Il diavolo siamo noi, l'intervista a Stephen King nel giorno del suo compleanno | Rolling Stone Italia
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Il diavolo siamo noi, l’intervista a Stephen King | I 10 film migliori tratti dai suoi libri

Crede nella malvagità dell’uomo. Ma ha anche deciso di fidarsi di Dio. Odia Hemingway e “Shining” (il film), ama Springsteen e la tv. Cosa farà a 80 anni? «Spaventerò la gente»

Il diavolo siamo noi, l’intervista a Stephen King

L’ufficio di Stephen King è in un palazzo alla fine di una desolata strada senza uscita alla periferia di Bangor, nel Maine. A fianco ci sono un negozio di armi, un concessionario di spazzaneve e, non è uno scherzo, un cimitero. È un edificio anonimo, scelto apposta per tenere al sicuro King e il suo staff. «Non possiamo stare in una zona centrale della città, perché la gente ci troverebbe», spiega la sua assistente, «e Stephen attira persone piuttosto strane». L’interno è un tempio del culto King: stanze decorate con dipinti e opere d’arte che rappresentano i personaggi dei suoi libri (spedite dai fan), un pupazzo del clown psicopatico protagonista di IT e un altro dello stesso King in versione Simpson, pile di libri. A pochi chilometri da qui c’è la sua villa in stile gotico – con tanto di cancello di ferro a forma di ragnatele e pipistrelli – che attira ogni giorno carovane di turisti. Ma lui non ci va mai. Passa la maggior parte dell’anno a Lovell, sempre nel Maine, a due ore e mezza di macchina da dove siamo ora. E, quando arriva l’inverno, va con la moglie a Sarasota, in Florida. Viene in ufficio più o meno una volta al mese. Oggi è passato per sistemare alcuni dei suoi numerosi progetti. Ha appena pubblicato il suo libro Chi Perde Paga (sequel del recente Mr. Mercedes) e sta lavorando ad altri due libri in uscita. Inoltre, ha in progetto la sceneggiatura di A Good Marriage, il nuovo film di Joan Allen e Anthony LaPaglia, e sta facendo ulteriori ritocchi al musical che ha scritto con John Mellencamp, intitolato Ghost Brothers of Darkland County.

Stephen King, 67 anni, è steso su una poltrona del suo ufficio e addenta una ciambella che riempie di zucchero a velo il suo dolcevita nero. Dal suo esordio nel 1974 con Carrie, King ha venduto circa 350 milioni di copie, guadagnando centinaia di milioni di dollari. Ma non rilascia molte interviste, soprattutto da quando, una quindicina di anni fa, ha rischiato di morire dopo essere stato investito vicino a casa. Ha accettato però di incontrare Rolling Stone per parlare della sua vita e della sua carriera.

Che cosa ti ha spinto verso l’horror e il soprannaturale, temi al centro della maggior parte dei tuoi libri?
Ce li ho dentro. Il primo film che ho visto era un film dell’orrore, Bambi. Ricordo quel cucciolo di daino intrappolato nell’incendio della foresta: ero terrorizzato, ma allo stesso tempo divertito. Non so come spiegarlo.

Non te ne sei mai vergognato?
No, ho sempre considerato divertente spaventare le persone. Ma ormai è socialmente accettabile, ci sono in giro tanti film e libri dell’orrore. Da ragazzino ho battuto i denti per anni leggendo i fumetti di The Crypt of Terror.

Scrivendo romanzi horror, però, hai scelto uno dei generi letterari meno rispettati.
Vero, ma che ci posso fare? È quello che sento. Mi piacciono anche D.H. Lawrence, la poesia di James Dickey, Emile Zola, Steinbeck. Fitzgerald non molto. Hemingway per niente. Hemingway fa schifo. Alla gente piace, e va bene così, ma se io provassi a scrivere in quel modo verrebbe fuori qualcosa di noioso e privo di vita. Una cosa la devo dire: io ho dato dignità al genere horror.

Nessuno potrebbe sostenere il contrario.
È molto più rispettato, adesso. Ho passato la mia vita a combattere contro l’idea secondo cui alcuni generi letterari non sono considerati vera letteratura. Raymond Chandler ha dato dignità al genere poliziesco. I grandi scrittori abbattono le barriere.

Però, all’inizio, la critica è stata molto dura con te.
Il Village Voice ha pubblicato una caricatura che mi ferisce ancora oggi. Una mia immagine con la faccia enorme e la bocca spalancata, mentre mangio palate di soldi. Il solito pregiudizio: se un libro vende tanto vuol dire che è brutto. Se qualcosa è accessibile alla massa vuol dire che è una cosa stupida, perché la gente è stupida. È un’idea elitaria, che non mi piace.

Al centro di uno dei tuoi ultimi libri, Revival, c’è la religione. Uno dei protagonisti è un reverendo che si rimette nelle mani di Dio quando la sua famiglia muore, ma allo stesso tempo fa un sermone durissimo, dicendo che la religione è una truffa. È la tua opinione personale?
La religione organizzata è uno strumento pericoloso, usato per fini sbagliati da molte persone. Sono cresciuto in una chiesa metodista, andavamo a messa tutte le domeniche e al catechismo tutte le estati. Non avevamo altra scelta. In Revival, tutti i riferimenti alla religione sono autobiografici. Da bambino ero pieno di dubbi, frequentavo la comunità metodista e mi dicevano che i cattolici sarebbero andati tutti all’inferno, perché adoravano falsi idoli. E io mi chiedevo: “Ok, però mia zia Molly ha sposato un uomo cattolico, si è convertita al cristianesimo e insieme hanno avuto 11 figli. Stanno tutti bene, e uno di loro è anche un mio buon amico. Andranno tutti all’inferno? Stronzate”. E, se questa è una stronzata, perché non dovrebbe esserlo anche tutto il resto?

Ne hai mai parlato con tua madre?
Dio mio, no! Perché avrei dovuto farlo? La amavo moltissimo. Semplicemente, uscito dal liceo, ho chiuso con la religione. Una volta che hai visto un pastore come Jimmy Swaggart che va a puttane, capisci che è tutta una enorme ipocrisia.

Però hai detto che credi in Dio.
Sì, ho scelto di credere in Dio perché è meglio così. Ti dà qualcosa su cui meditare, un punto di forza. Non mi chiedo mai se Dio esiste o non esiste, ho scelto di credergli e quindi posso dire: “Dio, non ce la posso fare da solo. Aiutami a non bere oggi, aiutami a non prendere droghe”. Funziona.

Credi nella vita dopo la morte?
Non lo so, sono totalmente agnostico. Mettiamola così: mi piacerebbe poter pensare che esista una specie di vita dopo la morte. Quando stiamo per morire, i circuiti di emergenza del nostro cervello si attivano. Non lo dico sulla base di prove scientifiche, ma è possibile che quando stai morendo questi circuiti si accendano e creino un campo energetico o qualcosa del genere. Il che spiegherebbe il fenomeno delle luci bianche, dei fantasmi e di quelle volte in cui la gente clinicamente morta vede i propri antenati: “Ciao, che piacere”.

Speri di andare in paradiso?
Non nel paradiso di cui mi hanno parlato quando ero bambino. Mi sembra noioso. Devo stare spaparanzato su una nuvola tutto il giorno ad ascoltare gente che suona l’arpa? Non me ne frega niente dell’arpa, io voglio ascoltare Jerry Lee Lewis!

Ti farebbe star meglio avere fede?
No, credo che l’insicurezza sia un valore. Avere delle certezze ti porta all’autocompiacimento, il che vuol dire che te ne stai seduto sul tuo comodo divano in qualche bella casa in un quartiere residenziale del Michigan, guardi la CNN e dici: “Oh, quei poveri immigranti messicani che ogni giorno attraversano la frontiera! Peccato che non possiamo farli venire qui, perché Dio non vuole. Rimandiamoli al loro Paese, in mano ai cartelli della droga”.

E il male? Secondo te, esiste?
Credo nel male, ma è tutta la vita che mi chiedo se il male sia fuori o dentro di noi. Prendiamo l’esempio di Ted Bundy, uno che a volte ha fatto anche sesso con i cadaveri delle donne torturate e uccise. Non credo che si possa guardare alla sua infanzia e dire: “Oh, è tutta colpa di sua madre che quando aveva 4 anni gli ha chiuso una molletta da bucato sul cazzo!”. Quel tipo di comportamento faceva parte della sua natura, fin dall’inizio. Il male è dentro di noi. Più passano gli anni, più mi convinco che il diavolo non esiste. Siamo noi il diavolo. E, se non risolviamo questo problema, prima o poi, finiremo per ammazzarci l’un l’altro.

In che senso?
Recentemente ho letto un articolo scientifico che mi ha terrorizzato. Diceva che abbiamo ascoltato le stelle e l’universo per 50 anni cercando qualche segno di vita extraterrestre, e non c’è mai stato nient’altro che silenzio. Cosa vuol dire? Forse tutte le forme di vita intelligenti raggiungono a un certo punto un livello di sviluppo tecnologico e di violenza che non riescono a superare. E svaniscono nel nulla. Sbattono contro un muro ed è finita.

L’umanità è destinata ad autodistruggersi?
Non posso prevedere il futuro, ma so che è brutto.

Raccontami una tua giornata tipo.
Mi sveglio, faccio colazione, cammino per cinque chilometri, torno a casa, vado in ufficio. Sulla scrivania tengo un manoscritto del libro che sto scrivendo e, di solito, metto in cima alla pila di fogli l’ultima pagina che mi è piaciuta. La leggo ed è come entrare in pista e decollare: ripercorro il testo, mi scatta qualcosa dentro e riesco a riprendere la storia dalla parola in cui l’ho lasciata, qualunque essa sia. Non passo tutta la giornata a scrivere, di solito lavoro un paio d’ore, poi rileggo e sistemo le nuove pagine, stampo quelle che mi piacciono, le metto in cima al manoscritto e spengo tutto. E il giorno dopo si ricomincia.

Lavori tutti i giorni?
Tutti, anche il sabato e la domenica. Prima scrivevo di più ed ero anche più veloce, invecchiando ho rallentato un po’.

Scrivere è una forma di dipendenza?
Certo, e la adoro. Ma continui a ottenere tanto anche se diminuisci la dose. Mi spiego: man mano che il tempo passa, più droga e alcol consumi, meno effetto ti fanno. Ti piace sempre, ma diventa un comportamento ossessivo-compulsivo. Di solito scrivo per sei mesi filati e poi mi fermo per 10 o 12 giorni e lascio che la storia si depositi. A quel punto, di solito, mia moglie impazzisce e comincia a dirmi: “Vattene, esci di casa, fai qualcosa. Costruisci una casetta per gli uccelli in giardino, qualsiasi cosa!”. Allora guardo la televisione, suono la chitarra e lascio passare il tempo, poi vado a dormire e faccio sogni inquietanti. Perché quando azioni la macchina che ti fa scrivere le storie, non puoi più fermarla e, se non la sfoghi nella scrittura, finisce nei sogni. Di solito sono sogni che hanno a che fare con la vergogna o l’insicurezza».

Per esempio?
Ho un sogno ricorrente: sono un attore, arrivo in teatro per la prima e mi rendo conto che non solo ho perso il mio costume, ma non ho nemmeno imparato la parte.

Hai ancora paura di fallire?
Certo, ho paura di un sacco di cose. Soprattutto per quanto riguarda le mie storie. Ho paura che non siano giuste per me, o di non riuscire a finirle.

Quanto tempo ci hai messo per scrivere Revival?
I miei libri richiedono circa un anno. Redigi una brutta copia, poi la metti a posto togliendo le cose che non funzionano. Qualcuno ha chiesto a Elmore Leonard: “Come si fa a scrivere un libro che piaccia alla gente?”. E lui ha risposto: “Togli tutte le parti noiose”.

C’è qualcosa di te nel personaggio di Jamie?
Assolutamente sì. Jamie è un uomo che comincia a prendere droghe dopo aver avuto un brutto incidente in moto. Esattamente come è successo a me. Forse, a pensarci bene, i miei problemi sono iniziati durante il college.

E quando l’alcol ha cominciato a diventare un serio problema?
Ho iniziato a bere a 18 anni, ma mi sono reso conto di avere un problema quando il Maine è diventato il primo Stato ad avere una legge sul riciclo delle lattine e delle bottiglie di alcolici. Non potevi buttarle via, dovevi conservarle e portarle in un centro di riciclo. In casa non beveva nessuno tranne me. Una sera, vado a buttare la spazzatura e vedo il bidone delle lattine di birra pieno fino all’orlo. La settimana prima era vuoto. Bevevo qualcosa come una cassa di birra ogni sera. Ho pensato: “Sono un alcolizzato”. Era il 1978 o giù di lì.

Quando sono arrivate le droghe?
Nello stesso momento, quando ho capito che pensavo di poter controllare l’alcol. Ma non era vero.

Cocaina?
Sì, sono stato un consumatore accanito dal 1978 al 1986.

Scrivevi sotto l’effetto della coca?
Certo. La coca è diversa dall’alcol. Puoi fartela sempre, e io me la facevo sempre.

Avevi già tre figli piccoli, deve essere stato stressante mantenere questo ingombrante segreto e intanto continuare a gestire le responsabilità della famiglia.
«Non me lo ricordo».

Davvero?
Tutto quel periodo è molto confuso. Consumavo la coca sempre da solo, non uscivo mai a bere: dicevo che non mi piaceva frequentare i bar, perché erano pieni di stronzi come me.

Non riesco a capire come tu abbia potuto avere una vita segreta da cocainomane e allo stesso tempo essere padre di famiglia e scrivere bestseller per otto anni.
Non lo capisco neanche io, ma l’ho fatto. Quando sei dipendente da una droga devi consumarla, non puoi mica fermarti. Cerchi solo di fare il possibile per tenere la situazione sotto controllo. Io al tempo ero molto forte, altrimenti mi sarei ucciso. Il problema è che i libri hanno cominciato a risentirne. Misery è un libro sulla cocaina. Annie Wilkes è la cocaina. Era la mia fan numero uno.

Anche la tua scrittura era peggiorata?
Sì. Le creature del buio è un libro pessimo: è stato l’ultimo che ho scritto prima di ripulirmi. Ho pensato spesso che dovrei riscriverlo. È lungo 700 pagine, ma quelle buone sono al massimo 350.

Qual è il migliore libro che hai scritto fino a ora?
La storia di Lisey. È un libro importante, perché parla del matrimonio, un argomento che non avevo mai affrontato. Volevo dire che in una coppia si crea un mondo intimo e segreto, ma anche lì ci sono cose che non sappiamo l’uno dell’altra.

Hai accumulato una fortuna nel corso della tua carriera. Molti, al tuo posto, vivrebbero alla grande, ma non è il tuo caso: quindi, cosa sono i soldi per te?
I soldi mi servono per comprare libri, musica e andare al cinema. Non ci penso mai, sono solo un mezzo per mantenere la mia famiglia e fare le cose che mi piacciono. Non ho la passione dei vestiti, né delle barche. Ho una casa in Florida, ma solo perché vivo nel Maine! Mi piacciono le macchine, perché sono cresciuto in campagna e le macchine erano importanti, quindi forse ne ho più di quante me ne servano. Ma è la mia unica stravaganza.

Tuo padre se n’è andato di casa quando avevi 2 anni. La sua assenza ha cambiato la tua vita? E come?
Non lo so, non mi piace analizzare il passato. Però ricordo quando io e Tammy ci siamo sposati nel 1971. Non avevamo niente. Io lavoravo a una pompa di benzina, lei frequentava ancora la scuola. Dopo, siccome non trovavo lavoro come insegnante, ho lavorato in una lavanderia, eravamo davvero al verde. Quando finalmente ho avuto un posto come insegnante, lei lavorava da Dunkin’ Donuts, non avevamo neanche il telefono in casa e avevamo già due figli. Non chiedermi perché lo abbiamo fatto, non so cosa avevamo in testa allora.

Rifaresti tutto?
Dovevamo essere veramente fuori di testa, ma sono felice di tutto e amo i miei figli. Mia moglie era molto carina nella sua divisa rosa di Dunkin’ Donuts. Dio mio, se le stava bene! Era molto sexy tutta avvolta in quella tutina di nylon rosa. Io insegnavo a scuola, tornavo a casa e stavo con i bambini, li cambiavo. Poi lei arrivava alle 11 di sera e portava i cartoni vuoti di Dunkin’ Donuts che usavamo per buttare via i pannolini. Quando andavamo a letto pensavo: “Non voglio lasciare questa famiglia per nessuna cosa al mondo”.

Tuo padre è morto nel 1980. Ti è mai venuta voglia di contattarlo e chiedergli la sua versione dei fatti?
No. Da bambino dicevo: “Voglio trovarlo e spaccargli la testa”. Poi ho cominciato a dire: “Voglio trovarlo, chiedergli perché e poi spaccargli la testa”. Alla fine ho capito che non aveva scuse. Ha lasciato mia madre con un mucchio di debiti, e lei ha dovuto lavorare duro per farcela.

Perché non lo hai fatto?
Ero troppo impegnato.

Cosa pensi del culto intorno a Shining?
Non lo capisco. La gente ama quel film, ma io no: il libro è caldo, il film è freddo. Il libro finisce nel fuoco, il film nel ghiaccio. Nel libro, Jack Torrance attraversa un percorso: all’inizio cerca di essere buono e poi impazzisce, ogni giorno di più. Nel film, invece, Jack Nicholson è pazzo fin dalla prima scena. Quando sono andato alla proiezione ho dovuto tapparmi la bocca. C’era anche Nicholson, e a me veniva da dire: “Io lo conosco: è quell’attore che ha recitato in cinque film di motociclisti facendo sempre la stessa parte”. E poi è un film misogino. Wendy Torrance viene rappresentata come una specie di sciattona che urla sempre.

Qual è il film migliore tratto dai tuoi libri?
Forse Stand By Me, è fedele al libro e ha la stessa intensità emotiva. Era stato girato con un budget ridottissimo, doveva uscire in cinque o sei sale e poi sparire e invece è diventato un successo. Anche Le ali della libertà, Il miglio verde e Misery sono dei gran film, L’ultima eclissi è molto bello, Cujo è fantastico.

Pensi di avere meno lettori giovani ora, rispetto a quando hai iniziato?
Forse. Sono considerato uno scrittore per adulti, perché sto invecchiando anche io.

Ti dà fastidio?
Sono motivato dall’idea di piacere a quante più persone possibile. Però deve esserci un limite, e per me è quando ti dici: “Non ho intenzione di vendermi”. Ho avuto una discussione con me stesso riguardo a Mr. Mercedes: “Vuoi scrivere quello che senti di scrivere o vuoi scrivere quello che vuole il pubblico? In tal caso, perché cazzo hai fatto tutto questo?”.

Uno dei protagonisti di Revival è un chitarrista rock. Avresti potuto essere un musicista se avessi avuto un po’ più di talento?
Sicuro! Amo la musica, suono la chitarra. Il protagonista di Revival, Jamie, è un talento naturale. Lui fa con la chitarra quello che io faccio con la scrittura. È una cosa che viene fuori da sola, nessuno me lo ha insegnato. In questo libro ho trasferito nella musica quello che io provo con la scrittura.

Qual è il concerto più bello che hai visto?
Bruce Springsteen alla Ice Arena di Lewiston, Maine, nel 1977. Ha suonato per due ore. Fantastico. Era pieno di energia, generoso e la sue canzoni erano piene di vita vissuta. Lo rispetto molto come autore e per la profondità dei suoi testi. Il mio album preferito è Nebraska.

Pensi mai a quale potrebbe essere la tua eredità?
Non molto. Anche perché non dipende da me. Quando uno scrittore muore, succedono due cose: o la sua opera sopravvive, oppure viene dimenticata. Un giorno qualcuno aprirà un vecchio baule e dirà: “Chi è questo tizio, Irving Wallace?”. Chiedi a uno studente del liceo se conosce Somerset Maugham. Ha scritto dei bestseller ai suoi tempi, ma ora non se lo ricorda più nessuno. Agatha Christie invece non è mai stata così popolare, continua ad avere successo generazione dopo generazione. Eppure non è una scrittrice migliore di Maugham, e non ha mai fatto altro che intrattenere i lettori. Quindi no, non so cosa succederà.

Più volte hai minacciato di ritirarti, ma ovviamente non l’hai mai fatto. Ti vedi a 80 anni a scrivere ancora libri?
Sì, che altro potrei fare? Devi trovare qualcosa per riempire le tue giornate, e suonare la chitarra e guardare la televisione non mi possono certo bastare. Scrivere è una cosa che mi appaga. E poi mi piace per due motivi: mi rende felice, e fa felice anche gli altri.

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di dicembre 2014.
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