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Jorge Vacca: «Il problema non è la dittatura, ma l’omologazione del pensiero»

Dopo i processi di 20 anni fa, l’argentino torna con una mostra dedicata al disegnatore Miguel Ángel Martín. Qui racconta la potenza delle sue opere, la vita sotto la dittatura in Argentina, la crisi della controcultura

Foto: Yoko Kinomoto

Non c’è moralismo né morale nelle tavole a fumetti di Miguel Ángel Martín, controverso e pluripremiato artista spagnolo definito dal Time “il miglior disegnatore europeo” e apprezzato in Italia soprattutto per la serie Brian The Brain. Lo afferma da sempre lui stesso, di non essere un militante né un attivista, ed è proprio questo a rendere interessanti le sue opere: ciò che viene messo in scena con un misto di crudezza narrativa, disincanto e semplicità formale è un universo futuristico dove imperversano cattiveria e violenza, la cui natura distopica ci dice molto della società in cui viviamo. Ne sa qualcosa Jorge Vacca, argentino di Buenos Aires trapiantato a Milano che negli anni ’90, per aver pubblicato, primo fra tutti, gli albi a strisce di Martín con la sua Topolin Edizioni – e nella fattispecie Psychopatia Sexualis – finì sotto processo con vari capi d’accusa: istigazione al delitto, al suicidio, pedofilia, oscenità e immagini raccapriccianti. Nientemeno. Vent’anni dopo quell’avventura editoriale, divenuta suo malgrado un’odissea giuridica che all’epoca accese il dibattito pubblico su temi tutt’oggi attuali come quelli della libertà d’espressione e della censura, lo ritroviamo tra i curatori della mostra “Beyond The Dark”, dal 6 al 12 novembre allo spazio The Art Land presso la Fabbrica del Vapore: in tutto 160 tavole di Martín – atteso per l’inaugurazione – che raccontano delle brutture e devianze del presente tratteggiando un mondo in cui quelle brutture e devianze sono degenerazioni collettive ampiamente accettate, asettica routine quotidiana. Il tutto con uno sguardo intriso di amore per la fantascienza, il cyberpunk, il cinema di Cronenberg. Uno sguardo che nel suo tradursi in illustrazioni disturbanti offre spunti di riflessione su temi quali razzismo, violenza, alienazione, sessualità, lotta per la sopravvivenza, esperimenti scientifici, tecnologia, transumanesimo. «Da tempo mi sono reinventato dj di tango, sarebbe questo il mio lavoro, ormai; fino a prima della pandemia ho messo musica in più di 40 Paesi», spiega Jorge. «Poi, però, il coronavirus ha bloccato tutto».

E ora rieccoti nel mondo dei fumetti con quest’esposizione dedicata a Miguel Ángel Martín. Come lo hai conosciuto?
Era il 1991, mi trovavo a una fiera a Barcellona in rappresentanza del Centro Fumetto Andrea Pazienza di Cremona, ai tempi lavoravo per loro come operatore culturale. Con la Topolin avevo già pubblicato Hitler=SS dei francesi Gourio e Vuillemin (opera sull’Olocausto che era già finita in tribunale in Spagna e proibita in Francia, nda), quando un amico comune, spagnolo e al corrente delle mie tendenze editoriali, mi mostrò due opere di Martín, Brian The Brain e Psychopathia Sexualis. Rimasi folgorato.

Cosa ti colpì, in particolare?
Il contrasto tra il suo segno così pulito, bianco, innocente, e la crudezza del contenuto. Non avevo mai visto niente di più potente, avevo davanti non solo un grande disegnatore, ma un autore che riusciva a tirarti un pugno nello stomaco. Perché Martín ci mostra una violenza di cui nella nostra società ci sono già i germi. E lo fa sottolineando contrasti che non possono lasciare indifferenti, vedi il personaggio di Boris in Life Fading, uno che per mestiere pratica l’eutanasia e che contemporaneamente è un donatore di seme: toglie la vita e la dà. Per non parlare di come, in Brian The Brain, viene illustrata la paura del diverso.

Il diverso è Brian, un bambino dotato di poteri extrasensoriali, ma nato senza calotta cranica a causa degli esperimenti cui si è sottoposta la madre, la quale si guadagna da vivere come cavia da laboratorio. Per quella malformazione viene deriso e maltrattato da tutti, ma in un ribaltamento di prospettiva e di scenari è in realtà l’unico a mostrare una sensibilità.
Una sensibilità che chi lo vessa non possiede. E anche un’intelligenza, direi. È proprio questa la forza delle opere di Martín: urtano, ma in un modo che spinge a riflettere.

Dissacrare la realtà per svelarla senza ipocrisie, costringendoti a una resa dei conti con te stesso. Per molti è solo cattivo gusto: hai capito perché?
È una questione di pregiudizio verso un tipo di lettura, di immagini, di operazione artistica cui non si è abituati. E ancor prima è una questione di paure: parliamo di tavole che impongono ai lettori un confronto con se stessi. C’entra anche il linguaggio del fumetto, in quanto forma espressiva che tra una vignetta e l’altra lascia uno spazio bianco: è in quello spazio bianco che noi uniamo i puntini e creiamo il nesso tra le vignette, ed è in quello spazio bianco che risiedono la nostra immaginazione, il nostro bagaglio culturale, i nostri pregiudizi, il nostro conformismo. E allora le reazioni sono due: da una parte c’è chi considera Martín geniale, dall’altra chi non riesce nemmeno a leggere i suoi fumetti e li bolla, appunto, come di cattivo gusto. Ma lì secondo me interviene il timore di chiedersi: quanta paura ho io del diverso?

L’edizione italiana di Psichopathia Sexualis, pubblicata dalla tua Topolin, fu posta sotto sequestro dalla magistratura nel 1995. Poi nel 2001 fosti assolto “perché il fatto non sussiste”. Ricordo che ti entrarono in casa e…
Quello che successe mi traumatizzò per diverso tempo.

Ti va di raccontare?
Una sera arrivo a casa e vedendo che la porta è stata buttata giù penso a dei ladri. Entro e trovo un casino di gente e tutta la mia roba per terra. Poco dopo scopro che si tratta della Digos e della polizia municipale. Chiedo il motivo di una perquisizione così violenta, ma non rispondono, mi dicono solo “lo saprai dal giudice”. Non potevo crederci, non capivo, non sapevo se cercavano droghe, armi, terroristi, mafia o cos’altro. Mai mi sarei immaginato che volessero i fumetti editi dalla Topolin.

E invece…
Poco tempo prima il Comicon di Napoli aveva dedicato una mostra a Miguel Ángel Martín e mi aveva spedito delle tavole originali: le trovano e sembrano soddisfatti, ma poi mi fanno andare in cantina, dove avevo la maggior parte degli albi pubblicati, ed è lì che avviene il sequestro vero e proprio, si prendono anche vari oggetti personali. Infine mi portano al comando e m’informano che sono venuti per una denuncia anonima, che le accuse sono molto pesanti e che c’entra la pedofilia.

E tu?
Sentendo un’accusa così infamante esplodo, provo a spiegargli chi è l’autore di quei fumetti, i suoi premi, le sue mostre, ma niente: la risposta era che avevano un mandato e che bisognava aspettare degli “specialisti” sull’argomento. I quali, una volta arrivati, guardano con superficialità gli albi e soffermandosi soprattutto su Brian The Brain decidono che è di contenuto pedofilo. La spiegazione – non lo dimenticherò mai – fu questa: “Ci sono troppi bambini insieme”. Poi mi comunicano che il materiale resta sequestrato, ma che mi fanno il favore di lasciarmi a piede libero. Con tutta quell’adrenalina addosso torno a casa, preparo un comunicato e invio fax a tutta la stampa nazionale. Due giorni dopo iniziano a uscire articoli e vado al comando a prendermi beffa dei poliziotti per il granchio che avevano preso, qualcuno si dispiace, ma… “L’ordine del giudice era quello”.

Poi c’è stato il processo.
I processi. E pure lì non è stato facile, con tutto il materiale sequestrato non avevo modo di sopravvivere, né di pagarmi gli avvocati. Per fortuna Davide Toffolo organizzò un festival per la Topolin Edizioni a Pordenone, vi parteciparono diversi artisti locali, dai Tre Allegri Ragazzi Morti a Elisa. Ricevetti manifestazioni di solidarietà (anche da parte di Milo Manara, Enrico Ghezzi, Aldo Busi, Oliviero Toscani e altri, nda). I 99 Posse mi portarono con loro in tour permettendomi di vendere merchandising e altro. Sì, i processi furono lunghi, a un certo punto ci fu un ricorso e dovetti ricominciare daccapo. Vinsi dopo anni, ma intanto la Topolin non aveva più risorse per continuare a esistere, così fondai La Cueva (No-Art) Gallery, nella casa occupata di via Vigevano, a Milano.

Il punto è: alla fine quel tentativo di censura portò fortuna a Martín, oggi pubblicato nel nostro Paese da NPE (Nicola Pesce Editore), ma in generale il desiderio di censura non è scomparso. Hai seguito la vicenda di “Charlie Hebdo”? Vicenda mai chiusa, come dimostrano i recenti fatti di cronaca.
Sì, terribile, conoscevo Georges Wolinski, il direttore della rivista morto nell’attentato, è una storia che mi ha sconvolto e che purtroppo continua. La prova che una penna, una matita, un segno, possono avere davvero un potere enorme.

Jorge Vacca

Perché, secondo te, non è giusto porre un limite all’espressione artistica?
Perché ciascuno deve essere libero di scegliere come vivere, cosa pensare, cosa leggere, cosa scrivere, cosa disegnare, cosa guardare. Perché se inizi a censurare una cosa, allora tutto diventa censurabile. Perché la censura alimenta l’autocensura.

Pure l’invocazione del politicamente corretto cui assistiamo sempre più da qualche tempo a questa parte può avere lo stesso effetto, o no?
È una deviazione pericolosa, anche perché l’autocensura porta a sua volta all’omologazione del pensiero, che è la cosa più preoccupante. Accade ancora anche nel fumetto, ci sono autori che dicono ciò che vogliono dire lasciandolo tra le righe, e questo è quel che succedeva in Argentina sotto la dittatura militare, quando i musicisti, non potendo esprimersi liberamente, lanciavano messaggi tra le righe delle canzoni. A me viene da ridere quando in Italia si evoca la dittatura, perché io la dittatura l’ho vissuta, ma riconosco che esistono meccanismi subdoli che preferirei non vedere.

Tu l’hai vissuta da ragazzo, la dittatura militare che in Argentina, tra il 1976 e il 1983, portò alla scomparsa di circa 30 mila persone.
Purtroppo me la sono vissuta tutta, la dittatura, tra i 16 e i 23 anni: è stata dura. Finivo tutti i giorni al commissariato o picchiato dalla polizia, e solo perché avevo l’orecchino e i capelli lunghi. Cose banalissime, è solo fortuna se non sono finito tra i desaparecidos, perché allora se eri giovane eri un sovversivo, fine: era sufficiente camminare per strada per ritrovarsi a terra con un mitra puntato al collo.

Poi te ne sei andato.
Non appena mi è capitata l’occasione. Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione avevo iniziato a lavorare come giornalista freelance e a occuparmi di fumetti. Durante un’intervista di due giorni a Hugo Pratt a Buenos Aires, in giro per i luoghi dove aveva vissuto, lui mi disse che se avessi voluto venire in Italia avrebbe potuto trovarmi un posto alla rivista Corto Maltese, allora diretta da Fulvia Serra. Così nel 1987 venni a Milano, solo che una volta in redazione mi resi conto che nessuno sapeva chi fossi! Ma poi chiamai Pratt e di lì a poco cominciai a lavorare per il Centro Fumetto Andrea Pazienza di Cremona.

Hai fatto in tempo a conoscerlo, Pazienza? È morto un anno dopo il tuo arrivo in Italia.
Sì, ma non l’ho mai incrociato. Però l’ho sempre amato, all’epoca Pompeo mi aveva lasciato a bocca aperta, anche Pentothal. Nelle sue opere il tratto autobiografico era centrale.

È un po’ che l’autobiografia a fumetti va di moda, hai notato?
Non mi piacciono, però, le storie a fumetti intimiste dei primi Duemila, con la vignetta in cui cade la foglia e quella successiva in cui il vento la porta via (ride). La raffinatezza a volte può essere bella, ma rischia facilmente di scadere in un virtuosismo fine a se stesso. Sono più per le cose sanguigne, penso a Vita da bambina, in cui l’americana Phoebe Gloeckner racconta degli abusi subìti dal patrigno (il volume fu pubblicato dalla Topolin nel 1999, nda).

Ultimamente si parla molto di Fumettibrutti, l’autrice di P. la mia adolescenza trans.
Bello. Di mio amo Squaz e AkaB, grande talento che purtroppo ci ha lasciati. E i classici: José Muñoz, Alberto Breccia (che col figlio Enrique disegnò La vida del Che, su Che Guevara, altra pubblicazione Topolin, nda)

La mostra “Beyond the Dark”

Negli anni 90 i fumetti della Topolin circolavano perlopiù nell’ambiente dei centri sociali. Siamo in un’altra era?
Diciamo che dopo il 2005-2006 i centri sociali non hanno più avuto la forza che avevano un tempo di continuare a produrre controcultura. Qualcosa è rimasto, in giro ci sono ancora dei Miguel Ángel Martín. A Milano ci sono i ragazzi che organizzano l’AFA, che è un po’ la prosecuzione dell’Happening Internazionale Underground ai tempi promosso da Marco Teatro. Ma è tutto molto, molto più sotterraneo.

Underground, controcultura: come mai queste parole sono diventate così desuete?
In Italia nel luglio 2001 c’è stato il G8 di Genova, con gli scontri, con la morte di Carlo Giuliani. E nemmeno due mesi dopo, l’attentato alle Torri Gemelle. Da lì in avanti, sempre di più, lo spirito delle controculture si è un po’ spento: pian piano i governi hanno infiltrato la paura nelle persone, la paura del terrorismo, la paura degli immigrati… È come se con la scusa del pericolo si fossero presi la libertà di fare ciò che gli pare. E non scordiamo che qui il berlusconismo ha fabbricato valori che non sono valori e cose che distraggono, che spingono la gente a inseguire la futilità.

Un’ultima domanda: nelle sue opere Miguel Ángel Martín affronta anche il tema del nostro rapporto con la tecnologia e la sperimentazione scientifica; da questo punto di vista cosa vedremo alla Fabbrica del Vapore?
Ci sarà molto anche di questo – mutazioni fisiche e tecnologie, nanotecnologia, microchip nel cervello –: Martín ha sempre visto avanti. Basti pensare che in certi suoi fumetti degli anni 90 c’erano già i droni, che servivano per la vigilanza. E che il suo Rubber Flesh, del ’93, racconta di una donna, programmatrice di una multinazionale, che è una specie di cyborg con il corpo in biosilicone, materiale che oggi stanno sperimentando nel campo delle protesi. Sono tematiche su cui Martín non prende una posizione: più che altro, partendo da una fascinazione, ti mostra le conseguenze sociali che possono avere certi sviluppi tecnologici. Nel bene e nel male.

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