccuino, ho imparato a non aver paura del segno fragile, della violenza, della volgarità, e ho creato un metodo che si basa su una regola molto semplice: ogni disegno che fai è differente, anche se il soggetto è lo stesso. È un frame della vita che io metto su carta. Questo dialogo con il taccuino mi ha aiutato a non perdermi più, perché quando sei in dubbio vai al giorno prima, vedi il disegno e dici: ecco, questo sono io. Se disegni una faccia, vedrai che con il passare dei giorni nel taccuino cambierà espressione.
È dolce pensare che anche Lorenzo Mattotti, poeta delle immagini e matita di altissimo livello, abbia vissuto l’ansia da prestazione, conservando la sua intimità nel taccuino. È una terapia per immagini?
Più che una terapia diventa meditazione, perché nella ripetizione c’è l’idea di trance, diventa rapporto con l’ignoto, e con l’inconscio. Il cervello disegna in un’altra maniera, per disegnare cose così. È anche una scuola di improvvisazione, un rapporto con il non prevedibile. Io sono tutte quelle centinaia di pagine, nel taccuino.
Il taccuino fu anche un’ossessione di Paul Auster, protagonista occulto di Ghosts, il secondo volume della Trilogia di New York (Einaudi, 2025). Lorenzo Mattotti lo ha illustrato tempo fa, ma non dimentica il vortice di luce e buio in cui lo scrittore scomparso recentemente lo ha inghiottito, matita nera alla mano.
«Paul Auster va affrontato con cautela, mi avevano offerto di illustrare Città di Vetro, molti anni fa, ma rifiutai, vivevo il suo linguaggio con una sorta di inquietudine. Lo fece poi benissimo David Mazzucchelli.
Il progetto tuttavia andava avanti, il motore è sempre stato Paul Karasik, e quindi, poi, ho accettato di illustrare Ghosts».
Com’è andata?
È stato laborioso… È una storia dove non succede nulla! È una parentesi mentale di un uomo che sta in una stanza che osserva un altro uomo che scrive, sul taccuino. Paul Auster, quando lo incontrai, mi aveva accennato a una sua maniera di interpretare questa storia ed era, se mi ricordo bene, nel rapporto di accettazione della letteratura, della scrittura. Io l’ho poi resa scavando nel buio, nello specchio in cui il protagonista, il detective Blue, vede riflesso il suo sorvegliato, lo scrittore Black. Inoltre, siccome stavo troppo stretto nelle strisce degli storyboard americani, controproposi di rendere in ogni pagina un’immagine simbolica, che dialogasse con il testo, dove io potevo tirar fuori qualcosa di intenso, astratto, a volte simbolico.
A ogni pagina, nel tratto scuro di Mattotti, il lettore può trovare indizi polizieschi, emotivi, identitari ma anche riferimenti pittorici: gli spazi alla De Chirico, l’immaginario americano, le inquietudini psicanalitiche del Novecento.
«È un viaggio mentale, sono visioni», spiega Mattotti. «Ho cercato di raccontare la relazione con qualcosa di oscuro, che all’inizio il detective non sa neppure di avere. Si passa dall’indifferenza alla violenza dell’epilogo, inspiegabile quanto inevitabile».
Che musica ascoltavi, disegnando la New York di Paul Auster?
Miles Davis, direi. Quel jazz che mi riporta all’immaginario della Grande Mela anni Cinquanta.
Non ascoltavi Lou Reed, con cui hai azzerato ogni grado di separazione?
«Non con lui quella volta, no… Anche se la sua voce scura e roca si sarebbe adattata perfettamente agli spettri mentali del racconto.
Racconta di quella volta che tu e Lou Reed…
Quando abbiamo lavorato insieme lui era già malato, vedevi il suo volto marcato da una sofferenza interiore. Per me Lou Reed era proprio il poeta nevrotico contemporaneo, ecco: un Rimbaud moderno… Lo vedevi che dentro c’era qualcosa che ribolliva, che lo rimescolava: era duro e poi gentile, cambiava umore velocemente.
Come iniziò la vostra relazione?
Tutto è iniziato perché lui voleva fare un libro illustrato, dopo aver performato con Bob Wilson mischiando sue vecchie canzoni con i testi di Edgar Allan Poe, riscritti e rielaborati (POEtry, 2003). Poi gli è venuta voglia di fare un libro illustrato, aveva visto il mio Dr Jekyll e Mr. Hyde, e gli era piaciuto molto. Quindi un pomeriggio per me sonnolento ricordo una telefonata: Ciao sono l’agente di Lou Reed, te lo passo. E sento questa voce profonda: «Hi Lorenzo, I want to work with you». Io ero mezzo addormentato, devo aver detto: «Ah ok…». Quindi andai a New York, e lo incontrai… Ovviamente non ho dormito tutta la notte precedente. Sai, è inquietante Lou Reed, anche l’incontro lo fu.
Un po’ alla Paul Auster?
Comunque anche quella volta fui salvato da un taccuino! Perché me ne ero portato dietro uno, ricordo che andammo in questa pasticceria, il Sant Ambroeus in Graham Street, e quando vidi un sorriso, un piccolo taglio di approvazione sulle labbra di Lou Reed, mentre sfogliava le pagine del taccuino, finalmente mi rilassai! «Tu senti la musica e comincia a disegnare sulla musica», mi disse. «Il libro è già fatto», concluse.
Per uscire dal tunnel in bianco e nero, chiedo a Lorenzo se si è sentito accolto e consolato dal colore che esonda dalle pagine de I viaggi di Gulliver (Einaudi, traduzione Anna Nadotti, 2025), l’evergreen di Jonathan Swift, un classico che non invecchia, proprio come Mattotti.
«Ho disegnato soprattutto a matite e pastelli, per la grandi tavole, per le pagine interne ho eseguito invece immagini a pennello e inchiostri, che per me è anche una novità, l’avevo usato in precedenza soltanto per le paraolimpiadi a Parigi, uno dei lavori di cui resto molto orgoglioso. Mi sono buttato con entusiasmo nel progetto, l’anno prima mi ero divertito tantissimo a fare Lancillotto, e quando ho accettato Gulliver ho pensato: è così visionario che mi permetterà di esplorare! Tuttavia la satira e la ferocia di Jonathan Swift a volte mi hanno messo in difficoltà.
Come si disegna la critica a un governo? La società malata? I sovrani inetti? Mi chiedevo. Il testo, a volte, ha una densità e una struttura che un illustratore non può contenere in un libro di narrativa. Ci vorrebbe una mostra».
Sei soddisfatto?
È venuto veramente elegante, alla fine. Ci sono cose che mi divertono, come gli omini che si arrampicano sul petto della donna, o alcuni momenti che definirei quasi rock: minzioni odori, corpi, feci.. Non ho tirato fuori la volgarità e la violenza, sono rimasto un po’ bon ton.
Le tue pagine preferite?
Mi sono divertito molto alla fine, con i cavalli parlanti, quando gli uomini sono delle bestie. Io ho sempre amato disegnare animali mostruosi e fantastici… (Il mistero delle antiche Creature, Orecchio Acerbo editore), ma quando si tratta di disegnare animali veri, non avendo fatto scuola di Belle Arti, mi arrabatto. Il cavallo tra l’altro è uno degli animali più difficili da fare, Magnus se li era fatti fare da qualcun altro, ricordo.
Adora disegnare la faina, mi confessa, protagonista del primo libro di Bernardo Zannoni (I miei stupidi intenti Bernardo Zannoni, illustrato da Lorenzo Mattotti, Sellerio edizione) e su qualche copertina del New Yorker ha inserito, in passato, animali domestici, di famiglia.
Gli chiedo, riavvolgendo il nastro della sua vita, quanto gli manchi la tribù di Valvoline, quando la controcultura aveva uno scopo, e il linguaggio poteva fare la differenza.
«Adesso il momento storico è completamente diverso, in quel momento il fumetto doveva far esplodere i nodi al pettine. Non penso che adesso quel meccanismo funzioni ancora. Adesso ci sono moltissime controculture che però sbiadiscono nel rush della comunicazione digitale. Parlare di controcultura mi sembra ormai un anacronismo, non essendo chiara neppure la cultura a cui andare contro».
Della gioventù ricorda volentieri gli anni universitari a Venezia, quella contemplazione silente, quando la città dopo le otto di sera si spegne, e puoi ascoltare soltanto il rumore dei passi. «Ho fatto un libro sulla mia Venezia (Venezia scavando nell’acqua, Logos Editore), come se fosse una tesi di laurea molti anni dopo. Dentro quel libro c’è quello che ho capito della città. Venezia, essendo una città impermeabile, è a volte detestabile.
Credo di aver imparato a Venezia quella che è la contemplazione, la capacità di contemplare forme, assorbirle, che poi mi ha molto influenzato nel tratto artistico. La laguna è anche una sorta di limbo, una bolla che a un certo punto ho sentito il bisogno di infrangere. E sono andato a Milano».
Quasi nulla fa saltare i nervi a Lorenzo Mattotti, quando lavora. Ha bisogno di rumore, di gioco, intorno. «Sono cresciuto insieme a tre fratelli e una sorellina. Vivevo nel caos, uno suonava, l’altro cantava, l’altro ancora giocava, io sul tavolo disegnavo ascoltando Frank Zappa».
Ci tiene, inoltre, a ricordare il suo rapporto con la musica rock. «Eravamo a Parma negli anni del Beat… mi ricordo che accanto a casa nostra c’era un locale dove provavano I Corvi (gruppo beat italiano, ndr), anche noi fratelli volevamo essere una band, anche se come batteria usavamo il fustino del detersivo Dixan! Mio padre ci aveva regalato due chitarre elettriche Davoli, era il 1966-67. Io avevo 11 anni e ascoltavo gli Who, tutto il blues degli Small Face, i Quicksilver… Posso dire che da quellato me la tiro, ho vissuto le origini del beat e del rock».
Appassionato anche dei Genesis, con uno speciale amore per Peter Gabriel, Mattotti ricorda di aver fatto anche un paio di conferenze sul suo rapporto con la musica (Blow up magazine) e mi mostra la sua pila di CD, che competono per dimensioni e numero con la collezione di taccuini.
Ci salutiamo sapendo di vederci venerdì 5 dicembre a Milano, dove inizia la sua tournée italiana, organizzata e voluta anche dalla libreria Il giardino segreto di Bologna, per presentare i due volumi di Einaudi che si aggiungono alla sua produzione eclettica, sentimentale, pittorica, musicale.
«Ma perché devo andare in tournée?», mi chiede Lorenzo, prevedendo gli incontri con il pubblico, che lo terranno lontano da casa per qualche settimana.
«Perché sei una rock star del fumetto!», gli rispondo.
E così sia.













