La chiave del successo di Sir Paul Smith | Rolling Stone Italia
Interviste Culture

La chiave del successo di Sir Paul Smith

Abbiamo parlato con il designer e imprenditore inglese di moda, musica, ciclismo e delle sue mille altre passioni – senza tralasciare temi d’attualità quali la Brexit e l’istruzione – finendo per scoprire come un piccolo incidente di percorso può trasformarsi in un’enorme opportunità

La chiave del successo di Sir Paul Smith

Ho letto che prima di fare il designer sognava di diventare un ciclista professionista, fino a quando, a 17 anni, si ruppe il ginocchio. È felice di esserselo rotto, quel ginocchio?
Beh, come risultato di quell’incidente, sono accidentalmente caduto nel mondo della moda. Il mio sogno di diventare un ciclista professionista è stato archiviato, ma quell’inconveniente mi ha aperto a nuove opportunità. Mentre ero in ospedale, ho conosciuto alcuni studenti d’arte della zona, che mi hanno introdotto a un nuovo mondo fatto di creatività. Andavamo al pub e, per la prima volta, sentivo parlare del Bauhaus e di tutte queste correnti creative. È attraverso queste persone che ho avuto il mio primo contatto con il mondo della moda. Mi piace ancora andare in bicicletta e pedalo ogni qualvolta trovo il tempo di farlo, solitamente quando sono vacanze nella mia casa in Toscana. Seguo ancora tutte le grandi gare e ho il privilegio di poter chiamare amici molti ciclisti professionisti come Mark Cavendish e Bradley Wiggins. Non arriverei mai a dire che sono felice di essermi rotto il ginocchio, ma sicuramente sono felice di godere di buona salute e di aver intrapreso la strada che mi ha portato a fare quello che faccio oggi.

Uno degli aspetti che accomuna la bicicletta alla moda è la velocità. Come concetto, apprezza più la velocità o la lentezza?
È tutta una questione di equilibrio. L’equilibrio è stato di vitale importanza per il mio successo: sia che si tratti di bilanciare idee creative con scelte commerciali, il lavoro con il piacere, la velocità con la lentezza e così via. Spesso paragono il mio lavoro al ciclismo – è tutta una questione di spirito di squadra nel collaborare con il tuo team. Nei giorni in cui si corre in collina si supporta il velocista, mentre nei giorni in pianura si aiuta lo scalatore. Nella moda funziona esattamente allo stesso modo.

Lei ha aperto il suo primo negozio a Nottingham quando aveva solo 24 anni e attualmente la sua società possiede più di 300 negozi in tutto il mondo, con un giro d’affari annuale di centinaia di milioni. Al giorno d’oggi, è ancora possibile per un giovane designer competere con le multinazionali del lusso?
Questa è una domanda molto interessante a cui è piuttosto impegnativo rispondere in questo determinato periodo storico. Negli anni ’60 era molto diverso avviare un’impresa creativa rispetto ad oggi. C’erano molte meno persone che pescavano nel “laghetto” che è l’industria della moda. Col tempo, questo settore è diventato incredibilmente competitivo. Personalmente, non ho mai davvero riflettuto su questo genere di argomenti quando ho scelto d’intraprendere questa strada. Niente è mai stato realmente pianificato. Ho lavorato come commesso e poi ho messo su il mio piccolo negozio che, in un primo momento, era aperto solo due giorni alla settimana. È stata una crescita lenta ma sempre autofinanziata e sono molto orgoglioso del fatto che oggi siamo ancora una società indipendente. In realtà, il mio obbiettivo era solo quello di guadagnarmi da vivere facendo un lavoro creativo.

Secondo lei, quali saranno le conseguenze della Brexit per il Regno Unito?
Siamo in attività da molto tempo e abbiamo assistito a tante crisi molto diverse tra loro. È impossibile prevedere quale effetto avrà l’uscita dall’Europa sull’acquisto di beni e servizi o sulla fiducia dei clienti, ma essendo una società indipendente siamo abbastanza flessibili da resistere alla tempesta. Sono rimasto sorpreso come chiunque altro dal risultato del referendum, ma senza dubbio sono fedele all’Europa. Vendiamo in oltre settanta paesi diversi e abbiamo uffici a Londra, Milano, Parigi, New York e Tokyo. La mia collezione maschile sfila alla settimana della moda di Parigi dal 1976 e acquistiamo tessuti provenienti dall’Italia e da altre nazioni europee.

Pur avendo lasciato la scuola a 15 anni, lei è riuscito a diventare uno dei designer inglesi più famosi al mondo, impegno coronato nel 2000 quando è stato nominato cavaliere dalla Regina Elisabetta II. Una delle cause che l’ha spinta a lasciare gli studi è stata la dislessia, problema piuttosto comune tra le persone che svolgono lavori artistici o visivi. Se non fosse stato dislessico, pensa che avrebbe continuato a studiare?
Sinceramente non ho mai realmente capito di cosa si trattasse. Sono sempre stato una persona molto pratica e, nel mio caso, fare esperienza concreta sul campo ha funzionato. Però è una cosa che varia da persona a persona.

Per intraprendere una professione come quella del designer o dell’artista, secondo lei studiare è fondamentale? Oppure è sufficiente fare pratica?
Temo di essere un po’ di parte, ma penso che fare esperienza sia molto importante. Quando i giovani studenti mi chiedono un consiglio, il mio suggerimento è quello di maturare più esperienza possibile sul campo – e se questo significa lavorare in un negozio di abbigliamento nel tempo libero, beh allora fatelo. Io ho iniziato in uno spazio di tre metri per tre, nel seminterrato di un negozio di Nottingham. È cresciuto tutto da lì.

«Ho diverse connessioni personali con queste persone: da Van Morrison, che ha acquistato la mia casa, ai Led Zeppelin e Jimmy Page, con cui ho recentemente collaborato, fino a Bowie e Patti Smith, che ho sempre considerato grandi amici». Questo l’incipit delle tre playlist create per Apple Music, che fa intendere come la musica rappresenti per lei più uno stile di vita che una semplice passione.
Assolutamente. La musica ha influenzato il mio lavoro in tanti modi diversi lungo tutto il corso della mia carriera. Sono cresciuto a Nottingham e la musica è stata il motivo per cui ho iniziato ad andare a Londra – per le serate. Ho quest’immagine di me buttato sul pavimento della casa di un amico all’inizio del carnevale di Notting Hill del 1966. A quell’epoca, Londra brulicava di energia creativa – nella musica, nella moda, nell’arte, in tutti i settori. Restavo in città per qualche giorno e uscivo tutte le sere. A volte stampavo qualche T-shirts a Nottingham da portare con me ai concerti, cercando di venderle alla gente del pubblico. I soldi che facevo li spendevo tutti per pagare la benzina per il viaggio. Gradualmente, ho iniziato a conoscere alcuni ragazzi delle band e ho cominciato a vendere loro i vestiti da indossare sul palco o in giro per le serate. Nel corso degli anni, molte di quelle persone sono diventate famose e la cosa adorabile è che tanti continuano ad acquistare le nostre cose. I musicisti sono cresciuti e siamo cresciuti anche noi. In sostanza, sono passato dalla voglia di circondarmi di musica di quand’ero ragazzo, al vestire le rock star: la musica ha assolutamente influenzato e nutrito il mio lavoro.

Nelle sue playlist ho trovato tanti dei miei musicisti preferiti di sempre: da Patti Smith a Bob Dylan, fino ai Velvet Underground, ma anche Sade! Che ruolo ha la musica nel suo processo creativo?
Quello che ispira il processo varia di stagione in stagione, ma cambia anche il modo in cui ne vengo influenzato. Ad esempio, per la collezione maschile primavera/estate 2017, che abbiamo appena presentato, ho pensato a quei giorni in cui visitai per la prima volta Notting Hill. L’influenza della comunità caraibica era davvero forte, quindi nella fase creativa abbiamo ascoltato tantissimo reggae, che è poi diventato la colonna sonora dello show.

Segue la scena musicale inglese contemporanea? Cosa ne pensa della musica attuale in relazione a quella del passato?
Più che seguirla, la assorbo attraverso le persone più giovani che lavorano con me. C’è sempre musica nel mio studio di design e spesso, quando sento qualcosa che mi piace, tendo le orecchie. Chiedo cos’è, compro l’album e lo aggiungo al mia pila di musica da ascoltare durante le sessioni mattutine.

Colleziona vinili? Cosa ne pensa del fatto che recentemente sembrano essere tornati di moda?
Chiunque abbia visto una foto del mio ufficio a Londra sa che che colleziono più o meno qualsiasi cosa. Per quanto riguarda i vinili, sì assolutamente! Ho la fortuna di avere una delle edizioni limitate del disco trasparente di Speaking in Tongues dei Talking Heads. È stato disegnato da Robert Rauschenberg ed è una delle gemme della mia collezione. Ho sempre amato la musica dei Talking Heads e ho lavorato con David Byrne a vari progetti nel corso degli anni.

Lei è molto apprezzato per i suoi completi su misura, che negli anni ’80 ha contribuito a rendere casual, ma il suo brand produce anche prodotti più economici ed abbordabili. Pensa ci sia una differenza tra l’oggetto inteso come feticcio – il vinile raro, l’opera d’arte, la borsa vintage – e l’oggetto come bene di consumo?
Come ho detto all’inizio dell’intervista, tutto sta nell’equilibrio – trovare un equilibrio tra rarità e disponibilità è senza dubbio la chiave del mio lavoro.

Altre notizie su:  Paul Smith poplife