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Gaia Alari, dispacci da una stanza piena di fogli

Abbiamo chiacchierato con l'illustratrice italiana comparsa al MoMA, sul 'New York Times', e (ma non solo) al Centre Pompidou. Partendo da una laurea in medicina e finendo nei multiversi privi di toilette
Gaia Alari

Foto: cortesia

C’è chi si limita a disegnare, chi si cimenta con l’animazione, chi vive di videoclip e chi si perde nei festival di cinema indipendente. Poi c’è Gaia Alari, che fa tutto questo insieme, spesso da sola, sempre in punta di matita. Classe 1988, una laurea in medicina mai praticata e una carriera da artista visiva che scivola disinvoltamente tra illustrazione, animazione d’autore, arte pubblica e collaborazioni internazionali con etichette musicali, magazine di culto, musei e istituzioni culturali. Un curriculum da far tremare i polsi a qualunque art director, con incursioni al Pompidou, al MoMA, al New York Times e al Saatchi, premi inclusi.

Eppure Gaia resta una figura quasi sfuggente, tutta dedita al segno, al corpo che si muove, all’immagine che respira. A straperetana 2025, la rassegna d’arte pubblica fondata da Paola Capata e Delfo Durante che da anni trasforma un borgo abruzzese in laboratorio di visioni, presenta una videoanimazione site-specific all’interno della cisterna di Palazzo Maccafani. Una specie di microcosmo in cui la Natura si fa madre, moltiplicatrice, generatrice di forme e ibridazioni, all’insegna di una fertilità immaginifica che tanto sarebbe piaciuta a Bruegel. La incontriamo per parlare di animazione, corpo, tempo, processi ossessivi e famiglie iper-naturali.

Lo studio di Gaia Alari. Foto: cortesia

Ha iniziato studiando medicina ed è finita a illustrare le derive somatiche dell’immaginazione. Cosa resta oggi della sua formazione scientifica nel modo in cui guarda e disegna il corpo?
Per molto tempo ho pensato che la mia formazione scientifica non avesse lasciato traccia nel mio lavoro, come se la mia pratica artistica fosse una tabula rasa. Mi sbagliavo. Solo di recente ho scavato abbastanza a fondo da rendermi conto di quanto, invece, quel background influenzi il mio modo di osservare e pensare il corpo, dentro e fuori di me. La medicina mi ha insegnato a scomporre, a sintetizzare un’immagine in linee, in superfici, in strutture. Il metodo scientifico è parente stretto dell’astrazione. E poi, se vogliamo dirla tutta, quasi tutto ciò che siamo – a livello molecolare – ruota attorno al carbonio. Circuiti, legami, trame. Mi è rimasto impresso l’esame di Istologia: un vetrino da osservare, un tessuto da identificare. Era un utero di ratto, colorato di rosa e viola. Cerchi concentrici che orbitavano intorno a un vuoto centrale. Quelle strutture dicono molto di noi. Parlano di ciò che siamo: forma e assenza, densità e mistero. Penso che la medicina mi abbia lasciato anche questo: l’intuizione di un’architettura interconnessa e, in parte, ancora sconosciuta. Nel mio disegno si traduce nella deformazione, nella trasformazione continua del corpo, che si srotola, si riavvolge, si espande e si contrae. Fino a tornare nello stesso spazio di prima, ma in forma diversa.

“Famiglia” è il tema di questa edizione della rassegna, ma lei lo iper-declina in una dimensione che sembra più vegetale che umana. Che cos’è per lei una famiglia?
Una famiglia è un cluster. Un insieme di connessioni tangenti, legate a doppio filo. Un cadavere squisito. Non per forza umano, non per forza partorito. Quello che conta è il legame, che può essere anche feroce, viscerale, radicato. Ho scelto di rappresentarlo stirando il concetto fino al limite tra umano e vegetale, proprio perché trovo lì qualcosa di autentico. Un’idea di famiglia primitiva: qualcosa che cresce, si attacca e a volte si avvinghia.

I suoi personaggi sembrano sempre sull’orlo di una mutazione: sono umani, animali, alghe, icone, visioni. Dove trova questi ibridi, tra le pagine di un atlante medico o nel suo inconscio visivo?
Entrambe le cose. Sono una persona curiosa di natura, e il mio approccio all’arte è prima di tutto da spettatrice. Assorbo, mi stupisco, cerco. Recentemente ho comprato il catalogo dell’artista Wangechi Mutu I am speaking, are you listening?, bellissimo. Ascoltare il linguaggio dell’altro è un modo per amplificare le mie immagini interiori. Il mio vissuto, l’infanzia, ciò che sta sotto la soglia della coscienza. È un esercizio costante di analisi e riscrittura.

La sua filmografia parallela è fatta di videoclip animati, dischi illustrati e movimenti sincronizzati al beat. Quando lavora a una sequenza su musica, da cosa parte: dal suono, dalla parola o da una partitura mentale tutta sua?
Dipende. A volte è il suono, a volte il testo, a volte un concetto che sento il bisogno di aggiungere. In generale, però, è il movimento. Tutto parte da lì. Una danza circolare, che si sviluppa in accerchiamento o in lotta. Il mio metodo è sempre un gioco di tensione tra vuoto e contatto. I lavori che mi divertono di più iniziano da un punto – una linea, una superficie – su un foglio bianco. E poi si riempiono. Le figure si cercano, si urtano, si mangiano. Sempre in cerchio, o in spirale. Quando trovo la spirale, ho trovato l’equilibrio.

Gaia Alari, ‘Germinal’, video animazione. Cortesia dell’artista

Ha collaborato con Warner, Sub Pop, JagJaguwar, Sacred Bones. Cosa rende una traccia musicale “disegnabile”? Esiste una qualità sonora che le fa scattare subito il desiderio di animare?
Credo che ogni traccia abbia almeno un elemento da cui partire per riflettere e tradurre. L’importante per me è trovare lo spazio per giocare con l’immagine. Se c’è quello, posso cominciare.

Nel videoclip animato si intrecciano tre sguardi: quello dell’artista musicale, il suo da regista, e quello dello spettatore. Come si gestisce questa triangolazione, senza perdere il proprio stile?
Pensando a un dialogo a tre canali. Il primo è quello dell’artista, che parla all’orecchio. Il secondo è il mio, che trasmette all’occhio. Il terzo è quello dello spettatore, che riflette e rielabora con il proprio vissuto. Non si tratta di tradurre letteralmente – né il ritmo né il testo – ma di amplificare. Di far risuonare. Il mio tentativo è sempre quello di stimolare un ascolto attivo, non passivo. Un’immagine che non illustra, ma riverbera.

Nel suo lavoro la musica è spesso il cuore pulsante. Se potesse tradurre la sua estetica in un genere musicale, sarebbe più ambient analogico o punk sinfonico? Sì, ci stiamo inventando le categorie, ma ci siamo capiti…
Vorrei passare da momenti di ambient analogico a esplosioni di punk sinfonico. Vorrei proprio che esistessero come generi ufficiali. Mi ci troverei bene dentro.

Ha lavorato per The New York Times, MoMA, Beats by Dre e il Pompidou, ma continua a disegnare come se fosse chiusa in una stanza con una pila di fogli. Cos’è che la tiene incollata al frame-by-frame, al gesto lento dell’animazione tradizionale?
È letteralmente la mia realtà: sono chiusa in una stanza con una pila di fogli. E sto benissimo così. Il gesto lento del frame-by-frame per me è essenziale quanto il risultato finale. È un luogo sicuro. Un tempo altro. Posso giocare con lo spazio del foglio, con il suo vuoto, e posso dilatare il tempo misurandolo in disegni, non in secondi. È una forma di meditazione attiva. O di microresistenza personale.

Le capita mai di sognare animazioni?
Non ricordo quasi mai i sogni, il che forse è un bene. Tranne quelli classici tipo “non ho mai dato la maturità” o “sono in un multiverso senza bagni”.

Programmi per questa seconda metà del 2025?
Il 26 luglio inaugura la mia personale Gentle acts of resistance nello spazio di Dallas della Colector Gallery. È una riflessione sul tempo: quello lineare, produttivo, scandito dai secondi; e quello ciclico, stagionale, organico. Poi ho diverse collaborazioni in uscita (ma top secret per ora). E infine, da settembre a novembre sarò in Francia per What comes at night, il mio primo cortometraggio animato da regista, prodotto da La Cellule Productions. Se arrivo intera alla fine, giuro che festeggio.

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