Cory Doctorow: «I colossi del digital non sono guidati da geni del male, ma da criminali» | Rolling Stone Italia
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Cory Doctorow: «I colossi del digital non sono guidati da geni del male, ma da criminali»

Durante il lockdown le multinazionali della tecnologia hanno moltiplicato i guadagni. Ma è giusto che così tanto denaro si concentri in poche mani? È un processo reversibile? L’abbiamo chiesto allo scrittore e attivista

Cory Doctorow: «I colossi del digital non sono guidati da geni del male, ma da criminali»

Mai come in questo periodo di pandemia le multinazionali della tecnologia si stanno riempiendo le tasche. Nelle crisi economiche ci sono immancabilmente vincitori e vinti e che piaccia o meno lockdown, coprifuochi e stop agli eventi stanno consentendo ad Amazon, Facebook e compagnia bella di crescere ancora più rapidamente di quanto non stessero già facendo prima della pandemia. Basti pensare che sulla scia del successo dell’e-commerce l’AD di Amazon, Jeff Bezos, ha visto il suo patrimonio personale raggiungere la cifra record di 192 miliardi di dollari (+69,9% da marzo). Questo a metà ottobre, mentre i patrimoni di Mark Zuckerberg e Bill Gates salivano rispettivamente a 97,9 (+78,6%) e 118 miliardi di dollari (+ 20,4%), e quello di Eric Yaun, il fondatore di Zoom, passava da 5,5 a 24,7 miliardi di dollari (+349%). È giusto che così tanto denaro si concentri in così poche mani? Secondo Cory Doctorow, scrittore di fantascienza, giornalista e attivista britannico-canadese di stanza a Los Angeles, esperto di diritti digitali e sicurezza informatica, non solo non è giusto, è folle e pericoloso. «Pensiamo all’incontro che a fine 2016 ha visto Trump, appena eletto Presidente Usa, ricevere i leader delle maggiori aziende tech nella sua Trump Tower», dice l’autore del blog Craphound, reduce dalla pubblicazione del suo nuovo romanzo Attack Surface. «Quell’immagine spiega bene quanto i monopoli conquistati da quei leader garantiscano agli stessi un potere quasi illimitato sulle vite di miliardi di persone. E il fatto che quei giganti siano così pochi da poter stare attorno a un tavolo è allarmante, non è difficile immaginare che questo gli permetta di accordarsi su come arricchirsi a nostre spese».

Il documentario The Social Dilemma di Jeff Orlowski punta il dito contro la manipolazione degli individui messa in atto dai colossi del digitale allo scopo di generare profitti.
Non ho visto The Social Dilemma, ma ne conosco le tesi di fondo e il punto è: la manipolazione basata sui Big Data non è facile da provare e conta poco che i pentiti della Silicon Valley affermino che le Big Tech condizionano i nostri comportamenti per i loro profitti, non si può dimostrare che questo annulli il nostro libero arbitrio. Semmai va detto che i colossi del digitali non sono capitanati da geni del male, come si dice spesso, ma da criminali monopolisti, è questo che va compreso. Non possiamo smantellare le loro società, ma attraverso norme antitrust possiamo contrastare la loro capacità di unirsi in oligarchie tecnocratiche e la libertà di cui dispongono di fare quello che gli pare azzerando la concorrenza.

Siamo nel libero mercato, si dice…
Ma compagnie come Facebook, Google e Apple, che hanno riscosso successo con prodotti amati dalla gente, oggi hanno abbastanza profitti per acquisire o fondersi con ogni piccola compagnia che possa rappresentare una minaccia – è ciò che ha fatto Facebook con Instagram e Whatsapp – e per creare dei “monopoli verticali” comprandosi i loro stessi fornitori, come ha fatto Google con Android, AdMob e DoubleClick. E arrivati a questo punto sai che gliene frega dei loro utenti o clienti. Facebook, per esempio, ne sta perdendo tantissimi, ma dove finiscono? Su Instagram, che è di Facebook. Apple schiaccia le aziende che vendono nell’App Store, Amazon fa lo stesso con i commercianti che usano la sua piattaforma, Google con i suoi inserzionisti…

Come si è arrivati a questo livello di dominio sul mercato? Colpa del mancato intervento delle istituzioni politiche?
Ci sono varie teorie, c’è chi sostiene che questo tipo di monopoli siano “network effects”, effetti collaterali legati alla natura stessa delle tecnologie digitali. Ma è una tesi che non regge, perché i monopoli esistono anche in altri settori: il mercato discografico è dominato da tre major, quello degli occhiali da Luxottica… Se queste aziende sono diventate monopoliste è perché gliel’abbiamo consentito e questo è un fenomeno iniziato circa 40 anni fa con le politiche neoliberali promosse da economisti che hanno aderito alle teorie di gente come Robert Bork, secondo cui combattere la crescita delle grandi corporation avrebbe indebolito l’economia. Se smetti di rafforzare le norme antitrust, poi non puoi sorprenderti che si creino i monopoli: è come spargere zucchero sul pavimento e stupirsi che si riempia di formiche.

Però è vero che il web ha effetti inerenti alla sua stessa struttura capillare e pervasiva, no?
Sì, nel senso che se tutti i tuoi amici stanno su Facebook o Instagram, finirai per utilizzare quelle piattaforme anche tu.

E se al lavoro tutti usano Zoom dovrai usarlo anche tu.
E poi c’è l’interoperabilità, a rendere concreti i “network effects”. Quando Facebook ha esordito sul mercato ha permesso ai suoi utenti di spedire messaggi ai loro amici che stavano su MySpace e di leggere le loro risposte su Facebook, e questo abbattendo il sistema di sicurezza di MySpace. E adesso Facebook querela le compagnie che tentano di fare la stessa cosa ai suoi danni. Così, senza il permesso di Microsoft, Apple è ricorsa all’ingegneria inversa per creare programmi in grado di leggere file Excel, Word e PowerPoint. Prova oggi a farlo con i file iTunes della stessa Apple: ti farebbero causa al volo. Per non parlare di Google, che ha fatto suo tutto il web. L’interoperabilità trasforma i terreni dei concorrenti in buffet all you can eat e non c’è Big Tech che non abbia sfruttato questo meccanismo per ingrandirsi, salvo poi impegnarsi a distruggerne la legittimità per gli altri.

È un processo reversibile? La Commissione giudiziaria della Camera dei Rappresentanti USA ha di recente divulgato un rapporto con cui accusa Amazon, Apple, Facebook e Google di condotta anti-concorrenziale: “Controllando l’accesso ai mercati, questi colossi possono scegliere chi siano i vincitori e i vinti di tutta la nostra economia”. E in Italia l’Antitrust ha avviato un’istruttoria simile contro Google per abuso di posizione dominante.
È dura distruggere i monopoli, ma da qualche parte bisogna cominciare. Innanzitutto ripristinando l’applicazione puntuale delle leggi antitrust, punendo le condotte anti-concorrenziali fino ad andare nel penale, se e quando necessario. Sottoporre tutte le nuove fusioni e acquisizioni a un controllo rigoroso. Porre fine all’evasione fiscale in Lichtenstein, Regno Unito, Paesi Bassi, Irlanda, Wyoming, Delaware… Rafforzare i limiti al lobbismo aziendale. Proibire che dirigenti d’azienda assumano ruoli presso gli organi che dovrebbero controllare le loro attività. Questo vale per tutti i tipi di monopoli. Dopodiché nel settore tech servono leggi a difesa dell’utilizzo – per esempio – di inchiostro di un marchio nella stampante di un altro marchio, dell’app di una data azienda sul telefonino di un’azienda concorrente, di più sistemi operativi sugli smartphone.

La replica di Google, per dirne una, è sempre la stessa: “la gente usa Google perché ci sceglie, non perché non esistano alternative”; “non lediamo i consumatori, anzi, offriamo loro un servizio gratuito”.
Sono repliche fallaci. E se davvero Google pensa che le persone scelgano liberamente i suoi prodotti in quanto migliori, come mai spende decine di miliardi di dollari all’anno per imporsi come motore di ricerca predefinito?

Sul piatto c’è anche la questione della privacy.
Per quanto riguarda la difesa della privacy è importante essere consapevoli che individualmente, a parte, per esempio, installare tracker-blocker come Privacy Badger (estensioni dei browser per bloccare pubblicità e tracciamenti, nda), non possiamo fare molto. Voler difendere la privacy attraverso scelte individuali è come pensare di risolvere il cambiamento climatico solo con la raccolta differenziata dei rifiuti. La verità è che dobbiamo smetterla di pensare come consumatori e iniziare a pensare come cittadini, e unirci in movimenti che facciano pressione sui governi affinché mettano a punto una legislazione seria ed efficace sulla privacy. E qui il problema sta nel fatto che c’è un confitto d’interessi, perché agli Stati interessa poter usare tutta quella mole di dati raccolti dalle Big Tech per la sorveglianza.

Questione controversa, specie in tempi di emergenza sanitaria, e non possono non venire in mente le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa avviata dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana dopo l’11/9/2001, in nome della lotta al terrorismo. Come la vedi ora con Joe Biden presidente?
Biden ha speso la sua carriera a fare favori alla grande industria, specie al settore finanziario, di cui le big tech sono figlie. Ma è un politico dai principi malleabili: potrebbe rivelarsi uno di quei presidenti centristi – penso a Roosevelt o a Lincoln – spinti verso posizioni radicali dalle grandi forze della storia e dalle proteste di milioni di persone per le strade. Possiamo almeno sperarlo. Ma ripeto, perché questo accada serve un’azione collettiva, e che in ogni Paese la gente faccia pressione sul proprio governo. I mezzi non mancano: in giro non ci sono mai stati così tanti gruppi che si battono per la difesa dei diritti digitali e della privacy digitale. Si è fatta molta strada rispetto a quando le battaglie in questo campo erano ritenute futili.

Intanto a dicembre la Commissione Europea presenterà il Digital Service Act.
Non si sanno ancora i dettagli, ma sono ottimista sull’approccio. Rispetto ai contenuti per ora trapelati avanzerei, però, un paio di critiche. Una riguarda l’idea di limitare, da un lato, le pratiche di auto-preferenza a danno della concorrenza e dei consumatori, ossia la possibilità di una piattaforma di rimandarti ai suoi stessi servizi anziché a quelli dei suoi rivali, dall’altro quelle di non neutralità delle ricerche, per cui una piattaforma, quando fai una ricerca, anziché i migliori risultati, ti mostra quelli connessi ai suoi azionisti e simili. Ma questo porterebbe a dispute legali senza fine. Urge, invece, rimuovere ciò che sta alla base di quelle pratiche, la separazione strutturale deve essere una regola, non l’eccezione: se Google non possedesse un servizio di mappe, si eliminerebbe il problema dei risultati auto-preferenziali offerti da Google Maps. Inoltre, sembra che la questione dell’interoperabilità sia affrontata in modo vago nel Digital Service Act, non sono sicuro che la Commissione Europea abbia compreso di cosa si tratta. Correggere quel meccanismo non sarà affatto semplice, ma esistono innumerevoli studi teorici al riguardo che potrebbero fungere da linee guida, e non parlo solo dei miei lavori, tra i tanti consiglio quello di Ian Brown dell’Oxford Internet Institute.

In guerra contro le Big Tech americane c’è anche la Cina con Huawei, TikTok, Alibaba: è un altro scontro sulle nostre teste?
Le guerre commerciali sono sempre una scusa, per gli Stati, per difendere i loro monopolisti perché “c’è un nemico da sconfiggere”. Sono i monopoli che vanno combattuti, ovunque, a favore di una libera concorrenza tra talenti e creatività.

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