Il disperato bisogno di pop di Zerocalcare e Chef Rubio | Rolling Stone Italia
Interviste Culture

Il disperato bisogno di pop di Zerocalcare e Chef Rubio

I vendicatori della cultura popolare: il fumettista più letto da chi non legge fumetti e lo chef più amato da chi odia i cuochi. Gente di poche chiacchiere e tanto cuore

Due che si sono limitati a fare «la loro cazzo di vita», Zerocalcare e Chef Rubio. Foto: Piotr Niepsuj

Due che si sono limitati a fare «la loro cazzo di vita», Zerocalcare e Chef Rubio. Foto: Piotr Niepsuj

«Non fatemi ridere, ché non voglio uscire sorridente nelle foto», dice Michele Rech, per tutti Zerocalcare, mentre giriamo per Perugia. Ma è con Chef Rubio, per le forze dell’ordine Gabriele Rubini, e anche se prova a trattenersi non ce la fa. Sono in città per l’operazione #SoffiamoViaGliAbusi, contro gli abusi in divisa, un’iniziativa a cui hanno partecipato insieme al collettivo romano Il Muro del Canto. Per sentirli parlare, la sera prima al Festival del Giornalismo, c’era una coda che copriva tre lati su quattro della piazza centrale di Perugia. Ora chiacchierano di tè verde, fumetti francesi e di Zerocalcare che ha fatto il mutuo. «È un appartamento di 100 metri quadrati, a me sembra un castello, Forte Calcare», dice lui. Rubio lo punzecchia. Si cammina come auto in coda: ogni quattro passi c’è un saluto imbarazzato di qualcuno o una richiesta di selfie.

Perché tutti vogliono la vostra faccia sui loro profili social?
Zero: Ci penso quasi sempre in negativo. A me fermarmi non costa niente, lo faccio volentieri. Mi ansia, però, che la gente mi chieda il mio pensiero su tutto. Non vedo perché dovrei parlare di una cosa di cui ne so quanto una chiacchiera da bar. Però mi chiedono di farlo, e dover dosare ogni parola al millimetro è super faticoso.

Perché siete così richiesti?
Zero: Penso di esser stato fortunato, perché ho imbroccato un tipo di fumetto che in altri Paesi già si fa – in Francia, ad esempio, il blog a fumetto non è manco una nicchia, è una fetta di mercato. In Italia l’auto-narrazione della mia generazione l’avevano fatta le webserie, i romanzi, il cinema, ma i fumetti no. Non c’erano fumettisti dell’età mia che raccontavano la loro vita quotidiana. Ci sono artisti che mi spaccano il culo dal punto di vista della sceneggiatura e del disegno, che però magari disegnano l’Uomo Ragno e Dylan Dog. È successo che la mia generazione si è identificata nelle storie che raccontavo e che anche generazioni diverse si sono dimostrate interessate a quella fase di passaggio che va dall’essere ragazzi all’essere uomini. Piace anche una cosa in cui io e Rubio ci assomigliamo: ci occupiamo di storie, come dire, non patinate. Raccontiamo una Roma popolare, che non ha il mito del soldo o del privé. È molto più umana, la gente ci si identifica di più.
Rubio: Hai ragione, ma non è stata una cosa calcolata. Non è un escamotage per arrivare a tutti ed essere più cool. Sembra una scelta strana perché sui media è sempre stato dato spazio a chi racconta una realtà artefatta, una pseudo-realtà. Invece, è molto più facile raccontare se stessi per quello che si è. Insomma, ci siamo limitati a fare la nostra cazzo di vita.

Siete stati accolti con un senso di liberazione: finalmente si può parlare senza vergogna della porchetta, di Street Fighter e del pupazzo Uan di Bim Bum Bam.
Rubio: Pensa che ci sono dei cuochi stellati che dicono di sentirmi più affine dei loro colleghi che vanno in tv. Due giorni fa, a Palermo, un gelataio molto noto mi ha detto: “Complimenti, tu racconti i professionisti del cibo che non appaiono, perché stanno negli angoli della cucina”. Per me questa è la gratificazione più grande, più di un selfie o di duemila persone ad ascoltarti. Vuol dire che, mentre parli di un mestiere che è anche una passione, sei riuscito a raccontare pure la storia sua, di sua zia, di sua nonna e di chi verrà. Sai, io faccio molta attenzione alle mani: in ogni puntata di Unti e Bisunti c’è sempre almeno una persona che ha nove dita – e che quindi forse da giovane ha fatto lavori che non doveva fare. C’è gente sfregiata, zoppi – i reietti. Ora, non dico che siamo come De André, ma che almeno non ci voltiamo dall’altra parte, perché sono queste le cose vere.
Zero: C’è da dire che il popolare è il bagaglio collettivo che abbiamo tutti e che ci unisce, certo. Ma è solo un minimo comune denominatore, quindi ha un valore molto relativo. Guardavamo gli stessi cartoni animati e ci commuoviamo ascoltando le stesse sigle – anche io sono un grande fan di Cristina D’Avena, come molti. Le cantiamo insieme, ma questo non significa che siamo uguali.
Rubio: La verità è che da piccolo mi sarei sparato, se mi avessi detto che sarei stato affiancato all’espressione “pop” (o allo street food che, diciamocelo, è una gran cazzata. Della pizza al taglio non glien’è fregato mai niente a nessuno e ora la celebrano perché è diventata street food). Ma del pop oggi c’è un bisogno disperato, è l’unica arma che abbiamo a disposizione per non dover fare i discorsi al passato, per non perdere quello che abbiamo e che ancora vale. Anche il “mortacci tua” quando ti rivedi con un amico è pop – dà il battito di Roma, che altrimenti sarebbe solo una città.

I vostri gusti musicali, invece, non sono per niente pop.
Zero: Io purtroppo sono come un 14enne, ho iniziato ad ascoltare il punk a 15 anni e se devo dire un genere in cui mi riconosco e di cui andrei a un concerto non ho dubbi: è il punk. L’oi! e l’hardcore, sostanzialmente. Poi in verità ascolto sempre di più le canzoni delle persone che conosco. Per dire: all’ultimo concerto a cui sono andato suonavano Il Muro del Canto e i Dalton.
Rubio: Carucci i Dalton, me piacciono da morì. Io non ho un genere definito, a parte il metal che mi ha forgiato durante il liceo. Ho amato i classici del metallo, poi ho vissuto anche l’ondata nu metal: Deftones, Korn, Limp Bizkit. Ma non ero come i miei amici metallari, che odiavano il grunge e tutto il resto.

La musica mi serve per non ammazzare la gente nel traffico di Roma

Certo, la xenofobia verso gli altri generi è il prodotto tipico del metallo. È la base.
Rubio: Fan tutti i duri però poi, spesso, le migliori cose che quelle band hanno fatto sono ballate – che la dicono lunga sulla fragilità di quelli che fingono di essere dei cattivoni ma alla fine sono dei pezzi di pane. Le cose controverse me fanno sbroccà. Ho abbracciato molti generi anche solo per curiosità, poi ultimamente, come Michele, mi sto avvicinando ad ascolti che sento più vicini a me, perché conosco la persona e il suo pensiero. Soprattutto il panorama musicale romano, che sta dando belle soddisfazioni, ma belle davvero. Dalton, Banda Jorona e tutti gli artisti più roots, a cui ha aperto la strada Mannarino.

Cosa ve ne fate della musica?
Zero: Mi serve per non ammazzare la gente nel traffico di Roma. Se non ho la musica in macchina, finisco dritto in Cronaca di Roma. E poi perché evoca emozioni che poi traduco in fumetti. Anche se, in realtà, cerco di tenere i fumetti separati dalla musica: la scena che frequento va tutelata dalla cannibalizzazione che c’è in questo momento attorno ai miei fumetti.

Perché mai dovresti separare musica e fumetto?
Zero: Perché ci sono messaggi di valore sociale che è giusto che trovino in me un megafono. Ma il punk no. Il punk non deve cercare di stare sui telegiornali. Già l’apertura ai social network gli ha dato qualcosa, ma gli ha tolto un pezzo di anima – la necessità delle fanzine, la necessità di andare al negozio di dischi per parlare con il negoziante. Il punk è un mondo antitetico rispetto a quello che attraverso per le robe di lavoro, e quindi devo proteggerlo.

L’impressione è che siate costretti a vivere un equivoco: vi sforzate di comunicare quello che vi sta a cuore ma poi a fermarvi per strada è gente che non vorreste mai incontrare.
Rubio: Capita il 90% delle volte. All’inizio era frustrante, vedevo che il mio messaggio proprio non arrivava – si fermavano al baffo, al bicipite, al tatuaggio, non capivano che mi interessava l’umanità dell’Italia che raccontavo. È una fase che ho superato, ma ci ho messo un bel po’ a farlo. Mi concentro solo su quelli che hanno capito, così campo meglio.
Zero: Insegnami, cazzo, perché io ancora la vivo molto male.
Rubio: Non saprei, è una percezione che a un certo punto ti scatta. Ma ci devi arrivare, se no vedi soltanto gente che ti analizza buttandoti addosso proiezioni sue.

È quello che si fa con le canzoni, in fondo.
Rubio: Infatti non capisco i cantanti o i pittori come fanno, con tutti quelli che costruiscono analisi dietro a ogni loro gesto. Se ho scritto una canzone che ti piace non mi venire a dire: “Ti capisco perché anche io sono stato lasciato”. Magari volevo dire altro. Sapere, però, che ci sono alcune persone che mi hanno capito mi fa sentire meno solo. Nella moltitudine delle persone speri sempre che ci sia qualcuno che ti capisce. Ti basta un sorriso o un occhietto e sei a posto. Sai che hai fatto del bene facendo una cosa che, in realtà, fai per te stesso.
Zero: Io non sono ancora così zen. Delle Sentinelle in piedi si son portate il mio libro a una manifestazione e… a me ’sta roba m’ha devastato. Sto entrando nell’ottica che, comunque, quelle sono contraddizioni loro. Ormai credo di essere stato abbastanza chiaro su tutto, poi se a uno gli piace la mia roba va bene, si viva le sue contraddizioni. Non me le posso caricare io, se no mi fanno un TSO. Gli unici riconoscimenti che mi gratificano davvero, e che mi fanno capire che forse non sto sbagliando tutto, sono quelli di chi viene da dove anche io provengo. Accumulo esperienze molto diverse tra loro e quando vedo che ancora riesco a parlare con le persone a cui voglio bene, quelle che mi sono scelto nella vita, la comunità e la tribù, mi emoziono molto.

Se ti emozioni per un mio rutto, invece che per una citazione cinematografica, che cosa devo dirti?

Dov’è che ti dici: «Qui sono capito»?
Zero: Negli spazi occupati e nel mondo del punk e dei centri sociali, che è stata la mia famiglia negli ultimi 15 anni… ormai 17. Condoglianze.

Vi piacciono i nomi con cui vi chiamiamo?
Rubio: Mi succede una cosa preoccupante: cominciano a chiamarmi Gabri. Mi preoccupa che qualcuno mi si debba avvicinare così tanto da sapere il nome dei miei cani o da chiamarmi con un vezzeggiativo. Entrare nelle case delle persone sempre come un gradito ospite, come se avessi sempre pranzato da loro la domenica, mi fa preoccupare un pochino per loro. Mi chiedo: “Quante poche cose hai da raccontare per finire a parlare di me?”. Finché ero solo Rubio – l’ho inventato io: teneva insieme Chef Tony dei coltelli e il modo in cui mi chiamavano gli amici per prendermi in giro – fare un selfie per strada era solo un piccolo break e andava bene così. Ma uno sconosciuto non può chiamarmi Gabri. Per carità, non mi sento di giudicarlo, perché magari fingere di essermi amico gli dà tanto. Se ti emozioni per un mio rutto, invece che per una citazione cinematografica, che cosa devo dirti? Sei libero di prendere da me quello che vuoi. Io, invece, faccio una selezione ferratissima.
Zero: A me Zero o Zerocalcare va bene. Tutto sommato l’avevo scelto io, perché in quel momento era lo slogan di una pubblicità.

Quando è iniziata la trasformazione in quello che siete ora? Zerocalcare ha detto di aver iniziato a fare locandine dei concerti dopo lo shock del G8 di Genova. L’estate del 2001, tra G8 e 11 settembre, è stato il grande strappo della nostra generazione.
Rubio: Eccome. Io ho perso la verginità nel 2001, pochi giorni prima dell’11 settembre.
Zero: No, aspetta, di che mese sei?
Rubio: Giugno.
Zero: Io di dicembre. Aspetta… (silenzio, sta contando)… ho scopato prima io, sai.
Rubio: No ragazzi, Zero ha scopato prima di me! Non ci credo (ride). A parte gli scherzi: ricordo benissimo quello strappo. Chef Rubio è nato dopo, terminata la scuola, quando nel 2008 ho iniziato a lavorare in cucina da freelance. Il nome Chef Rubio mi faceva ridere e così ho iniziato, ma trovavo da lavorare una volta al mese.

Come sei arrivato in televisione?
Rubio: Non sopportavo le persone che parlavano di cucina in tv. Dal 2005 ho smesso proprio di guardarla, la televisione. Non dico i loro nomi perché non sarebbe carino… Ma invece sì, dai! (E invece, dopo averceli detti, ci ha ripensato e ci ha pregato di cancellarli, ndr). Sono state le mie muse in negativo. Mi son detto: facciamo vedere via web che, per parlare di una pasta, non si deve per forza stare con la scopa nel culo, si può pure cazzeggiare. Facevo sketch autoironici, qualcuno mi ha visto e mi ha chiesto se mi andasse di continuare a raccontarmi così. E quindi alla fine mi ritrovo con te al Festival del Giornalismo di Perugia.

È Zerocalcare che non è nato con il web.
Zero: È vero. Prima del blog avevo fatto per dieci anni le fanzine e avevo provato a lavorare con le illustrazioni nelle pagine culturali. ’Sta cosa del web è nata su Canemucco, la rivista di Makkox. Come tutte le cose su cui ho lavorato, ha chiuso entro il numero 3. Però la risposta era buona e Makkox ha detto: “Proviamo a produrti un libro”. Ho stampato 500 copie, perché erano quelle che pensavo di poter smerciare tra centri sociali, mamma, nonna, zia. Secondo Makkox erano troppe per poterle vendere così: “Apri un blog così almeno ti fai conoscere”. Io non volevo farlo, temevo che sarebbe finito come quei blog tristi con zero visite e zero commenti, che stimolo mi avrebbe dato? Allora lui ha comprato il dominio, ha messo tutto a posto e, visto che non volevo nemmeno caricare una storia perché temevo di deprimermi, ha preso quelle che avevo pubblicato sul suo giornale e ha iniziato a caricarle. E la gente s’è messa a commentare.

Cosa facevi in quel momento per vivere?
Zero: Per mantenermi ho fatto cose mostruose. Ho fatto una cosa di un’infamità mostruosa (ma io non lo sapevo!): cronometravo le file di attesa al check-in in aeroporto a Fiumicino. Pensavo che fosse un lavoro utile, che servisse ad aiutare le compagnie a dirti con quanto anticipo dovevi arrivare in aeroporto. Il cazzo: quella roba serviva a valutare l’efficienza dell’impiegato che stava là. E pensare che io ero precisissimo! L’ho scoperto dopo 3 mesi, però non potevo licenziarmi subito. Il blog è partito poco dopo, quando mi mantenevo traducendo documentari di caccia e pesca. Era tutto un “che bella carpa”, “oh, sì, è proprio una bella carpa” (ride). Tra l’altro, visto che non mi pagavano abbastanza, se non capivo i nomi ne mettevo altri a caso. Se qualcuno ha pensato di formarsi su quelle cose sappia che l’ho rovinato io.

Cosa cercavi di essere in quel momento?
Zero: Niente, avevo perso ogni riferimento. Stavo lì e galleggiavo. Mi ansiavo, perché tutte le persone che avevo intorno vivevano così, a lavoretti. E io non ero nemmeno laureato.

Però sei madrelingua francese.
Zero: Sì, da parte di mamma. Anche di nazionalità sono francese, non ho il passaporto italiano. Però col francese che cosa facevo? Sì, ho fatto le ripetizioni fino a qualche mese fa e le traduzioni dei documentari di caccia e pesca – anche se poi con la crisi quello che mi dava il lavoro si è messo a fare i catering.

Rubio sorseggia tè verde dal thermos. Mentre rientriamo in albergo, una ragazza lo ferma e lo abbraccia come un vecchio amico. Procediamo. «Capisci?», si gira lui, «magari non m’ero nemmeno lavato».

Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone di Maggio.
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