Dico a Colapesce che mi ha rubato l’idea, ma anche che io rispetto a lui sono un dilettante: fotografo sempre le camere degli alberghi per cui giro ma solo nell’attimo prima di lasciarle, così come sono rimaste (cioè com’erano all’inizio: non spacco tutto tipo Johnny Depp), da qualche tempo con un grandangolo alla Lanthimos per cercare di farci stare tutto. Lui invece, in modalità tipologica (cfr. la splendida mostra Typologien sulla fotografia tedesca del ’900, ora alla Fondazione Prada di Milano), ha collezionato e catalogato anni e anni di stanze d’albergo nei loro dettagli, bizzarrie, non-sensi. Ne è uscita Doppia uso singola, mostra in corso alla Galleria Patricia Armocida di Milano (fino al 27 giugno) che al cuore vede il lavoro sugli hotel ma che ci porta pure per altri viaggi, altre storie.
«Con Patricia abbiamo fatto una dura selezione, perché erano centinaia», mi spiega Lorenzo Urciullo, cioè Colapesce per chi non lo sa. «Inizialmente questa cosa è nata per mappare i miei spostamenti, poi mi sono reso conto che negli anni facevo più o meno sempre le stesse foto, e alcune camere erano veramente assurde, dormivo sotto l’insegna dell’hotel con la tapparella che non si abbassava, o in una camera in cui – mi disse la receptionist – aveva dormito Berlusconi, e in un’altra che sembrava l’hotel della Stasi, quella lì verde…».
E poi, «a Taormina c’era il materasso decentrato rispetto alla testiera, e di stanza in stanza tutti quegli oggetti sempre logori, consumati». I telefoni, le lampade, le docce, le grucce, le chiavi, «quella è di Venezia, quando siamo venuti per Iddu»: al posto del numero della stanza, c’è scritto un sinistro “LOSCHI”. E ancora «il periodo del Covid quando imbustavano tutto, le chiavi nelle buste, i telecomandi nelle buste…».
È diventato «un discorso sulla solitudine nello spazio in generale, che poi torna in tutta la mostra. Un’altra mia fissazione sono le corde per le chiamate d’emergenza nelle vasche. Chi cazzo le tira? Io ogni tanto lo faccio». E cosa succede? «Niente, non viene nessuno».

Foto: Lorenzo Urciullo courtesy l’artista e Galleria Patricia Armocida
Torno sulla solitudine. Chiedo a Lorenzo cosa fa in quelle stanze: sono spazi di creatività? Di vuoto? Di cosa? «Io di base soffro d’insonnia, quindi molte foto – e di questa cosa si è accorta Patricia catalogandole – sono tutte fatte più o meno allo stesso orario, di notte. In quei momenti, e nelle stanze d’albergo in generale, scrivo tantissimo, anche perché negli ultimi anni sono stato quasi più lì che a casa mia. Se fai 120 date, vuol dire che stai 200 giorni fuori, e quindi vivi in una sorta di bolla. E allora quando viaggio ormai mi porto dietro il tappetino per fare la meditazione, e lo scotch perché spesso le finestre non si possono oscurare e ti entra la luce, e poi ho tutta una serie di riti che devo fare, le candele, e tutta una serie di oggetti che colloco nello spazio per sentirmi più a mio agio, per far diventare quelle stanze delle piccole case… Le prolunghe, per esempio, perché negli alberghi c’è sempre il problema che vicino al letto o non hai proprio la presa, oppure ce n’è una sola, e magari devi caricare sia il telefono che il computer».
Potrebbe scrivere un manuale del bravo viaggiatore. «L’abbiamo già fatto, ma non l’abbiamo mai pubblicato», ride. «Insieme ad Antonio [Di Martino] abbiamo buttato giù dei consigli per gli albergatori, cinquanta o sessanta punti che effettivamente potrebbero portare a delle migliorie. Quei vecchi phon attaccati al muro, per dire, sono stupendi perché di base non servono a niente. Sono come un alito di anziano stanco che ti vuole asciugare i capelli, e non ce la fa mai».

Foto: Lorenzo Urciullo courtesy l’artista e Galleria Patricia Armocida
Parla di solitudine ma anche di «neoarcheologia dei luoghi», Colapesce. «Ho volutamente omesso i business hotel perché generano in me una reazione meno interessante, mi ispirano meno. Questa è una selezione di un certo tipo di alberghi, quelli degli anni ’70-’90 che sono rimasti fermi, uguali, e a breve spariranno. Per questo la chiamo neoarcheologia».
Ci spostiamo al piano di sotto, dove appunto partono altre storie. «Questa cosa della catalogazione me la porto dietro da sempre, probabilmente anche da un retaggio familiare. Non sono un accumulatore seriale compulsivo, però mi piace collezionare i dischi, per dire. L’oggetto in generale mi aiuta, sono come dei talismani che mi trascinano da qualche parte».
C’è una serie di foto di muffe sui muri, «anche quelle erano tantissime, abbiamo fatto una cernita mirata». E c’è la Sicilia, raggruppata sotto il titolo Giorni sfiniti. Uno scenario post-umano, un The Last of Us bruciato dal sole mediterraneo. «Erano una serie foto più sospese, più poetiche, detto fra virgolette. Non vuole essere il racconto della Sicilia in generale ma dei suoi paradossi, non c’è mai l’uomo ma comunque vedi la sua presenza». Le bottiglie d’acqua agli angoli delle strade «per non far pisciare i gatti»; una vecchia cartolina con la dedica “Con simpatia, tuo marito”, «come se non fosse rimasto più niente, solo la simpatia, che comunque è un concetto interessante»; delle sedie di plastica abbandonate su una spiaggia, «mi hanno detto “Hai copiato Bad Bunny”, e invece no: questa foto l’ho fatta quattro anni fa. Ma non credo nemmeno che Bad Bunny abbia copiato me…».

Foto: Lorenzo Urciullo courtesy l’artista e Galleria Patricia Armocida
Il viaggio della mostra parte da Instagram, «e qui ci sono volutamente solo le foto fatte con l’iPhone, che mi ha fatto iniziare a “guardare quadrato”, anche se ne avevo tante altre a risoluzione molto migliore». Ed è fatto di immagini quasi sempre senza didascalia, perché «l’idea di spiegare troppo le foto, un po’ come per le canzoni, non mi fa impazzire. Mi piace che chi viene a vedere la mostra o ascolta una canzone tragga le sue conclusioni da solo. Pure a me da fruitore non voglio mai che mi venga spiegato troppo».
Teresa e Anna è la serie sul «retaggio familiare» di cui parlava prima. E, anche se senza didascalie, questa storia è immediata. «Teresa e Anna le fotografo da sempre, era una serie già scritta. Teresa è mia nonna, Anna sua sorella. Vivono una di fronte all’altra da settant’anni e da settant’anni si copiano, fanno le stesse cose, leggono gli stessi libri, però non glielo puoi far notare perché se no si incazzano. Però è palese. Vedi? Le scarpe sono diverse ma simili, le gonne sono diverse ma simili, le case sono due case ma sembrano un’unica casa».

Foto: Lorenzo Urciullo courtesy l’artista e Galleria Patricia Armocida
Le due case sono messe sulla parete a specchio, come in una catalogazione gemellare involontaria. E in effetti ci sono gli stessi centrini, lo stesso porta-carta igienica, pure gli stessi vestiti. «Vedi, in questa foto mia nonna ha un maglione arancione, e quest’altro sdraiato sul letto (indica un’altra foto) è invece il maglione arancione di mia zia Anna, che è uguale». Fa molto “le case dei vecchi” di Paolo Sorrentino, «ma anche Alessandro Michele», dice Colapesce. «Quando faceva le campagne per Gucci io dicevo: “Ma scusa, andate a casa di mia nonna e trovate cose pure più fighe, allestimenti già fatti in sessant’anni…».
Partono, da quelle foto, altre storie. «Una volta mia zia Anna compra degli integratori per dimagrire. Per mesi mia nonna critica questa cosa, “è una merda, ti fai fregare da queste scemenze”. Poi mia madre di nascosto trova gli stessi integratori nel cassetto di mia nonna. C’è questo tipo di dinamica che è di amore e odio, o non so cosa, vivono in una loro bolla che per me però è bellissima, e la vedo sfumare piano piano. Tutte le volte che vado a trovarle vedo sempre meno vita, e questa cosa è triste. Perciò mi piaceva fermare almeno per un po’ questo momento, questa specie di Titanic che piano piano affonda, questo senso di comunità che c’è nei paesi, soprattutto al Sud, e che si sta perdendo».

Foto: Lorenzo Urciullo courtesy l’artista e Galleria Patricia Armocida
Passiamo al mare, «qua siamo al Plemmirio, questa è una mia poesia inedita del 2022». È una preghiera alla Madonna e al mare. C’è l’ombra delle palme, «perché nella pesca delle lampughe i pescatori mettono, al largo, delle foglie di palma con dei galleggianti: le corifene si mettono sotto perché cercano l’ombra e loro li tirano su con le reti». Ci sono le ombre del castello di Siracusa, e un rattoppo di catrame su una strada «che forse è la mia foto preferita», e le Eolie che «come cazzo le fotografi le Eolie, dopo che le hanno fotografate tutti?», e allora restano solo nuvole e orizzonti smarginati.
C’è una foto di scale che non portano a niente, o meglio: a una porta murata. «E questo racconta molto di che cos’è la Sicilia. La Sicilia negli ultimi anni è stata spesso raccontata con quella narrazione alla “Vita lenta”, quelle stronzate dei vecchi che leggono felici in riva al mare. Va bene per un certo tipo di immaginario Instagram, ma poi la realtà è molto diversa, molto più complessa». Citava prima Iddu, il film di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia con Toni Servillo ed Elio Germano di cui ha composto le musiche (e scritto la bellissima canzone La malvagità), nominate a David, Nastri e Soundtrack Star Award. La fotografia, il cinema. «Io scrivo per immagini, è sempre stato così. La fotografia non è mai stata il mio lavoro, ma quando avevo 15 anni ho fatto questo primo corso di fotografia nel mio paese e da lì me la porto dietro in maniera silente, ed è rimasta anche nella scrittura. Guardo tantissimo cinema, ascolto tantissime colonne sonore, quindi lavorare al film per me è stato bellissimo, mi sentivo un po’ a casa».

Foto: Lorenzo Urciullo courtesy l’artista e Galleria Patricia Armocida
Anche lì, era un racconto della Sicilia al di là dello stereotipo. «Era la mia prima vera esperienza, dovevo gestire una serie di cose a cominciare dal registro da tenere. Ho iniziato a scrivere sulla prima bozza della sceneggiatura, ed è vero che poi tutto cambia con i colori, le facce, le espressioni degli attori, ma da subito ho capito che non voleva essere una biografia di Matteo Messina Denaro (interpretato da Germano nel film, nda), anzi. Certi temi musicali che avevo scritto sulla base della sceneggiatura e che tendevano quasi a mitizzare Messina Denaro poi, anche con mio grande dispiacere, li ho dovuti buttare. Iddu è un film che racconta forse per la prima volta un vero mafioso siciliano non nel modo stereotipato che tutti conosciamo».
Iddu, e il lavoro su The Bad Guy (anche lì: mafia senza stereotipi, o con gli stereotipi capovolti), e il “musicarello” feat. Dimartino La primavera della mia vita. E adesso? Altro cinema? Altra musica? «Scrivere musica per il cinema mi piace, ma in Italia non è facile. Mi hanno proposto cose che non mi convincevano, che non mi avrebbero permesso di fare il lavoro che avrei voluto». E allora Colapesce aspetta, come in una stanza d’albergo con le finestre oscurate con lo scotch. «Mi sento un po’ in crisi con la canzone, e credo che la canzone stia vivendo una crisi in generale. Sono in crisi sia a scriverla che ad ascoltarla, forse per quello che sta succedendo nel mondo. Che mi frega di sentire i problemi d’amore di questo o di quello? Per ora l’ho messa da parte, poi vedremo». Può sempre tirare il cordino delle emergenze, magari stavolta qualcuno risponde.