Gianpietro Vigorelli: «Noi pubblicitari eravamo dei rocker, oggi vedo in giro solo degli impiegati» | Rolling Stone Italia
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Gianpietro Vigorelli: «Noi pubblicitari eravamo dei rocker, oggi vedo in giro solo degli impiegati»

Abbiamo dialogato con uno dei più grandi pubblicitari italiani (e padre di Jake La Furia) che ci ha raccontato del Sessantotto, di artisti camuffati da pubblicitari e feste con tremila persone. E come mai oggi abbiamo perso la voglia di rischiare: «Adesso mettono un nero in una pubblicità e pensano di essere inclusivi»

Gianpietro Vigorelli: «Noi pubblicitari eravamo dei rocker, oggi vedo in giro solo degli impiegati»

Gianpietro Vigorelli

Foto: Vincenzo Lombardo/Getty Images

Contestatario sessantottino in un periodo «dove c’era tutto da distruggere e da ricostruire». Poi rampante pubblicitario negli anni ’80 in «un ambiente pieno di rocker, altro che gli impiegati del marketing odierni». Infine imprenditore e creativo di successo, nella “Milano da bere” anni ‘90, dove è riuscito a coinvolgere nelle sue campagne artisti internazionali come Woody Allen, John Landis e Spike Lee, «tutti super professionali, niente a che vedere con quei cialtroni degli italiani». E mentre lavorava per le maggiori aziende di comunicazione, fondandone anche una propria con i soci Riccardo Lorenzini e Maurizio D’Adda (che paragona a David Bowie), ha visto germogliare nella cameretta del figlio Francesco, in arte Jake La Furia, la scena rap che ha sfondato nei 2000. Parliamo di Gianpietro Vigorelli, classe ‘51, che abbiamo incontrato per comprendere un tempo glorioso dove «c’erano pochi mezzi e tanti soldi, a differenza di oggi che ci sono tanti mezzi e pochi soldi» e perché, nonostante la tecnologia, lo spirito del tempo sembra non passare più dalla pubblicità: «La forza del creativo è l’errore: se puoi sbagliare lo sei, altrimenti diventi solamente un tecnico».

Vigorelli, la sua biografia precedente alla pubblicità parla di “esperienze nella Milano sessantottina”. Che tipo di esperienze?
Nelle città la mia generazione si è trovata coinvolta in grandi avvenimenti. Se avevi un minimo di fantasia e coinvolgimento culturale dovevi schierarti, la maggior parte di noi si è schierata dalla parte del cambiamento, non della reazione. Della rivoluzione, se vogliamo. Prima si formò il movimento beat, poi quello studentesco con le varie fazioni, tra chi era più violento e chi meno.

Lei in che fazione militava?
Ero più un osservatore, andavo alle manifestazioni e con gli amici ci scambiavamo idee. Ne hanno fatto parte persone diventate protagoniste della cultura, dell’arte e della comunicazione. Miei amici di allora erano Michele Mozzati di Gino & Michele, Giancarlo Bozzo di Zelig e tanti altri.

Alla fine, quella stagione ha cambiato la società o ha solo cambiato chi comandava?
La grande speranza era di cambiare il mondo, in realtà è avvenuta una sostituzione. Ci siamo fatti tutti un po’ assorbire, in particolare nel periodo socialista successivo. Diciamo che lo spirito anarchico di quei tempi si è fatto coinvolgere nell’establishment che ancora domina oggi.

Qualche sasso l’ha tirato, però, lo ha ammesso lei stesso e su un video su YouTube spiega: «Da ragazzo ero di fronte a questo palazzo a tirare sassi e ora sono qui dentro a parlare dal palco».
Mi stavano chiedendo “che cos’è la libertà?” e io risposi ricordando quell’episodio. Ecco cos’è la libertà, dopo aver tirato i sassi mi trovavo nello stesso posto a parlare amabilmente di musica.

E poi come ci entra un sessantottino contestatario, seppur non violento, nella pubblicità?
Una volta la pubblicità la facevano quelli che prima avevano provato con l’arte, o senza risultati o perché non guadagnavano abbastanza. È la generazione prima della mia, quella che ha portato le proprie ispirazioni nella comunicazione. Io sono della generazione dopo, affascinata da quel mondo, che non era il braccio violento del capitalismo, ma un modo per esprimersi. Ho avuto la fortuna di lavorare in quel settore quando c’era la possibilità di esprimere dei concetti artistici. E poi c’erano tanti soldi che ti permettevano di sviluppare le varie idee…

Nello stesso discorso ha detto: «Ieri c’erano tanti soldi e pochi mezzi. Oggi invece ci sono pochi soldi e tanti mezzi».
Oggi c’è spazio per tante persone, ma pochissime riescono ad arrivare al vertice e questo è il vero problema delle nuove generazioni.

Ma con tanti mezzi, non crede potrebbero usati meglio anche senza soldi?
Nella mia generazione c’era un’arroganza di base che ti rendeva convinto di esser meglio di tutti e quindi di volerti mangiare il mondo. Oggi invece si sentono più di quello che può dargli la società e la guardono da fuori, chiedendosi perché impegnarsi.

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Come ha fatto a coinvolgere nella pubblicità artisti del calibro di Woody Allen, John Landis o Spike Lee?
Intanto avevamo molti soldi per pagarli, per cui diventavamo un interlocutore interessante. Ma per fare un grande lavoro non basta. Ci vuole l’idea, i soldi per produrla e chi capisce che potrà funzionare. Nel caso di Woody Allen era la Coop, che aveva una responsabile con una visione. Era convinta che una certa campagna gli avrebbe portato, più che i soldi, conoscenza e forza al brand.

E lei com’è che sceglieva questi artisti?
La Coop mi chiese con chi avrei voluto fare lo spot e ho risposi con quell’arroganza della mia generazione: «Con Woody Allen». E loro: «Va bene, contattiamolo». Non me lo aspettavo, a quel punto capisci che hai i soldi, puoi fare tanto ma devi capire come riuscirci. Quando siamo arrivati al suo agente, dopo tre mesi di contrattazioni e venti avvocati di mezzo, lo incontro a Park Avenue a New York in un seminterrato. Poi ancora sei mesi di scambi di lettere e alla fine ci siamo riusciti.

Come si è trovato a lavorare con Woody Allen?
È stato super professionale, come tutti gli americani, al contrario degli italiani che sono dei cialtroni. Certi italiani, non diciamo tutti, sono poco professionali, si sentono divi senza esserlo, perché si sono formati perlopiù in televisione. Ecco, quelli che venivano dal cinema erano diversi.

Addirittura dei cialtroni?
Gli stranieri si facevano pagare bene ma erano super professionali perché scrivevano prima quello di cui avevano bisogno, e alla fine si mettevano a disposizione senza creare nessun problema.

Cosa le ha lasciato lavorare con gente di quel calibro?
Bisogna imparare da tutti, anche dai propri collaboratori. Bisogna succhiare da dove arriva la linfa. Woody Allen non era un grande comunicatore, mentre John Landis mi portò, con mio figlio piccolo, negli Universal Studios di Hollywood facendoci vedere in anteprima quello che non era ancora stato inaugurato. Si è instaurato un bel rapporto. Spike Lee non era un simpaticone, ma hai davanti uno che anche quando si muove lancia dei segnali interessanti. Ho lavorato anche con Sean Connery, un gigante. Voleva fare tutto lui, anche scene pericolose, e dovevamo fermarlo. Poi la sera si fermava a bere insieme a tutti. Serissimo, ripeteva le scene per trovare quella migliore, un grande artista.

Ha vissuto anche la cosiddetta “Milano da bere” anni ‘90. Era davvero così esaltante?
Non faceva così schifo, devo ammetterlo. Ma dipende dall’età e dal tuo ruolo in quel periodo. Negli anni ‘70 ero giovane, per cui era tutto da distruggere e ricostruire, negli anni ‘80 ho cominciato a raccogliere qualcosa e negli anni ‘90 ho iniziato a diventare ricco. Erano tempi gloriosi, ti chiamavano le agenzie e ti offrivano il doppio per strapparti alla concorrenza. È cambiato tutto dal 2000 in poi, quando è arrivata la rivoluzione digitale e con la nascita di alcune startup che andavano in banca e gli davano 30 miliardi di Lire non sapendo neanche come spenderli.

Facciamo schiattare di invidia i pubblicitari di oggi: l’offerta più grossa che ha avuto?
Quella che per prima mi ha impressionato, cioè quando mi avevano assunto e guadagnavo 50 milioni l’anno e un giorno, dopo un anno, mi chiama un’altra agenzia e mi offre 100 milioni. Ecco, in quel momento bisogna fare attenzione. Infatti ho rifiutato. Stavo bene dov’ero perché potevo fare un percorso, mentre dall’altra parte avrei avuto meno spazio creativo. Il denaro non deve essere la spinta, ma il trovare qualcuno che comprenda quanto sei bravo e ti aiuti a crescere. Chissà se in giro c’è ancora gente in grado di farlo…

In passato ha definito i pubblicitari di allora dei “pazzi creativi”.
Ho visto Babylon al cinema e dovrebbero vederlo tutti. Ti insegna esattamente il passaggio dall’essere un Dio a quando il mondo cambia e precipiti. Noi eravamo come in quel film, compreso qualcuno che si drogava e si ammazzava. Non è il mio caso, ma eravamo rock and roll. Poi è arrivato il marketing ed è finito il tempo del vivere, del provarci ed è arrivato quello del consumo.

Cosa si è rotto?
Se prima eravamo dei pionieri, poi ci siamo stabilizzati. Avevamo il coraggio di provare, perché non ne conoscevamo sempre le conseguenze. Ora il vero problema è che nessuno vuole più rischiare. Tutto deve essere stabilito prima. Si rifà il già fatto. C’è una stagnazione pazzesca.

E oggi considera chi lavora nel marketing «degli impiegati». Sempre parole sue…
Ma certo, prima i pubblicitari erano dei rocker. Un anno con il mio socio, Maurizio D’Adda, abbiamo realizzato dei santini per Natale: il mio era “il guardiano della qualità”, mentre il suo “ex cantante rock in declino”, tutto per prenderci per il culo. Ma noi allora facevamo feste con tremila persone. Una volta, chiuso un cliente importante, carichiamo 70 colleghi su un aereo per Marrakech e passiamo tutti insieme un weekend. Un mondo rock che si è trasformato nella tristezza odierna.

D’Adda, fra i tanti tormentoni, inventò per Sanremo: «Comunque vada sarà un successo».
Su quel versante era più Maurizio quello specializzato, ne ha inventati moltissimi. Io ero più fighetto, tra moda e lusso. Se fossimo stati dei musicisti, io un bluensman e lui David Bowie.

Quando guarda la pubblicità di oggi c’è qualcosa che la stupisce o davvero nulla?
Poco o niente. Perché non c’è l’humus per realizzare qualcosa di nuovo. Una volta le agenzie prendevano dei ragazzini presuntuosi e gli permettevano di esprimersi. A noi ci davano tanti soldi e quando facevamo i capricci ci mandavano tre mesi negli Stati Uniti a imparare da quelli bravi. Ora prendono gente così così e la sfruttano e basta. Come fanno a creare qualcosa di buono?

Mi sembra una visione del settore molto vicina a quella di Oliviero Toscani, che ai direttori creativi non manca mai di lanciare questo messaggio: «Siete inutili».
Io sono l’unico pubblicitario amico di Oliviero Toscani e ha perfettamente ragione. Ormai il marketing è diventato lo strumento unico della comunicazione ed è drammatico. Lavori solo sulle certezze. Intervistando 50 persone pretendono di determinare il successo di un prodotto. È terribile. La forza del creativo è l’errore, se puoi sbagliare lo sei, altrimenti sei soltanto un tecnico.

«Arricchire, oltre che di soldi, anche di cultura, potere e visibilità». Sempre Toscani docet.
Ai clienti dicevamo spesso che spendono un sacco di soldi, perché allora dire delle banalità? Vendete il prodotto con un grande argomento che lo faccia diventare più intelligente. Oggi si parla tanto di inclusione, ma cosa c’è di più inclusivo di trattare il consumatore come una persona intelligente? Adesso mettono un nero in una pubblicità e pensano di essere inclusivi, ma dai!

«Senza un committente intelligente non farai mai un buon lavoro». E chiudo con le citazioni di Toscani.
O hai un committente che capisce molto o uno che non capisce niente. È quello di mezzo che è un disastro. I giovani manager che sono in giro adesso parlano mezzo inglese e mezzo italiano, sanno solo quello che hanno studiato sui libri e infatti dicono un sacco di cazzate.

Il consumatore è trattato come uno stupido?
In generale è sempre strato trattato da stupido, ma ogni tanto qualcuno ha cercato di elevarlo. Oggi è peggio, lo si prende anche in giro. Non posso vedere una pubblicità con una famiglia straniera per auto o salotti di lusso, perché la verità è che abita in periferia e forse solo i figli, studiando e lavorando, si potranno permettere quei prodotti. Così non sei inclusivo, sei ipocrita!

Un consiglio a un giovane che vorrebbe entrare nel mondo della pubblicità?
Di solito gli consiglio di fare gli chef. La comunicazione è diventata una comfort zone, non c’è più niente di eroico. Se uno si considera un creativo l’ambiente non è stimolante. Lo spirito del tempo, per ora, non passa dalla pubblicità. Ma le cose potrebbero cambiare.

La comunicazione politica la trova efficace?
Tutto ciò che non è naturale e sincero è ridicolo. Una volta dicevi una sciocchezza e la sentivano diecimila persone, oggi dieci milioni. Bisogna stare molto attenti al linguaggio. I politici sono i peggiori clienti della comunicazione. Pensano di saperne di più di quelli che comunicano. La sinistra ha fatto errori madornali, per la presunzione che la comunicazione fosse uno strumento del capitalismo. Uno sbaglio, perché è uno strumento del potere. Se la sono fatta soffiare dalla destra, che la usa in maniera efficacie ma squallida.

Ha mai avuto offerte dalla politica?
Sì, certo. Intanto volevano che lavorassi gratis. Non solo, in concorrenza con altri due per poi decidere chi era più bravo. Li ho mandati a quel paese. Ma sai cosa credo? Che uno, dopo un po’ di anni, debba anche farsi da parte.

Lei quando ha capito che era arrivato il momento per farlo?
A 59 anni ho smesso. Faccio ancora consulenze, ma non sono più competitivo. Ho lavorato per un periodo con una società che finanziava startup, più che altro per capire il mondo dei giovani che si muovono nella tecnologia.

E ha scritto un libro pulp, Ferro (Piemme edizioni). Un bel salto, no?
Ma sai, quando ho venduto la società mi sono ritrovato senza fare nulla. Il potere non è dato soltanto dai soldi, ma dal determinare qualcosa. Poter dire a delle persone che c’è un percorso da compiere. A un certo punto finisce tutto e decidi solo per te. Non è facile, anche se sei preparato devi inventarti qualcosa. Per un bel pezzo non ho fatto niente, a parte piccole cose. Poi, senza aver mai scritto prima, mentre fumavo il sigaro mi è uscito un libro. Ne ho già pronto un altro.

Ha lavorato molto anche a contatto con la moda. Lo trova ancora un settore in salute?
C’è grande voglia di stupire, come volevamo anche noi, ma vedo sempre meno strategia. Come Alessandro Michele con Gucci, che ha avuto successo dall’eccesso. A un certo punto, però, l’azienda non ci ha più creduto e lui se ne è dovuto andare.

Chi ha sbagliato, l’azienda a dargli troppo spazio o lui a prenderselo?
Entrambe le cose. L’azienda ha lasciato troppo campo e lui, potendo fare tutto, si è perso. Dirò una eresia: la creatività ha bisogno di controllo. Come nella musica, i più eccentrici possono avere una vita dissoluta, ma quanto salgono sul palco devono suonare da dio, sennò la pagano. La creatività è un percorso di trasgressione con uno scopo. La trasgressione per la trasgressione non arriva da nessuna parte. Prima i grandi creativi diventavano imprenditori, ora non hanno più voglia di rischiare e preferiscono avere chi li finanzia. L’evento che Michele ha organizzato per i Måneskin è stato una cafonata…

Non le piacciono i Måneskin?
Li considero un fenomeno estetico fantastico, mentre musicalmente è roba sentita cento volte. Sono rock, hanno ripreso quei codici, senza però inventare niente di nuovo. Il loro successo è anche l’esempio della banalità del pubblico in questo periodo storico.

Che musica ascolta?
Leonard Cohen, Johnny Cash, De Andrè, De Gregori. Sento anche i rapper, mentre la trap non mi entra nelle orecchie. È troppo ripetitiva e non mi arricchisce. La musica classica la preferisco a quella jazz. Ascolto anche i Måneskin, ma se chiudo gli occhi mi sembra di tornare a 40 anni fa.

Anche il rap non sembra più avere la presa del passato… Mi avvicino a piccoli passi a qualcuno che lei conosce bene.
Nei rapper ritrovo un filo diretto con i cantautori di una volta. La forza dei De Gregori e dei De Andrè non è in quei tre giri di accordi, ma in come li riempiono. Per un po’ tra i ‘90 e i 2000 si è perso quello spirito con un pop che non ti faceva pensare. Poi sono arrivati i rapper che avevano un disagio da veicolare. Ma non sempre perché venivano dalla strada, come mio figlio che è cresciuto in una famiglia con delle possibilità. Ma in casa si è trovato noi che discutevamo su tutto e probabilmente ha vissuto un disagio, come tanti figli di famiglie borghesi. Anzi, se devi lavorare e mantenere la famiglia hai meno tempo per la creatività. Loro hanno reso musicale quel disagio. Non so quanto durerà ancora, ma non mi sembra che i testi di oggi siano forti come quelli di prima.

Siamo arrivati a suo figlio Francesco, in arte Jake La Furia.
Bisogna ammettere che non siamo una famiglia facile, sia io che mia moglie. Arriviamo dalle stesse esperienze e abbiamo caratteri forti. Si è dovuto difendere fin da subito. Lui lo dice spesso di avere una famiglia nella quale siamo tutti contro tutti. Però ci vogliamo bene. Infatti abita qui a 200 metri, ci vediamo spessissimo e anche con i miei nipoti.

Ha dato segni precoci di creatività?
Sì, per esempio disegnava molto bene. Non aveva voglia di studiare, infatti ha scelto di lavorare, poi si è rimesso a studiare, ha trovato in seguito una agenzia pubblicitaria nella quale provare, non nella mia, e alla fine ha incontrato i suoi amici con i quali ha intrapreso la carriera musicale. Agli inizi venivano in casa alla sera e al piano superiore facevano musica. È nato tutto da lì.

Immaginava che sarebbe diventato un punto di riferimento della scena rap?
Non avrei mai potuto immaginarlo. Ma quando mi ha parlato di una casa discografica che li voleva mettere sotto contratto ho intuito. In quel momento ha dovuto decidere se tornare a lavorare o continuare nella musica. Ci ha provato ed è andata bene.

Nessuno in famiglia si è opposto?
No no, gli ho sempre detto che avrebbe dovuto cercare un lavoro che gli avesse dato soddisfazione. Se ti piace quello che fai è come non lavorare mai.

E gli eccessi del suo ambiente come li avete vissuti?
Noi ne abbiamo vissuti di peggio! Da giovane avevo cinque amici, due sono morti di droga e uno lo hanno arrestato per le Brigate Rosse. Non ci impressioniamo facilmente…

E quindi ha partecipato anche ai suoi concerti?
Assolutamente sì, con mia moglie. A lui faceva piacere, ma non siamo mai intervenuti. Il rapporto è diverso con i due genitori: a sua madre racconta tutto, a me invece le questioni più legate alla creatività. Comunque mi sembra che abbia raggiunto dei bei risultati. Non è un caso che prima era lui il figlio di Gianpietro Vigorelli, adesso sono diventato io il papà di Jake La Furia…

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