‘L’innocenza del buio’: storie della buonanotte per autori horror ribelli | Rolling Stone Italia
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‘L’innocenza del buio’: storie della buonanotte per autori horror ribelli

Il regista Roberto De Feo e lo sceneggiatore Lucio Besana debuttano come scrittori con un romanzo che parla dei mostri che ci portiamo dietro da sempre. Come si passa dal racconto per il cinema a quello direttamente “su carta”? L’abbiamo chiesto a loro

‘L’innocenza del buio’: storie della buonanotte per autori horror ribelli

‘The Nest – Il nido’ di Roberto De Feo (2019)

Foto: Vision Distribution

L’ultima volta che Lucio Besana è stato intervistato da Rolling Stone ha invitato la giornalista al cimitero di Crespi D’Adda. «È un posto che sento molto mio», le ha detto, «ti va se ci vediamo lì?». Lei ha avuto coraggio da vendere e ha accettato, io nel dubbio gli ho proposto una telefonica. «Peccato, avevo già in mente di portarti in un obitorio», scherza (forse) lui. Poi faccio l’errore di confessargli che ai tempi dell’università andavo spesso al Verano, a due passi dalla Sapienza, per chiacchierare con Monica Vitti, Alberto Moravia e gli altri: «Bene. Segniamocelo per un’intervista futura». Segniamocelo, insieme a una riflessione da affrontare sul confine tra fetish e paura.

L’ultima volta che Roberto De Feo è stato intervistato da Rolling Stone, invece, ha parlato della passione per un horror old school e del desiderio, sempre più forte, di confrontarsi con il genere “casa stregata”. È significativo che l’obiettivo si riproponga proprio nel primo romanzo firmato insieme da Besana e De Feo, L’innocenza del buio (edito Sperling & Kupfer per la collana Macabre’, dal 26 aprile in libreria). Per Besana è il terzo libro, per De Feo il primo, e ammette subito due cose: che spera sia anche l’ultimo, e che lo ha scritto con l’unica vera ambizione di farne un film o una serie tv. E qui lui non scherza, quindi teniamoci pronti.

Già li conosciamo entrambi, e anche piuttosto bene: sono tra i nuovi autori del cinema horror. Successi recenti come The Nest – Il nido e A Classic Horror Story hanno infatti la firma di Besana in sceneggiatura e quella di De Feo alla regia. Dopo essersi portati a casa candidature ai Nastri e ai David, una vittoria a Taormina e il record di miglior esordio horror italiano al box office nazionale, hanno pensato di giocarsi una mossa molto azzardata o magari molto furba: scrivere un libro insieme. L’innocenza del buio si presenta con uno sviluppo in quattrocento pagine, un castello infestato, due epoche collocate in due secoli diversi, quattro bambini che condividono il ricordo di una vita passata, un esperimento scientifico e il male come entità gotica ma anche attualissima. È una prova importante, ma loro giurano di non aver mai litigato davvero. Jumpscare a parte…

Lucio, l’ultima volta parlavi di un cinema che oggi si fa tutte le sere a casa, e di come un film non sia più percepito come un evento speciale. Con un libro la storia è diversa: la lettura è per natura un evento privato.
Lucio Besana: Per me questo è il terzo libro, ma gli altri due ancora devono essere pubblicati. Diciamo che già conoscevo i limiti e i vantaggi del passaggio dalla scrittura per il cinema alla narrativa. È qualcosa che fai soprattutto per fede, perché le proiezioni di vendite, anche nei casi più ottimistici, sono piuttosto basse. L’approccio a questo romanzo per me e Roberto è stato lo stesso con cui affrontiamo i film: ci interessa una storia se porta avanti una conversazione e aggiunge qualcosa di nuovo. Personalmente mi dà più soddisfazione scrivere per un lettore che per uno spettatore.
Roberto De Feo: Per me invece è il primo libro, e speriamo sia anche l’ultimo (ride).

Senza doversi preoccupare della sala, del formato, del primo weekend di box office, nella narrativa vincono i limiti o la libertà?
Roberto: Sicuramente la narrativa ti dà più libertà. Non mi era mai capitato di pensare allo sviluppo di una storia horror senza limitarmi nel numero di pagine. Non è banale, si tratta di possibilità di sviluppo diverse. È stato interessante vedere come un romanzo ti offra l’occasione di approfondire di più la backstory – che in questo caso sfocia nell’universo dei ricordi di vite passate – e di poter scavare in profondità. Ecco, questo per assurdo mi ha fatto venire voglia di lavorare su un progetto seriale.

Il titolo, L’innocenza del buio: come ci siete arrivati?
Roberto: Non c’è mai stato il titolo giusto. Abbiamo usato a lungo il titolo provvisorio del soggetto di una serie che si chiamava Before I Lived e che si collegava al concetto della vita precedente.
Lucio: Infatti poi il titolo è stata l’ultima cosa che abbiamo trovato. Ci siamo arrivati facendo un brainstorming su quelli che erano gli elementi fondamentali del romanzo, che parla di innocenza, di esperienza, di luce e oscurità. Isolando le parole chiave, le abbiamo poi combinate. Ho proposto il titolo L’innocenza del buio ed è piaciuto perché è ambiguo. Per esempio, la mia interpretazione personale si pone questa domanda: è preferibile ricordare o dimenticare? Invece lo hanno chiesto a Roberto in una recente intervista, e ha dichiarato che per lui il buio in sé è innocente, e siamo noi a proiettare le nostre paure all’interno dell’oscurità. Mi sembra un titolo perfetto perché per me racconta di come da bambini riempiamo il buio di mostri e di paure che poi si collegano anche alla crescita.

Io nell’infanzia ho avuto un rapporto durissimo con il buio, quindi mi incuriosisce il vostro. Lucio è stato bambino nella campagna milanese degli anni Ottanta, Roberto a Bari. Qual è il primo ricordo che vi ha innescato una suggestione di paura?
Lucio: Quando ero bambino dormivo spesso nella camera dei miei. Il letto era davanti alla porta che affacciava sul corridoio, e quella porta era sempre aperta. La prima volta che ho avuto paura avrò avuto tre o quattro anni. Ho guardato in quel corridoio, dopo essermi svegliato nel cuore della notte, e quel corridoio era buio pesto. Avevamo appena visto un film alla televisione, mi pare fosse Lo squalo, e ricordo che fissavo il buio e continuavo a dirmi: “Adesso arriva lo squalo e mi mangia”.

Quindi una paura del reale, ma provocata dal cinema.
Roberto: Anche per me arriva dal cinema. Ed è strano, perché anche nel mio caso il rapporto con la paura e con il buio è iniziato nel corridoio di casa. Credo sia abbastanza comune, forse perché da piccoli cresciamo lì dentro ed è facile che le paure si annidino tra quelle mura. Ancora oggi, quando torno a dormire nella casa in cui sono stato bambino, ho paura del corridoio che porta alla camera da letto dei miei, dove erano ambientate le prime storie di terrore che mi raccontavano i miei cugini più grandi, quando ci incontravamo a Natale. Mi dicevano: “Guarda, lì in fondo c’è la fata della casa”. Oppure c’era la strega, la befana. Ed erano sempre in fondo al corridoio di casa mia: quindi in fondo al buio qualcosa mi aspettava e prima o poi mi avrebbe preso. Quei racconti sono stati il primo assist verso i film dell’orrore.

E mandiamo un saluto ai cugini bulli che hanno dato il via a una carriera. Dunque, il romanzo: quattro storie, quattro bambini che ricordano di una loro vita precedente. L’orrore è generato dal fatto che ci costringete ad immaginare una realtà verso la quale proviamo insieme attrazione e repulsione. Con le immagini però è più facile: qui come ci avete lavorato e su cosa vi siete scontrati?
Lucio: Scontrati poco, perché, avendo scritto un soggetto prima di adattarlo a romanzo, i punti fermi della storia erano già stati discussi. La dinamica che tu hai individuato qui è proprio esasperata: attrazione e repulsione sono il meccanismo che mette in moto la storia e che avevamo già creato scrivendo The Nest. Il senso di orrore deriva proprio da quanto è attraente la situazione in cui si trovano i ragazzi, che è terrificante ma che gli viene venduta come normale, addirittura desiderabile. Per me è questo a rendere il tutto davvero spaventoso, a generare un senso di disagio e di angoscia nel lettore.
Roberto: Quello che pensiamo quando guardiamo un film dell’orrore o leggiamo un libro è che il fascino del male sia sempre più spaventoso quando è rappresentativo di qualcosa di concreto. Quando è metafora di una minaccia che realmente puoi incontrare nella vita. Infatti mi piace tantissimo la figura di Madame Poitier come villain del romanzo, perché porta in scena un universo che è anche gotico, a metà strada tra il fantasy mostruoso e l’orrore sociale.

Nel romanzo torna la figura materna. La cosa mi interessa perché nel vostro immaginario dell’orrore le madri, e in generale l’educazione, rappresentano il ponte verso l’oscurità. Come mai?
Roberto: Bella domanda, molto bella. Perché in effetti anche in The Nest si presenta questa situazione. Ti potrebbe venire da pensare: ma che madri hanno avuto questi due? (ride) Specifico che mia mamma è meravigliosa, e anche quella di Lucio. Credo ci interessi il fatto che la madre sia un po’ l’ago della bilancia della sanità mentale di un bambino e poi di una persona. Il modo in cui sarai pronto ad affrontare il mondo dipende da quello: se sei fortunato ti capita la mamma di The Nest, un genitore disposto a tutto per darti le armi con cui affrontare il mondo quando non è un posto bello. Nel caso dell’Innocenza del buio troviamo la situazione opposta: raccontando due epoche diverse, abbiamo messo in scena l’assenza dell’amore e della protezione. C’è chi non ha avuto i genitori, chi li ha persi, chi li ha avuti buoni ma comunque non in grado di prendersi cura di loro.
Lucio: Per quanto mi riguarda la figura della madre è molto spesso presente nei soggetti che Roberto mi porta, e per me rimane l’occasione per raccontare un conflitto che mi sta molto a cuore: quello che ha un adolescente quando cresce. Il tuo principale rivale durante l’adolescenza è il mondo degli adulti, che sta cercando di importi le sue regole. A volte sono regole sbagliate, gratuite e perfino violente. Ma piano piano, nella vita, imparerai a vederle come normali. Nell’adolescenza, però, il dolore vivo del compromesso è ancora forte. Quindi per me le figure genitoriali servono a raccontarlo, e questo aggiunge intensità alla storia.

Roberto raccontava a Rolling il desiderio di confrontarsi con il genere “casa stregata” in stile The Conjuring di James Wan. Il romanzo sembra un primo passo, quantomeno letterario, in quella direzione.
Roberto: Sì, hai detto una cosa giusta. Anche perché non nascondo il mio obiettivo, che è sempre stato quello di arrivare ad adattare il romanzo in formato cinematografico. A questo punto lo dico chiaramente: mi piacerebbe che fosse la mia prima serie. L’universo “case stregate” in Italia non si affronta per niente, anche perché è difficile trovare un tema che non risulti derivativo. In questo caso noi non corriamo il rischio, perché abbiamo un tema originale: non mi viene in mente un altro film dell’orrore che affronti la questione delle vite passate con un’impostazione simile, e se non lo ricordo la dice lunga, perché vedo centinaia di prodotti horror.

Roberto De Feo sul set di ‘The Nest – Il nido’. Foto: Vision Distribution

Ormai un po’ conosciamo i “genitori” del vostro gusto quando parliamo di cinema di genere. Nel caso della letteratura horror, invece, quali sono le influenze?
Lucio: Tutti e due siamo inciampati su Stephen King, è innegabile. Altri miei riferimenti: Clive Barker mi ha influenzato tantissimo quando ero adolescente, poi Ray Bradbury, Borges, Kafka e Lovecraft.
Roberto: Io te ne dico solo due su tutti: Stephen King e Lovecraft. King naturalmente è anche il ponte tra letteratura horror e cinema, perché negli anni Ottanta e Novanta la maggior parte degli horror sviluppati e prodotti dal cinema erano basati sui suoi racconti. Quello era il suo periodo d’oro ed era impossibile che la nostra passione non passasse da lui.
Lucio: Lo stile scelto per il romanzo si rifà tanto a quello di King. È uno stile che crea un’intimità fortissima con il lettore, ed era un calore necessario a questo tipo di storia.

Volendo scomodare i classici io avrei pensato anche a Mary Shelley, per la tematica della rinascita macabra e il rapporto tra scienza e terrore, ma anche allo stile razionale e distaccato di Edgar Allan Poe.
Lucio: Non abbiamo pensato coscientemente agli autori che hai citato, però in effetti in diversi passaggi ho pensato a Shirley Jackson. Non solo perché la storia ricordava da vicino L’incubo di Hill House, ma anche perché lei ha questo stile distaccato e allo stesso tempo molto vicino ai personaggi. E noi dovevamo trattare dei personaggi con molti segreti, quindi l’approccio di Jackson rappresentava la distanza più corretta da tenere tra noi e loro.

Credo che una sfida importante, nel passaggio da sceneggiatura a romanzo, fosse la gestione del doppio strumento di narratore e punto di vista. Voi avete scelto una terza persona con punto di vista mobile. Era la formula giusta perché?
Lucio: Credo proprio perché i personaggi avevano dei segreti, quindi ci sono delle cose che non potevamo svelare. Se raccontiamo un personaggio in soggettiva e omettiamo di riportare i pensieri e le sue reali intenzioni, stiamo imbrogliando il lettore. Quindi la terza persona era la maniera migliore per mantenere questo mistero, e ci ha consentito di osservare un personaggio dall’esterno, poi entrare nella sua testa e poi uscire di nuovo.

La prima persona, ovvero una storia di paura in soggettiva, che scenario avrebbe aperto?
Lucio: Su un racconto corale sarebbe stato complicatissimo, un grosso mal di testa. A un narratore in prima persona ti affezioni perché ha un punto di vista molto presente, soprattutto su un romanzo di quattrocento pagine. Ma fare la spola tra diversi narratori in prima persona ho paura che sarebbe stato troppo per il lettore.

Questo è stato presentato come un romanzo cinematografico e visivo: per voi cosa vuol dire, nel concreto?
Lucio: Che questa storia è stata pensata per il suono e per le immagini, anche se è stata adattata alla pagina. E poi significa che si è portato nella scrittura lo stile della sceneggiatura: quella è una tecnica che si impara e che si può applicare anche al romanzo. Ecco, nella nostra intenzione la scrittura dovrebbe evocare nella testa del lettore delle immagini molto visive.
Roberto: Io credo ci sia una distinzione evidente di stile tra la prima parte, che sembra quasi una sceneggiatura, e quello che succede lentamente nella seconda parte, dove prende davvero forma il romanzo.

Personalmente non amo la narrativa a quattro mani, ma parliamone: che vantaggi avete riscontrato?
(Ridono) Nessuno.
Roberto: Infatti è stato un puro caso, non è che abbiamo intenzione di fare un percorso di scrittura insieme. Io non sono uno scrittore, voglio fare il regista. Per me è stato un esperimento, ed è bellissimo sapere di aver scritto un romanzo che spero di trasformare in una serie o in un film. Oggi noto che comprare i diritti di un romanzo va quasi di moda, quindi è stato fico. La proposta di Sperling mi è sembrata un assist perfetto per una storia che altrimenti avrebbe molto difficilmente trovato spazio all’interno del mercato cinematografico italiano, e invece ora si spera che possa avere una spinta in più.
Lucio: La vera parte fica è stata il poter discutere insieme l’aspetto più difficile dell’ideazione di un romanzo, ovvero la scaletta: quello che doveva succedere e gli intrecci. Quando scrivo da solo quella fase mi prende molto più tempo, perché è una parte di studio.

Ma insomma, avrete litigato almeno una volta?
(Ridono)
Lucio: Abbiamo litigato all’inizio. Poi, una volta prese le decisioni che dovevano essere prese, è stata tutta in discesa.
Roberto: Noi non litighiamo mai per le storie, litighiamo per altro.
Lucio: La cosa più simile a una litigata è stata quando a un certo punto Roberto voleva piazzare dei jumpscare in scrittura, del tipo “si vede una figura e si sente un rumore inquietante”. No, non funziona in un romanzo!

Grazie a The Nest e A Classic Horror Story vi siete fatti notare per bene. Si è creata una certa aspettativa attorno a voi: con l’uscita (rischiosa) del romanzo, non c’è l’ansia di deluderla?
Lucio: Io sarò presuntuoso, ma credo tantissimo nel romanzo, quindi non ho nessuna ansia.
Roberto: Te la faccio venire io l’ansia, Lucio. Donato Carrisi ultimamente mi ha detto che è come vincere al SuperEnalotto. Niente di più e niente di meno: è talmente difficile avere successo in questo campo, che bisogna investire. E ovviamente investire su due autori al primo romanzo, e su una storia horror con il mercato che c’è in Italia, è davvero difficile. Per questo ti dico che ci vogliono sempre gli investimenti se vuoi far parlare di te, e noi per il primo film avevamo alle spalle Vision, Sky, Universal Pictures e Colorado, un team incredibile. Infatti, nonostante l’uscita il 15 agosto, abbiamo fatto il miglior incasso di sempre per un’opera prima horror italiana. Per quanto riguarda il secondo film, avevamo Netflix alle spalle. E infatti, nonostante ci abbiano fatto uscire a un mese e mezzo dalla fine del più grande lockdown della storia dell’umanità, abbiamo comunque fatto numeri enormi all’estero e anche in Italia. In questo caso abbiamo Sperling & Kupfer, che è la punta di diamante del settore, e siamo di nuovo fortunati. Solo che, a differenza del mercato cinema di cui conosciamo alla perfezione le regole, nel campo dell’editoria mi trovo un po’ spaesato. Bisognerà aspettare. La risposta alla domanda “come sta andando il libro?” richiederà tempo.

Carrisi lo ha già letto?
Roberto: Lo leggerà in questi giorni. Poi il romanzo avrà la fascetta con una quote di Gabriele Mainetti, che non ha bisogno di presentazioni.

Un ritratto di Lucio Besana

Il libro è dedicato a qualcuno?
Lucio: Abbiamo ringraziato le persone a cui abbiamo pensato di più durante la scrittura, ma no, non è dedicato a nessuno.

Neanche alla madre o ai cugini di Roberto?
(Ridono) Lo dedichiamo a te, va’.

Arrivati a questo punto vi confesso che io sono una di quelli che “l’horror anche no”, principalmente perché non voglio pensare a quello che mi mostra. Questo perché, se poi ci credessi, sarebbe un problema. Quindi per me l’horror che funziona è quello che mi costringe a credere in qualcosa che rifiuto di considerare. Per voi?
Roberto: Io sono d’accordissimo con te. Però ti dico anche che quando l’horror lo fai, you have to fit in the market, ovvero devi entrare nel mercato e farti spazio. Quindi devi anche capire quello che il pubblico e i produttori vogliono. E adesso va di moda il cosiddetto elevated horror, che si basa molto su temi sociali e diventa metafora della vita e delle problematiche attuali. Per questo motivo The Nest parla di famiglia, di crescita, di rapporto tra madre e figlio, e A Classic Horror Story parla della pornografia del dolore e dell’utilizzo malato dei social media. Roba che possiamo trovare nella vita di tutti i giorni e che si allontana un po’ dal concetto di horror di cui parli tu, che è anche il mio preferito, ma che al momento è considerato old school. Lo fanno solo gli americani, perché purtroppo può permetterselo solo il loro cinema. Pensiamo all’ultimo caso con L’esorcista del Papa, ma anche a The Conjuring o al prossimo capitolo di Insidious.
Lucio: Io invece sono ancora legato a un’idea di horror più punk, cioè l’horror come valvola di sfogo per dire cose che non diciamo nelle conversazioni di tutti i giorni. Una maniera per parlare dell’indicibile, dei tabù. Ecco, per me un buon horror è un horror maleducato. Un film come Hellraiser, per esempio, che parla della nostra autodistruzione, oppure Skinamarink, uno dei film che mi sono piaciuti di più recentemente; si rifà all’estetica degli spazi liminali, del nostro disorientamento nel mondo in cui viviamo.

Due che crescono con questo fetish sentono mai il desiderio macabro di ritrovarsi in una situazione al limite?
Roberto: Io l’ho cercata a lungo un’esperienza horror nella vita reale. Stavo studiando alla scuola di cinema di Genova, dovevo fare il corto di fine corso e decisi di girare un documentario sull’onda di ciò che accade ai tre protagonisti del film The Blair Witch Project. Sono partito per Triora, questo famosissimo paese delle streghe in provincia di Imperia. Mi sono ritrovato nel bosco con il mio compagno d’avventure calabrese, operatore video del progetto, in quella che è, da leggenda, la casa delle streghe. Ho vissuto la notte peggiore della mia vita. Mi son cagato talmente sotto da capire di non voler più andare a cercare l’orrore.
Lucio: Io in un certo senso mi ci sono trovato durante l’attentato a Strasburgo. E la mia risposta è: decisamente no. Per me l’horror è un territorio dove spero di non capitare mai.