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Torna “La Divina” Isabella Santacroce: «Animali meglio degli uomini»

L'autrice del nuovo romanzo 'La Divina' è stata definita da Baricco come la "scrittrice del futuro". Nascosta nella sua casa di Riccione, ci ha raccontato perché la letteratura può trasformare la "squallida prosa del quotidiano" in poesia

Ottenere un’intervista è un’impresa, incontrarla una grazia ricevuta dopo estenuanti lusinghe, provare a indagare nel suo privato un dogma inviolabile. Isabella Santacroce è la dark lady per eccellenza della letteratura italiana, devota all’alfabeto e in ascesi verticale verso “la luce”, la grande arte, ciò che non si può e non serve spiegare perché lampante, scioccante. Fluo, come il titolo del libro d’esordio che nel ’95 la consacrò fra gli autori più interessanti della “Gioventù cannibale”.

Sono passati 24 anni dalle storie di giovani degli anni novanta, attraversati da esistenze accelerate, dissipatorie, irresponsabili, trasgressive e sognatrici. Ora la ricerca in scrittura – all’ennesima pubblicazione – l’ha condotta fino all’università di Tor Vergata a Roma, in una giornata di analisi che ha coinvolto numerosi docenti (e persino un tenore) nella presentazione del nuovo libro: La Divina. Un volume che non troverete in commercio, ma ordinabile online in edizione di pregio, grazie alla sua casa editrice Desdemona Undicesima.

Isabella è una monaca anacoreta, che ha per convento la casa natale di Riccione, dove si è accolti da gigantografie di spettacoli di Pina Bausch, grandi cerchi dipinti sulle pareti, amabili mobili di modernariato e strutture d’acciaio nero, inquietanti fari puntati in varie direzioni, gelsomini che romanticamente si arrampicano intorno alla porta finestra e cervi di gomma a grandezza naturale che pascolano in mezzo a musica elettronica a volte piuttosto violenta.

L’edizione deluxe de ‘La Divina’, l’ultimo romanzo di Isabella Santacroce

“Modificare la vita fino al punto da annullarla, sostituendo un ideale di poesia alla squallida prosa del quotidiano”. Fedele all’amato Huysmans, qui passa il suo tempo contemplando il demone del perfezionismo in lunghe nottate solitarie. Unica finestra sull’esterno, il confronto costante via social con i lettori, che la sostengono con ammirazione. “Qualsiasi cosa subisca, la subisce senza violenza, perché la violenza non può impadronirsi dell’Amore. Qualsiasi cosa faccia, la fa senza violenza: in ogni cosa ciascuno consente a obbedire all’Amore” si legge in epigrafe de La Divina. Parole di Platone, che Isabella sente proprie fin da quando era una bambina taciturna e suor Maria le insegnò a “parlare con la scrittura”. Poi scoprì che “l’alfabeto è pieno di proiettili, la mia mente il suo fucile” e adesso che “per me scrivere è partecipare a una seduta spiritica” ha dedicato il libro a Ludwig, il re dei cigni, visto che condivide con il sovrano di Baviera il giudizio sugli animali: “Sono meglio dell’uomo”.

Al suo cospetto, magnetica e incantatrice, ci si perde in uno stato di sospensione simile all’assenza di gravità. Conclusa la conversazione, infatti, rimane un dubbio: che sia avvenuta davvero? E nella mente riaffiora il finale de Il canto della danza in Così parlò Zarathustra: «Si è fatta sera: perdonatemi che si sia fatta sera!».

Isabella, innanzitutto: giuri di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità?
Sì, lo giuro sulla gnoseologia.

Che cos’è per te la verità?
Conoscenza di un’allucinazione.

E la giustizia?
Un’utopia dell’onestà.

Ho esordito con questa formula processuale perché mi sembra che per te le interviste somiglino più a un interrogatorio che a una chiacchierata. Come mai?
Credo nell’inutilità di qualsiasi conversazione, del dialogo che non sia assurdo, e nel vaniloquio come unico colloquio verosimile.

Non conosci la solitudine?
Vivo da sola, ed è uno stato di grazia, una benedizione. Non esco quasi mai. Emily Dickinson mi capirebbe. Dedico la mia vita alla letteratura, le sono completamente devota, non c’è spazio per altro, sto sempre con lei. Ricerco la perfezione di ogni singola frase, ne curo il suono e il ritmo, sono molto esigente, nulla mi basta. Sono severa con me stessa, non mi elogio mai, e credo sia questa la mia forza, pensarmi ancora bisognosa di migliorarmi, di superarmi, di scoprire le infinite possibilità offerte dall’alfabeto e dal mio cervello. Forse questa solitudine che sento appartiene agli aironi.

È appena uscito La Divina, che hai definito “il mio canto solitario”. Innanzitutto, come mai non senti di appartenere a qualcosa? A un genere, a un movimento, a un’epoca.
Penso così alla mia scrittura perché a nulla somiglia. Alessandro Baricco l’ha definita scrittura del futuro. Da queste sue parole sono trascorsi tanti anni, e ancora quel futuro non è arrivato. Non credo di appartenere neppure al futuro, ma solamente alla mia letteratura.

Il libro è dedicato a re Ludwig II di Baviera, il monarca considerato pazzo e deposto, che un giorno disse: «Voglio rimanere un eterno enigma, per me e per gli altri». Sembra rispecchiare anche il tuo atteggiamento alla vita, perché?
Amo molto quel re, il re dei cigni. Lui che si sognava come Lohengrin, non poteva che essere un enigma irrisolvibile, e non per suo volere. Io mi penso come una straniera che cerca di parlarmi, ma forse è così che segretamente si sentono tutti. Di certo vorrei conoscere la serenità, a me da sempre sconosciuta.

La protagonista è Eva, “incantevole e folle, angelo pieno di demoni, regina della perdizione e della purezza, libera di sognare la felicità nell’impossibile”. Quanto c’è di autobiografico in questo personaggio?
La Divina racconta il percorso di redenzione di una mercenaria, il suo tramutarsi da demone ad angelo. Non è autobiografico, così come non lo era Madame Bovary. Gustave Flaubert diceva Madame Bovary, c’est moi! seppure non abbia mai vissuto come la protagonista del romanzo.

Isabella Santacroce che bambina era?
Ho vissuto a Parigi fino all’età di sei anni. Trascorrevo le mie giornate suonando il pianoforte chiusa nella mia stanza. Ero una bambina solitaria e taciturna, che ha iniziato a parlare scrivendo.

“Quando un uomo si innamora di me vorrei tagliargli la gola, vederlo crepare davanti ai miei occhi, dargli fuoco. Il potere di una donna è nel disprezzo”. È l’incipit de La Divina. Hai mai amato davvero?
Sì, anche se nel primo libro della trilogia Desdemona Undicesima, V.M.18, ho scritto che l’amore è un’invenzione dell’umana razza per allietare il tedio, e ne La Divina che in verità le persone si amano in una bugia.

L’amore è un tema sempre presente, in ogni sua forma, nei tuoi romanzi. Che cos’è stato l’amore e cos’è per te oggi?
L’amore è per me sempre stato un’operazione chirurgica senza anestesia, e al contempo ciò che ti permette di non vivere invano. “Se aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido, non avrò vissuto invano”, scriveva Emily Dickinson. L’amore agapico dà un senso alla vita, e ne è per me il senso.

“Mangiare animali è uccidere l’amore. Ho visto animali disperati cercare i loro figli uccisi dall’uomo. Li ho visti lottare come guerrieri” hai scritto sui social. Meglio gli animali dell’uomo?
Sì, e questa terra era il loro paradiso che noi abbiamo trasformato in un inferno.

Isabella Santacroce e Carmen Consoli

Una persona fondamentale è stata per te suor Maria, che hai definito “il mio primo editore”. In che modo ti ha aiutato?
Ero una bambina che viveva altrove, e lei mi ha aiutato a creare un collegamento tra il mio altrove e la vita portandomi nella scrittura. Ho iniziato riempiendo quaderni di alfabeto, scrivevo l’alfabeto di continuo, un’ossessione. Poi ho cominciato a comporlo, a creare parole, frasi, ed è così che la scrittura è diventata la mia vita. Posso dire di essere nata dal ventre dell’alfabeto. Suor Maria era una maestra straordinaria, ed era giovane e molto bella, tutti i papà si innamoravano di lei.

In passato hai dedicato V.M. 18 a Dio Onnipotente, definendolo tuo marito. Sei credente?
Non credo in niente, neppure in me stessa, ma avverto la presenza di qualcosa di altissimo, qualsiasi cosa sia, qualsiasi nome abbia, forse nessuno. Le vertigini della potenza creatrice d’opere indivisibili dalla lucentezza degli astri, sono misero operato al cospetto di una sola foglia di quercia.

Hai mai avuto la tentazione (vocazione) alla vita religiosa?
La letteratura è il mio convento violento e celestiale.

È più un dono o una condanna?
Un dono è anche una condanna, ma una condanna non è un dono. Di ciò che ho appena detto però non ho certezza. Di nulla ho certezza, neppure che svegliandomi mi sveglio.

Come mai preferisci la notte al giorno?
Ho sempre scritto di notte perché la sua oscurità rende l’esistenza dell’uomo spettro dormiente. Rinnego la realtà che deve all’opera dell’uomo la sua esistenza.

In che modo nascono le tue storie?
Per me scrivere è partecipare a una seduta spiritica di cui sono il medium. Le mie storie nascono così come un ectoplasma dagli occhi del sensitivo.

Sui tuoi libri è stato scritto tutto e il contrario di tutto. “Una prosatrice d’arte di altissima qualità, ipnotica, incantatoria, e sotto tutti gli aspetti stupefacente” dal critico Cesare Garboli, “un libro da leggere (Destroy), se Enrico Brizzi ha del talento, lì ce n’è il doppio” da Alessandro Baricco, al quale rispose Giulio Ferroni: “Ma mi faccia il piacere!” supportato da un inorridito Giovanni Raboni e un poco diplomatico Roberto Cotroneo: “Una stronzata”. Quel è il tuo rapporto con la critica?
L’unico grande critico tra quelli da te citati è Cesare Garboli, indiscusso oracolo della letteratura italiana. Il rapporto che ho con la critica è ascetico.

Neppure gli eventi letterari “istituzionali” sono mai stati un luogo accogliente per la tua letteratura.
Ho rivoluzionato l’immagine dello scrittore, e porto avanti da ventiquattro anni una ricerca letteraria che non appartiene alla rassicurante vecchiezza che l’establishment culturale per comodità si spertica a osannare. Devo però aggiungere che le cose stanno cambiando. Il 21 maggio scorso, la facoltà di lettere e filosofia dell’Università degli studi di Roma “Tor Vergata” ha dedicato alla mia ricerca letteraria una giornata di analisi alla presenza di studiosi autorevoli, tra cui Raffaele Manica e Rino Caputo, e in quell’occasione ho presentato il mio ultimo libro La Divina.

Carmelo Bene scelse come epitaffio una frase di João César Monteiro: “Non siete voi che mi cacciate, sono io che vi condanno a rimanere”. Ti ci riconosci?
Mi riconosco di più in queste parole di Amorino, ultimo mio libro della trilogia Desdemona Undicesima: “Voi siete qui per condannarmi, ma io non ho paura. Siete voi ad avere paura, perché io vi amo”. Carmelo Bene era un prescelto, e quindi un imperdonabile, così come lo erano Simone Weil, Emily Dickinson, Giacomo Leopardi, Glenn Gould, Cristina Campo, Vaslav Nijinsky, Erik Satie, Dino Campana. Questi sono solo alcuni nomi dei miei santi preferiti. Non vi è genio senza santità.

Onorino Balzacchi, critico della Gazzetta di Pietralunga, disse: “Isabella Santacroce ha troppo un bel culo perché si riconosca che ha scritto un capolavoro”. Credi che il tuo aspetto fisico abbia rappresentato un limite in letteratura?
Il taxon Onorino Balzacchi, seppur dalla ancor giovane età, possiede qualità semiologiche diafoniche degne d’esser inserite nell’albo dei più prestigiosi monocotiledoni Asparagales.

Perché hai scelto di pubblicare solo con la tua casa editrice “Desdemona Undicesima”?
Desideravo un’edizione limitata, numerata e firmata, di pregio, capace quindi di impreziosirsi nel tempo. Rivendico l’importanza dell’opera letteraria, soprattutto in questo periodo storico nel quale la standardizzazione della cultura ha preso il sopravvento.

Oggi i tuoi libri sono molto curati, ma il costo è cambiato, alzandosi notevolmente. In questo mi ricordi un auspicio che espresse Andrea Pinketts: “I libri brutti dovrebbero costare pochissimo, mentre quelli belli moltissimo”.
La vera letteratura non può costare come la narrativa, così come la haute couture non può costare come il prêt-à-porter. Credo sia arrivato il momento di ridare dignità all’opera letteraria quando meritevole di essere così definita. La mia è sicuramente un’operazione pionieristica, e perciò di difficile comprensione.

Quali sono i tuoi riferimenti letterari?
Non ne ho. Esistono però scrittori che mi hanno affascinato come Samuel Beckett, Vladimir Nabokov, Giacomo Leopardi, François-René de Chateaubriand, James Joyce, Victor Hugo, Thomas Bernhard, Joris Karl Huysmans, di cui amo particolarmente À rebours, Djuna Barnes, che ha scritto pagine altissime ne La foresta della notte, e poi altri tra poeti, filosofi e mistici. Posso dire però che i miei riferimenti letterari sono gli animali, soprattutto quelli in grado di volare. Cerco di eseguire le loro acrobazie quando scrivo, la loro verticale verso la luce.

Da Supernova: “La vita è un ballo sopra nubi di fuoco”. Un ballo ispirato da quale musica?
Musica classica anche sinfonica del periodo romantico e del novecento post modernista, da Richard Wagner a Franz Liszt a Johannes Brahms, fino a Erik Satie, Olivier Messiaen, Igor’ Stravinskij, inoltre la corrente del minimalismo contemporaneo più espressivo come ad esempio Ȯlafur Arnalds e Max Richter. Tra gli interpreti amo moltissimo Glenn Gould, anche compositore, Arturo Benedetti Michelangeli, Aldo Ciccolini, Hélène Grimaud, Martha Argerich. Tra i violoncellisti Jacqueline du Pré. In questi giorni ascolto Katharina Ernst, e Satoshi Takeishi, Ingar Zach, Carla Bozulich.

Hai anche collaborato con Gianna Nannini sui testi degli album Aria (2002), Grazie (2006), Giannadream (2009), Io e te (2011). È al lavoro sul nuovo disco, per caso sei stata coinvolta?
Ho scritto diversi testi per Gianna Nannini, i miei preferiti sono nel disco Aria, che credo sia uno dei suoi progetti musicali più interessanti. Non ho collaborato al suo nuovo album, perché impegnata nella scrittura de La Divina con cui ho trascorso quattro anni.

Per i tanti che hanno già acquistato il tuo libro e condividono foto sui social o ti sostengono dagli esordi, ci sarà un’altra possibilità di vedere La Divina dal vivo dopo Roma?

Li incontrerò a luglio, nella chiesa monumentale di Sant’Agostino a Mondolfo, uno dei borghi più belli d’Italia. Reciterò un rosario poetico accompagnata dall’organo liturgico di Filippo Sorcinelli, dai canti gregoriani di Massimo Malavolta e dalla polifonia dell’Ottetto Sine Nomine. Vorrei con noi ci fosse Ludwig II di Baviera con i suoi cigni meccanici, ed Emily Dickinson con i suoi eliotropi elettrici.

Così parlò Isabella Santacroce.

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