Il rap delle seconde generazioni, oltre il Nordafrica | Rolling Stone Italia
pasta a pranzo, börek a cena

Le seconde generazioni hanno qualcosa da dire nel rap, anche oltre il Nordafrica

I nomi più conosciuti in Italia provengono dall'area del Maghreb, ma per capire il fenomeno bisogna ampliare lo sguardo. Ne abbiamo parlato con Doppelgänger, from Roma and Bosnia-Erzegovina

Doppelgänger

Doppelgänger

Foto: Dino Jasarević

Per qualcuno le seconde generazione sono solo l’onda lunga dell’immigrazione: figlie e figli di un’Italia minore e senza diritti, giovani che spesso si sentono divisi e che però alla fine hanno il doppio delle storie da raccontare e lo fanno con un gran fuoco. Nel mondo del rap italiano, per esempio, sono ben rappresentate, non tanto per numeri quanto per nomi.

L’area del Maghreb, l’Africa nord-occidentale, è quella predominante: c’è ovviamente Ghali, che è nato a Milano ma ha origini tunisine, e Zaccaria Mouhib aka Baby Gang, from «Lecco City», di origini marocchine (ma si potrebbe continuare, per citarne un altro, con Sayf). Nella diversità di stili e musica, c’è un tratto comune: prima o poi (ma sempre prima) il rapper di seconda generazione ti dirà da dove viene, ovviamente intendendo il luogo d’origine della famiglia. Nella galassia rap infatti questa ibridazione originaria, chiamiamola così, spesso indicatore di marginalità sociale e istituzionale è qualcosa se non proprio di cui vantarsi, almeno da non nascondere. Ma pure da rivendicare. Fa fare buone barre, sì, ma anche qualcosa di più.

Stacco temporale: novembre 1995. Nella base militare di Wright-Patterson a Dayton, Ohio si firmano i trattati di pace conosciuti come Dayton Peace Agreement o Accordi di Dayton. La Bosnia-Erzegovina e i Balcani finalmente escono dall’inferno della guerra. Ci sono state pulizie etniche, massacri, il genocidio dei bosgnacchi (bosniaci mussulmani) di Srebrenica a luglio dello stesso anno. Fuori dagli accordi di Dayton rimane il Kosovo, Stato tuttora a “riconoscimento limitato” da parte dei membri dell’ONU, che però dichiarò l’indipendenza solo più tardi (nel 2008). Cos’era successo? Per farla brevissima, l’area al di là del mare Adriatico riconoscibile come Balcani occidentali si frantuma in tanti Paesi diversi, quelli attuali. Passa cioè da essere Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, o Jugoslavia, (terra degli slavi “slaven” del sud “jugo”) ai sei stati attuali: Croazia, Slovenia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina, Serbia e Montenegro.

A raccontare tutta questa storia sanguinaria e dolorosa in modo nuovo è Doppelgänger, al secolo Alen Đokić, rapper romano di seconda generazione che, plot twist, ha scelto di non parlare solo dei temi della street life ma anche di guerra, di religione e di quelle che sono le sua seconde case, la penisola balcanica e la Bosnia-Erzegovina (c’è anche Il Ghost a rappresentanza dell’area, nato in Kosovo nel ’98). Nel suo ultimo pezzo, Jugoslavia (uscito a fine luglio), Doppelgänger spiega quanto dicevamo sul ’95 poco sopra. E cioè il disfacimento della RSF di Jugoslavia, tenuta insieme fino al 1990 dall’immagine del generale Tito (morto nel 1980). «Siamo come la Jugoslavia, divisi e tutti a pezzi, a volte vorremmo solo una casa ma ci sentiamo persi».

Doppelgänger

Foto: Dino Jasarević

Parlare di questi temi per Alen è stato qualcosa di spontaneo. Qualcosa che «corrisponde, forse, anche alle necessità delle persone che mi ascoltano, bosniaci, macedoni, serbi, albanesi ecc. di sentire raccontare la nostra storia, la storia dei Balcani». È a loro che si rivolge infatti esplicitamente in BLKN BLD VI, quando sull’intro di musica strumentale balcanica li chiama all my balkan brothers.

«Credo di essere il primo a fare questo tipo di musica in Europa. Cioè, magari ci sono ragazzi che sono di seconda generazione che vengono dalla Bosnia o dall’Albania, ma nessuno prova a metterci questo contenuto. Loro fanno pop». Senza scomodare ora troppo le seconde generazioni che tanto hanno ancora da fare, se guardiamo alla musica in generale, a rappresentare da sempre i Balcani nel mondo è un compositore nato proprio in Bosnia-Erzegovina da madre serba e padre croato, Goran Bregović. Bregović ha lavorato con il regista bosniaco Emir Kusturica, ha fatto feat con gente tipo Iggy Pop e i Gipsy Kings. Insomma, tanta roba, ma quasi sicuramente ha contribuito a una riduzione semplicistica del suo Paese e di tutta l’area nel regno del folklore. Raccontandone sì le atmosfere popolari e tradizionali, ma suggellandone anche un’immagine da stereotipo e per molti mai del tutto decodificabile. In sostanza, forse, anche respingente.

E il punto è anche un altro: è davvero giusto ridurre la musica e la cultura balcanica al solo folk o turbo-folk (definizione questa del cantante montenegrino Rambo Amadeus, rappresentante del Montenegro all’Eurovision Song Contest 2012)?

Boh. Per chi si stia chiedendo che cosa sia il turbo-folk, si può pensare a un atto di attacchinaggio: come i manifesti per strada, la musica folk tradizionale serba si può piazzare – generalmente stampellata – un po’ su tutti gli altri generi. Il risultato va valutato caso per caso, e sicuramente già così fa venire dubbi. Doppelgänger, invece, ha capito che era tempo di cambiare sia la musica che il suo contenitore, quando non si era nei Balcani. Il tutto, proprio per parlare dei Balcani. E per dare spazio ad altre seconde generazioni, non afrodiscendenti.

«O sono immigrato o sono la diaspora»: questa è Diaspora, dove affonda nel dilemma esistenziale di chi nasce in un paese che non è quello dei suoi genitori. «Essere figlio di immigrati è un dato di fatto e non è offensivo», ci racconta. «Ma per me si è trattato di una vera diaspora. Tornavo in Bosnia e non mi sentivo accettato». E se il razzismo non lo tocca da vicino – «Per me l’Italia non è un paese razzista è un paese ignorante», e aggiunge, «noi però ci siamo salvati dal razzismo vero perché non siamo neri, come dice mia suocera» – l’islamofobia o l’odio anti-musulmano invece sì. Un elemento di discriminazione, almeno per chi sa che in Bosnia, e per esempio in Albania, circa il 50% della popolazione è di religione islamica o musulmana sunnita. Se si va a Sarajevo, la capitale della Bosnia-Erzegovina, per esempio ci si stupirà della quantità di moschee del centro città. Uno skyline difficile da immaginare, ma che risulterebbe un po’ come: Istanbul piazzata a capitale della Svizzera.

E qui sia apre una uno squarcio su temi come il multiculturalismo, la multietnicità, la multireligiosità che si è avuta per secoli in questa parte del mondo. Luoghi come Sarajevo, dove la dominazione ottomana ha lasciato eredità antiche quanto l’impero austro-ungarico, sono emblemi di convivenza ancora tabù per l’Europa delle destre che pensano che l’islam sia Oriente. Sarajevo è il luogo dove è scoppiata la Prima Guerra Mondiale, sapete, il ponticello, Gavrilo Princip, l’arciduca… va be’, andiamo tutti a ripassare. «L’Europa vede l’Islam come qualcosa di lontanissimo, ma la storia dimostra che non è così» dice Alen. «Guarda la Spagna delle tre culture! L’impero ottomano ha dominato per secoli in Europa e il punto è questo: l’Europa non è la Francia, la Germania o l’Italia, l’Europa parte dalla Moldavia e arriva fino al Portogallo, va da Capo Nord fino a Cipro. La gente se lo deve ficcare in testa».

Mentre ristabiliamo i confini geografici dell’Europa, almeno nelle nostre teste (sia la Bosnia che l’Albania sono comunque in attesa di entrare nell’Unione Europea, però non si sa quando) ci sono tante altre elaborazioni da fare e Alen si è portato avanti, anche grazie alla sua doppia origine, inscritta nel nome che ha scelto, Doppelgänger (l’Io-ombra della letteratura romantica tedesca). Un nome che «Non è volutamente bosniaco o italiano», ma che indica questo essere metà e metà che poi sfocia in un «non essere tutto», come rappa in Cuore a metà. Pensandoci però, metà è una parola che forse non si incastra benissimo con le seconde generazioni in generale, perché sottende che solo sommando le due parti si ottenga un intero.

Forse è come si sentono, certo, sospesi nel cadere nella frattura che c’è tra il luogo di nascita e quello di provenienza della famiglia. Ma se non cadono e riescono a vivere entrambe le realtà, sì ritrovano più che con due metà: con un doppio, qualcosa in più. Due lingue, due posti da chiamare casa, due tradizioni gastronomiche. E poi qualcosa da dare: la convivenza in primis, perché tengono insieme “questo e quello”, così il fegato dei sovranisti si gonfia per bene.

Doppelgänger allora, con quel doppel, da doppio, si è conosciuto per bene. «Ho incontrato gente che ripudiava le proprie origini. Non per vergogna, per il troppo dolore, la troppa fame, la troppa povertà. Io invece la vedo così: oggi posso tifare la Bosnia e posso tifare l’Italia. Posso mangiare la pasta a pranzo e il börek a cena».

Altre notizie su:  Doppelgänger