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Elementi di capitalismo sonciniano

Le relazioni, le suscettibilità della nostra epoca, Instagram, le influencer, il terrore dell’irrilevanza, i pentimenti: in occasione della ristampa di ‘Elementi di capitalismo amoroso’ abbiamo incontrato Guia Soncini e abbiamo parlato di (quasi) tutto. Un po' anche del ‘figlio brutto’

Elementi di capitalismo sonciniano

Foto: ullstein bild/ullstein bild via Getty Images)

Quanto può essere difficile intervistare Guia Soncini? Molto, se ci si trova d’accordo con il novanta per cento delle cose che dice e scrive: lei che detesta le leccate di culo e ama più il contraddittorio, come reagirà a una chiacchierata che ne è praticamente priva? Moltissimo, se si desidera circoscrivere un unico tema: siamo state al telefono un’ora e mezza – tradotto in bolognese, le ho attaccato una gran pezza – e, per quanto mi riguarda, la conversazione sarebbe potuta andare avanti a oltranza. L’8 novembre esce per Marsilio Elementi di capitalismo amoroso (per Soncini, «il figlio brutto»), ristampato dopo quattordici anni dalla prima edizione, che diventa il gancio per toccare, senza purtroppo esaurirli, i capisaldi del capitalismo sonciniano: le relazioni (Elementi di capitalismo amoroso, I mariti delle altre); i pentimenti e le suscettibilità della nostra epoca (L’era della suscettibilità); Instagram, le influencer, il terrore dell’irrilevanza (L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi).

Da brava stalker di Soncini – conscia del suo fastidio per qualunque sconosciuto le dia del tu – sin dai primi scambi su WhatsApp per chiederle un’intervista le do del lei: lei farà altrettanto, e andremo avanti così fino alla fine, come due educate, rispettose e raffinate signore. Che è poi quel che siamo.


Partiamo dalla fine: perché Elementi di capitalismo amoroso è «il figlio brutto»?
L’ho scritto a trentacinque anni, che è l’ultimo anno in cui si ha diritto a essere stupidi, ed è anche l’ultima volta in cui ho avuto la pazienza di dire ai lettori quello che volevano sentirsi dire. E quindi rileggerlo – e rimetterci mano – è stato abbastanza straniante. Poi a un certo punto ho capito che era velleitario renderlo un libro che avrei scritto oggi, perché oggi non avrei mai scritto un libro in cui dico che gli uomini ci maltrattano e siamo poverine. Forse non lo pensavo neanche allora, non riesco a ricordare la me trentacinquenne: era una che pensava “Cosa mi metto per uscire con Tizio”, mentre adesso sono una che prende le pastiglie per la pressione. Io e quella lì non abbiamo nulla da dirci.

Ho appena finito di leggere I mariti delle altre, quanto mi sono divertita.
I mariti delle altre è il figlio preferito, credo che uno dei due crescendo ammazzerà l’altro perché succede così quando le madri preferiscono uno e schifano l’altro. I mariti delle altre è più simile a ciò che scriverei oggi, c’è una traccia nelle cose che ho scritto da adulta, che è poi quella che sta nella bio mitomane che ho fatto mettere sulla quarta di entrambi i libri: la scellerata ambizione di sistematizzare il presente. Che è un plagio di Arbasino, come sempre: lui cambiava la bio sui libri continuamente, era molto smanioso, allora ho pensato “Forse se Arbasino può essere così mitomane, lo posso essere anch’io”.

So che condividiamo un’ossessione televisiva, Bad Sisters, la serie di Apple TV+ rifacimento a sua volta di una serie fiamminga, con alcuni tra i personaggi più umanamente schifosi di sempre. Ci dilunghiamo un po’ a parlare di John Paul (Claes Bang), l’orribile marito morto ammazzato, e di Grace (Anne-Marie Duff), la moglie fastidiosamente succube, al che le domando se pure lei ha avuto la mia stessa impressione.

Forse, per come è fatta, Grace è in un certo senso predestinata ad accoppiarsi con uomini orrendi?
Non so se parlerei di predestinazione, però c’è un tema indicibile che è la prima risposta alla questione delle donne menate dagli uomini: non mettetevi con gli uomini che vi menano. Che poi questa epoca stupida in cui si trovano parole inglesi per sostituire i ragionamenti ha fatto diventare victim blaming, ma non c’entra un cazzo. Il problema non è di chi è la colpa, mica siamo cattolici; il punto è che sì, gli uomini non ti devono menare ma tu non devi star lì a farti menare. Una cosa non esclude l’altra: se io lascio la macchina aperta e me la rubano, a nessuno viene in mente che dirmi “Sì, però potevi chiuderla” sia una mancanza di condanna del reato. Certo che c’è una condanna del reato, però resta il fatto che io potevo chiudere la macchina. Non è semplice valutare le relazioni degli altri, tanto che non riusciamo quasi mai nemmeno a valutare le nostre, però c’è un concorso di colpa: le relazioni malate si tengono su in due. Ovviamente in un contesto scevro dalle questioni pratiche: se sei una casalinga che non sa come mantenersi e non può andarsene di casa, è una questione diversa rispetto a una che avrebbe la libertà di andarsene e non lo fa.

Però se una Kim Kardashian dice che il miglior business advice che può dare alle donne è «Get your fucking ass up and work», viene giù il mondo.
Con qualsiasi avvocato che si occupa di queste cose parli, questo le dirà che le donne non riescono ad andarsene dagli uomini stronzi perché non hanno un lavoro. Ma la maggior parte di queste donne non lo vuole avere: cioè, vuole avere gli alimenti.

E quando hanno iniziato a essere così?
Nel momento in cui abbiamo iniziato a dire alle donne che il femminismo era fare quello che volevano e che se desideravano stare a casa a fare le massaie era altrettanto dignitoso che andare a lavorare. Nel momento in cui abbiamo iniziato a dire che il lavoro domestico andrebbe retribuito, perché il lavoro di cura ricade sempre sulle spalle delle donne – come se avessimo eternamente cinque anni e non fossimo responsabili di noi stesse. Però non siamo le nostre nonne che andavano a lavare i panni al fiume: viviamo in un mondo in cui il lavoro domestico è caricare una lavatrice, una cosa che fanno anche quelle che hanno una famiglia e hanno un lavoro. Quindi l’idea che avere dei figli sia un’occupazione a tempo pieno è francamente ridicola: ovvio che ci devono essere gli asili e che gli asili devono essere parte del welfare, ma non mi puoi dire che siccome hai un figlio non puoi avere un lavoro – quando tua nonna tirava l’aratro allattando il sestogenito.

Quindi cosa vogliamo sentirci dire?
Che abbiamo diritto a lamentarci: quella è la cosa che ci interessa di più. Molto di più che risolvere i problemi. Anzi, se i problemi restano meglio, così abbiamo qualcosa di cui lamentarci.

Il problema è che ormai il lamento è diventato un flusso costante: ogni giorno salta fuori una nuova indignazione.
Non potete dirmi il lunedì che c’è il pericolo fascismo e il martedì che volete parlare per dieci giorni di un articolo determinativo. Perché se c’è il pericolo del primo, non possiamo perdere tempo a parlare del secondo: non è vero come dicono le militanti di Instagram che ci si può occupare di tutto, il tempo e le risorse sono in quantità limitata. L’inizio della disintermediazione porta tutti a parlare di tutto, e a quel punto qualcuno deve assumere la responsabilità di fare da filtro. Qualcuno deve dire “Questa cosa è rilevante, questa cosa no; di questa cosa mi presto a parlare, a questa cosa mi presto a fare da sponda, e a questa no”. Perché se i giornali diventano dei posti in cui qualunque rutto venga fatto su Twitter è notiziabile, è esattamente come se negli anni Ottanta i giornali – cosa che non facevano, e infatti vendevano – avessero riportato le scritte sui muri dei cessi degli autogrill. È un meccanismo che priva di qualunque senso il ruolo dei giornalisti e degli intellettuali: se gli intellettuali non stanno lì per dire “Ma chi se ne frega di questa cosa”, cosa stanno lì a fare?

Mi viene in mente un suo recente tweet: “Sappiamo ormai da anni che se dai un palcoscenico a tutti, quel che otterrai è (anche) critica culturale fatta da gente senza strumenti culturali (per anagrafe o per formazione): quanto vogliamo continuare a trasecolarne?”
La cosa preoccupante è che ciò avviene in pubblico, in un pubblico che noi confondiamo con autorevole. Una volta chi aveva un’opinione saliva sulla cassetta della frutta a Hyde Park, diceva la sua, ed era ufficialmente un matto che saliva sulla cassetta della frutta a Hyde Park. Adesso questo si apre un account e improvvisamente, siccome tutti abbiamo i social sul telefono, entra in casa nostra: non siamo più noi ad andare a vedere il matto ad Hyde Park, anzi, il matto ci sembra una cosa di cui ci dobbiamo occupare, a cui dobbiamo dare rilevanza e che ci deve riguardare. Una volta, quella che ora guarda @Vongola75 su Instagram che le dice “Sì ok le donne iraniane, ma pure noi siamo oppresse perché abbiamo l’iva sugli assorbenti” si sarebbe sentita dire la stessa cosa da sua cognata, dalla sua vicina di scrivania. E magari le sarebbe andata dietro perché – diciamo questo grande rimosso – l’umanità non è intelligente in media. L’umanità in media è abbastanza imbecille. Che un essere umano medio imbecille creda a delle cose imbecilli che gli vengono dette mi pare fisiologico.

La cito un’altra volta: “Siamo tutti quindicenni a cui piace piacere”. Perché è successo? Come ci siamo arrivati?
A Pompei hanno scoperto qualche anno fa un affresco di Narciso, che è entrato nel giro turistico di chi va a visitare il sito archeologico. C’è una guida che quando arriva all’affresco spiega ai turisti chi era Narciso, dicendo (in napoletano): “Narciso si specchiava nell’acqua e si piaceva talmente tanto, talmente tanto, talmente tanto, che alla fine s’è chinato troppo a guardarsi, è caduto nell’acqua ed è morto. Uno sciemo totale”. Ecco, questa cosa purtroppo me l’hanno raccontata quando avevo già finito di scrivere L’economia del sé, ma se l’avessero fatto prima forse avrei pubblicato un libro bianco con una sola immagine e la scritta “Uno sciemo totale”. Mi sembra spieghi abbastanza bene cosa siamo, con un dono della sintesi che io non ho avuto.

A me personalmente basta piacere a quelli che mi piacciono e che stimo, mica a tutti.
Di solito quelli che dicono che non si può piacere a tutti sono poi quelli che se scoprono di non piacere a qualcuno si mettono a piangere. Però è vero che c’è un tema sul dissenso online: a me capita spessissimo di sentirmi dire da persone insospettabili che ci stanno malissimo quando vengono insultate, quando per me non è normale starci male. Non per il discorso persone che stimo/persone che non stimo – che mi sembra abbastanza una puttanata, nel senso che la vanità non cavilla in questo modo – ma perché viviamo in un tempo in cui quella è la reazione a qualunque azione: una cosa per cui nessuno t’insulta è una cosa che nessuno ha letto. È impossibile scrivere anche solo “Oggi c’è bel tempo” senza che nessuno t’insulti: se vado su Twitter e scrivo “Oggi c’è il sole, che bello”, arriva qualcuno a dirmi “Eh certo, perché non te ne frega niente dell’emergenza climatica”; se scrivo ‘”È finalmente venuto il freddo, meno male”, rispondono “Eh certo, perché tu ti puoi permettere il riscaldamento”. Vedevo ieri sera un monologo di Chris Rock del ’99 in cui ci sono robe per cui oggi verrebbe crocifisso in piazza. A un certo punto dice che gli uomini e le donne mentono diversamente: noi mentiamo di più, ma voi dite delle bugie più gravi, perché noi mentiamo sui centimetri di cazzo, voi mentite quando ci dite che il bambino è nostro. Che poi, dipende pure dal punto del paesaggio in cui ti trovi in quel momento a guardare: ci sembra sempre che certe cose abbiano un’eco pazzesca perché ce l’hanno negli account che seguiamo, nelle pagine che guardiamo, nelle cose che leggiamo, poi ci voltiamo e scopriamo che c’è qualcuno che quella cosa lì non l’ha mai sentita nominare.

A volte, quando torno a Bologna ed esco con le mie amiche del liceo, mi rendo conto di parlare di polemiche che hanno infiammato la bolla milanese e che loro bellamente ignorano. A Milano, invece, ho perso un paio di amici per aver appoggiato J.K. Rowling: m’hanno dato della transfobica, un termine che per quanto mi riguarda non ha assolutamente senso.
L’idea che ci possa essere qualcuno che non ha mai sentito parlare – non per posa – di ciò che viene considerato il talk of the town è una prospettiva che secondo me dovremmo tenere presente più spesso quando pensiamo che tutto il mondo sia quello in cui ci specchiamo ogni giorno. Per quanto riguarda il termine transfobico, non ha senso come non ha senso nessuno degli utilizzi del suffisso -fobico che si fanno in questa epoca. Una volta ho fatto un tweet scrivendo qualcosa tipo “Ma il transfobico di cosa dovrebbe avere paura? Che quello che ha davanti lo meni sia con la borsetta, sia con l’uccello?”. Credo m’abbiano parecchio insultata, ma purtroppo mi accade spesso quindi non ho ricordi precisi. Nel momento in cui ti dico “fobico” intendendo “discriminatorio”, chiudo automaticamente la discussione. È come “fascista”: termini che non hanno un valore dialettico ma da scuole medie, della serie “Cicca cicca, la discussione finisce qui”.

Tutta la (finta) discussione attorno a temi come transgender e transfobia, poi, ha raggiunto vette di stupidità che vanno al di là della mia personale comprensione.
Abbiamo deciso che il corpo è un accessorio quando non lo è affatto: il corpo – come nella gravidanza – è protagonista assoluto. Tra l’altro è il fulcro del gender gap: se le donne non restassero incinte e non sanguinassero per più di un terzo della loro vita, molto del resto si risolverebbe. Esattamente come lo è per la questione trans: non si può far finta che essere una donna sia qualcos’altro dal fatto che hai meno muscoli, sei fisicamente più debole, puoi fare figli e una serie di caratteristiche tutte fisiche. Non c’è un essere donna spirituale. Non è che mi sveglio la mattina e dico “Dio mio, come mi sento donna”.

Tutte affermazioni che, se fatte da un attore, un cantante o un comico, lo obbligherebbero a cospargersi il capo di cenere e chiedere pubblicamente scusa.
Devono chiedere scusa quelli che sono nella posizione di non potersi permettere di non chiedere scusa. Michela Giraud chiede scusa per aver preso per il culo Demi Lovato per una cosa per cui la stessa Lovato prende per il culo sé stessa un quarto d’ora dopo, e Dave Chappelle non chiede scusa quando da Netflix tutti gli impiegati trans minacciano le dimissioni. Perché Michela Giraud ha un film in uscita legato alla comunità delle consonanti e probabilmente un produttore le ha consigliato di non inimicarsi il proprio pubblico. Invece Chappelle, che ha decisamente le spalle più larghe, sa che i suoi monologhi sono la cosa più vista di Netflix, quindi Netflix non può permettersi di perderlo. Molte cose, che attengono anche ai rapporti tra i sessi, sono una questione di prepotenza: quando le donne si lamentano perché i mariti non raccolgono i calzini da terra o non sciacquano i bicchieri, penso sempre che non lo faccio neanch’io. E non facendolo, alla fine, qualunque uomo passi da casa mia è sempre quello che raccoglie i calzini e sciacqua i bicchieri, perché dopo un po’ non ne può più del disordine e mette a posto. A me del disordine non me ne importa nulla, quindi il mio fregarmene è una forma di prepotenza che costringe l’altro a occuparsene. Alla fine vince sempre chi se ne fotte, però nel sistema industriale odierno dello spettacolo o della moda fottersene è un lusso che possono permettersi in pochissimi. In Italia se dici delle cose che non dovresti dire e non chiedi scusa, i casi sono due: o sei Pio e Amedeo e sei nel novero degli impresentabili, o sei Zalone o Fiorello, gli unici talmente talentuosi da non essere impresentabili e da permettersi di dire delle cose per cui l’internet pretende scuse che non arrivano.

Fiorello e Zalone hanno la capacità di ricordarci che si può ridere di tutto.
Due o tre anni fa uscì un leak audio di Louis C.K. di quando ancora non era stato riammesso nei grandi circuiti e provava i monologhi nei club. La cosa che faceva più ridere – che poi lui non mise nella versione finale del suo monologo – era una roba in cui, riferendosi al massacro di Sandy Hook, parlava di questi ragazzini superstiti che vengono portati dappertutto a dire la loro opinione e considerati dei pilastri del pensiero: “Non è che adesso perché ti hanno sparato diventi intelligente”. Che è una grandissima verità, nonché la cosa che funzionava di più di quella prova, ma che per via delle polemiche poi venne eliminata. Ventitré anni fa Chris Rock poteva fare uno speciale su HBO in cui ironizzava sui ragazzini e sulle sparatorie nelle scuole, vent’anni dopo Louis C.K. non può azzardarsi a farlo manco in una prova in un club. Perché abbiamo deciso che non conta più quello che uno dice, come lo dice o la qualità della battuta: conta che su certi temi non si scherza. Già solo la frase “Su certe cose non si scherza” è la più pericolosa del mondo.

E come si fa a non cedere al trappolone delle scuse, del pentimento, della ritrattazione?
Zalone e Fiorello non hanno mai detto be’ di nessuna polemica dell’internet: nel momento in cui tu ti metti a non rispondere ai tweet, non ti metti a riconoscere pubblicamente l’esistenza di @Vongola75, quella cosa non esiste. Al massimo diventa una gallery sul sito di Repubblica – “Tempesta social contro Fiorello” – che dura il tempo che dura una gallery sul sito di Repubblica: fino al prossimo scandalo, ossia in genere tre quarti d’ora. La vera grande lezione che avremmo dovuto imparare da Chiara Ferragni è che se tu non le dai risonanza, la polemica non esiste.